Con sentenza emessa dalle Sezioni Unite, la Corte di cassazione ha affermato che le ricerche effettuate dalla polizia giudiziaria costituenti presupposto per la dichiarazione della latitanza, non devono necessariamente comprendere quelle nei luoghi specificati dal codice di rito ai fini della dichiarazione di irreperibilità e, di conseguenza, anche le ricerche all’estero quando ricorrano le condizioni previste dal comma quarto dell’art. 169 cod. proc. pen. 


 RITENUTO IN FATTO
1. Con ordinanza del 21 marzo 2013, il Tribunale di Verbania, in funzione di giudice della esecuzione, ha respinto la richiesta avanzata da **** **** intesa ad ottenere la declaratoria di non esecutività della sentenza di condanna alla pena di anni quattro e mesi sei di reclusione inflittagli dal Tribunale di Brescia il 2 febbraio 2011, notificata con estratto contumaciale al difensore di ufficio il 21 marzo 2011 e compresa nel provvedimento di cumulo di pene concorrenti emesso il 10 gennaio 2013 dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Verbania. Contestualmente, il Tribunale dichiarava inammissibile, perché non tempestiva, la richiesta subordinata del ricorrente di restituzione nel termine per proporre impugnazione.
Per i fatti oggetto del procedimento sopraindicato, l'**** era stato colpito da ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Brescia ed era stato dichiarato latitante con provvedimento del 12 marzo 2010: risultava infatti dagli atti che lo stesso si era allontanato dall'abitazione di Cassano d'Adda, nella quale precedentemente dimorava, e, in particolare, da alcune intercettazioni, era emerso che il medesimo si era allontanato dal territorio nazionale, da dove era fuggito, una volta appresa la notizia dell'arresto di alcuni connazionali, suoi correi, avvenuto il 17 febbraio 2010.
Il difensore dell'**** contestava la esecutività del titolo, sul presupposto della eccepita nullità del decreto di latitanza, dalla quale sarebbe derivata la irritualità della notificazione dell'estratto contumaciale. Con memoria integrativa, chiedeva, poi, in via subordinata, la restituzione nel termine per proporre impugnazione avverso la sentenza in questione e, in estremo subordine, l'applicazione dell'istituto di cui all'art. 671 cod. proc. pen.
Il Tribunale respingeva la richiesta avanzata in via principale, ritenendo che le notifiche effettuate nel procedimento a carico dell'**** fossero regolari, sul rilievo che l'art. 295 cod. proc. pen. non detta specifiche prescrizioni per la ricerca della persona da sottoporre a misura custodíale, sicché la polizia giudiziaria non è vincolata ad effettuare le ricerche secondo le prescrizioni dettate dall'art. 159 in tema di irreperibilità, mentre compete poi al giudice che emette il decreto di latitanza valutare la idoneità delle ricerche,nella specie reputate esaurienti alla luce del verbale redatto dalla polizia giudiziaria il 23 febbraio 2010.
Riteneva pertanto il Tribunale regolare anche la notifica dell'estratto contumaciale della sentenza di condanna, eseguita a norma dell'art. 165 cod. proc. pen. mediante consegna al difensore, mentre la richiesta subordinata di restituzione nel termine veniva dichiarata inammissibile in quanto proposta oltre i termini di legge.
2. Avverso l'ordinanza indicata in premessa ha proposto ricorso per cassazione il difensore, il quale ha rassegnato due motivi di impugnazione.
Nel primo si deduce violazione della disciplina in tema di intervento, assistenza e rappresentanza dell'imputato. In particolare, si osserva che l'attività di ricerca dell'imputato e della quale si dà atto nel verbale del 23 febbraio 2010, sarebbe incompleta, parziale e generica, in quanto nel verbale anzidetto si menzionerebbero non meglio precisate intercettazioni, dalle quali risultava che l'**** si trovava in Romania e che non intendeva fare ritorno in Italia, avendo appreso dell'arresto dei suoi complici, senza approfondire le ricerche in campo nazionale ed internazionale, con particolare riguardo alla Romania, come prescritto dall'art. 169, comma 4, cod. proc., pen., che si reputa applicabile in via analogica anche ai fini della emissione del decreto di latitanza. Tesi, questa, sostenuta in alcune pronunce di legittimità ed alle quali il ricorrente mostra di aderire. Alla luce di tali premesse, il ricorrente chiede l'annullamento della ordinanza emessa dal Tribunale di Verbania, oggetto di impugnativa, nonché la nullità del decreto di latitanza emesso il 12 marzo 2010 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Brescia e la nullità di tutte le notifiche e gli atti processuali svolti successivamente, con conseguente nullità ed ineseguibilità della sentenza di merito del Tribunale di Brescia. Viene correlativamente sollecitata la trasmissione degli atti al medesimo Tribunale, per la celebrazione ex novo del processo a carico dell'****.
Con il secondo motivo si deduce vizio di motivazione, non essendosi l'ordinanza impugnata pronunciata in ordine alla eccepita nullità della notifica della sentenza nelle forme previste per l'imputato latitante, nonostante la cessazione della condizione di latitanza a far data dal 19 gennaio 2011, allorché l'**** era stato tratto in arresto in Romania, in esecuzione del mandato di arresto europeo, emesso in altro procedimento, pendente davanti al Tribunale di Verbania. Ritiene, in particolare, il ricorrente, che, in ragione dello stretto legame tra le indagini di Brescia e quelle di Verbania (al punto che l'Autorità giudiziaria di Brescia si era rivolta alla polizia giudiziaria di Verbania per l'espletamento delle ricerche dell'****, prima di provvedere alla emissione del decreto di latitanza) sarebbe stato ragionevole trasmettere la comunicazione della avvenuta esecuzione del MAE anche alla autorità giudiziaria di Brescia, con la conseguente cessazione, da quel momento, dello stato di latitanza dell'imputato e con l'ulteriore effetto che da quella data tutti gli atti del procedimento pendente davanti al Tribunale di Brescia sarebbero stati affetti da nullità.
3. Con memoria del 12 novembre 2013, la difesa ha contestato le conclusioni scritte del Procuratore Generale presso questa Corte, volte a sollecitare il rigetto del ricorso, richiamando talune pronunce della giurisprudenza di legittimità che equiparano la latitanza alla irreperibilità.
4. Con ordinanza del 14 novembre 2013, la Prima Sezione penale, cui il ricorso era stato assegnato, ha rimesso il ricorso medesimo alle Sezioni Unite, avendo ravvisato l'esistenza di un contrasto di giurisprudenza.
A proposito della questione sollevata con il primo motivo di ricorso si registrano, infatti, pronunce divergenti.
Secondo un primo orientamento, l'art. 295 cod. proc. pen. non detta specifiche prescrizioni per le ricerche, con la conseguenza che la polizia giudiziaria non è vincolata all'osservanza dei criteri tipizzati per le ricerche previste in tema di irreperibilità, mentre è rimesso al giudice che emette il decreto di latitanza l'apprezzamento della idoneità in concreto delle ricerche medesime (Sez. 2, n. 25315 del 20/03/2012, Ndreko, Rv. 253072). Inoltre, l'accertata assenza del ricercato dal territorio nazionale, costituisce circostanza di per sé sufficiente ai fini della dichiarazione dello stato di latitanza, che cessa soltanto con l'arresto, mentre non ha alcuna influenza sulla permanente condizione di latitante l'eventuale accertamento della giuridica possibilità di eseguire notificazioni al'estero presso il luogo di residenza del destinatario (Sez. 1, n. 15410 del 25/03/2010, Arizzi, Rv. 246751).
Secondo altro orientamento, invece, la previsione di cui all'art. 169, comma 4, cod. proc. pen., ancorché dettata in vista dell'emissione del decreto di irreperibilità, deve ritenersi applicabile analogicamente anche ai fini della legittimità dell'emissione del decreto di latitanza, che è una forma di irreperibilità qualificata dalla volontaria sottrazione del soggetto ad un provvedimento coercitivo, essendo tale procedura elemento per valutare il grado di completezza delle ricerche (Sez. 6, n. 5929 del 22/01/2009, Bambach, Rv. 243064; Sez. 1, n. 9443 del 16/02/2010, Havaraj, Rv. 246631).
In senso contrario alla estensione analogica al latitante del regime previsto dall'art. 169, comma 4, cod. proc. pen. si è più di recente espressa Sez. 5, n. 46340 del 19/09/2012, Adler, Rv. 253636, ove si è in particolare sottolineata una incompatibilità logica della estensione al latitante delle ricerche all'estero dell'irreperibile, trattandosi di attività funzionale alla comunicazione della informativa sugli estremi del procedimento, con contestuale invito alla elezione del domicilio nel territorio nazionale; esigenza non ravvisabile nei confronti del latitante, il quale, per definizione, si sottrae al procedimento, ed il cui stato - a differenza dell'irreperìbile rintracciato - non cessa se non a seguito della esecuzione della misura restrittiva.
Il secondo motivo di ricorso, ha osservato la Sezione rimettente, attiene alla soluzione del quesito se la cessazione dello stato di latitanza, a seguito di arresto all'estero avvenuto in relazione ad altro procedimento penale, anche se non portato a conoscenza del giudice procedente, implichi la illegittimità delle successive notificazioni eseguite nella forma prevista dall'art. 165 cod. proc. pen.
Secondo un primo orientamento, la cessazione dello stato di latitanza comporta la illegittimità delle successive notifiche eseguite ai sensi dell'art. 165 cod. proc. pen., anche qualora non sia stata portata a conoscenza del giudice procedente, gravando su quest'ultimo il compito di verificare che la latitanza non sia cessata e non essendo previsto un onere di comunicazione a carico dell'imputato (Sez. 1, n. 22076 del 19/05/2009, Scollo, Rv. 244135). Si è pure puntualizzato che la notificazione degli atti all'imputato, arrestato all'estero nell'ambito di una procedura estradizionale o per altra causa, e di cui risulti agli atti il luogo della detenzione, con conseguente cessazione dello stato di latitanza prima dichiarato, deve compiersi secondo la disciplina prevista per l'imputato residente o dimorante all'estero e non secondo quella per la notifica al latitante (Sez. 5, n. 9746 del 05/12/2008, Foley, Rv. 242991).
Secondo un diverso orientamento, l'arresto dell'imputato all'estero per fini estradizionali comporta la cessazione del suo stato di latitanza, ma non implica la nullità delle successive notifiche, ancorché effettuate nelle forme previste per il latitante, in assenza di un atto che documenti la cognizione giudiziale del fatto al momento della notifica, e fino a quando il giudice procedente non abbia avuto notizia dell'arresto con modalità tali da far ritenere il fatto processualmente accertato (Sez. 6, n. 14239 del 15/12/2003, Farina, Rv. 231455).
5. Il Primo Presidente, con decreto del 3 gennaio 2014, ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, fissandone per la trattazione l’odierna udienza camerale.
6. Il Procuratore Generale, con requisitoria del 22 gennaio 2014, ha ribadito le già rassegnate conclusioni nella quali aveva richiesto il rigetto del ricorso, ed il difensore del ricorrente, con memoria pervenuta il 13 marzo 2014, ha nuovamente sollecitato l'accoglimento del ricorso, rievocando la giurisprudenza favorevole al proprio assunto.

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo quesito sul quale le Sezioni Unite sono state invitate a fornire una risposta riguarda il problema se le ricerche che la polizia giudiziaria è chiamata a svolgere a norma dell'art. 295 cod. proc. pen., in sede di esecuzione delle ordinanze che dispongono la custodia cautelare, e che costituiscono il presupposto per la dichiarazione di latitanza ai sensi dell'art. 296 del medesimo codice, debbano necessariamente comprendere quelle nei luoghi specificati ai fini della dichiarazione di irreperibilità e, dunque, anche le ricerche all'estero quando ricorrano le condizioni previste dall'art. 169, comma 4, cod. proc. pen.
Sul punto, infatti, si registrano orientamenti diversificati da parte della giurisprudenza di legittimità.
1.1. Secondo la tesi di gran lunga prevalente e che appare essere più consolidata nel tempo, la dichiarazione di latitanza non deve essere necessariamente preceduta dallo svolgimento all'estero delle ricerche tese a rintracciare il soggetto nei cui confronti è stato adottato il provvedimento cautelare e della cui dimora o residenza in un paese straniero si abbia avuto generica notizia. Si è infatti osservato che la distinzione concettuale che separa lo status dell'irreperibile da quello del latitante si riflette anche sui presupposti sui quali si fonda il relativo accertamento e la declaratoria della relativa condizione: nel caso della latitanza, infatti, la base normativa di riferimento è costituita dal verbale di vane ricerche, che la polizia giudiziaria redige a seguito della mancata esecuzione dell'ordinanza di custodia cautelare, indicando in modo specifico le indagini svolte nei luoghi nei quali si presume che l'imputato possa trovarsi, senza essere vincolata, quanto ai luoghi di ricerca, dai criteri indicati in tema di irreperibilità.
Il verbale redatto dalla polizia giudiziaria, peraltro, pur costituendo il presupposto procedimentale, non determina, ex se, automaticamente, la dichiarazione di latitanza, dal momento che il relativo provvedimento è subordinato alla positiva valutazione del giudice, il quale è chiamato ad effettuare un apprezzamento rebus sic stantibus circa la adeguatezza e completezza delle ricerche, senza che possano incidere sulla validità del provvedimento le eventuali informazioni pervenute successivamente. Quanto, poi, al carattere di esaustività delle ricerche effettuate, si è puntualizzato come il relativo scrutinio non debba essere condotto in base a parametri prefissati, come indicativamente enunciato dall'art. 159 cod. proc. pen., circa i luoghi di ricerca dell'imputato irreperibile, ma debba essere piuttosto ragguagliato alle specifiche e particolari condizioni del soggetto da ricercare, così da consentire al giudice, in relazione alle peculiarità del caso concreto, di valutare la completezza o meno delle indagini svolte. Dalle profonde differenze che è possibile cogliere tra gli istituti della latitanza e quello della irreperibilità, avuto riguardo alle diverse finalità che animano le disposizioni che li regolano, nonché ai diversi presupposti che ne stanno alla base - con particolare riferimento alla volontarietà che caratterizza la latitanza e che presuppone la conoscenza del procedimento e del provvedimento che è stato o può essere emesso, a differenza dell'irreperibile - se ne è tratto il corollario che «l'emissione del decreto di latitanza non deve essere preceduto dallo svolgimento all'estero di ricerche tese a rintracciare il soggetto nei cui confronti è stato adottato il provvedimento cautelare e della cui dimora o residenza in un paese straniero si abbia avuto generica notizia, non sussistendo i presupposti per l'applicazione in via analogica delle regole dettate per le ricerche dell'irreperibile dall'art. 169, comma 4, cod. proc. pen.». D'altra parte - si è pure puntualizzato - posto che tali ricerche sono finalizzate a conoscere l'indirizzo preciso dell'imputato al fine di spedire la raccomandata di cui al comma 1 dello stesso articolo, e metterlo in condizione di dichiarare o eleggere domicilio ai fini delle notificazioni, cosa che il latitante è certamente in grado di fare, risulterebbe «certo singolare avvertire con lettera raccomandata un imputato della esistenza di un provvedimento restrittivo a suo carico perché potrebbe essere interpretato come un invito alla fuga»; insomma - si è precisato - si comprometterebbe l'obiettivo tipico della misura cautelare custodiale che è quello dell'arresto dell'imputato», (ex plurìmis, Sez. 6, n. 47528 del 29/11/2013, Elezaj; Sez. 6, n. 43962 del 27/09/2013, Hassad, Rv. 256684; Sez. 5, n. 46340 del 19/09/2012, Adler, Rv. 253636; Sez. 2, n. 25315 del 20/03/2012, Ndreko, Rv. 253072; Sez. 5, n. 06/10/2011, Radu, Rv. 252154; Sez. 1, n. 15410 del 22/04/2010, Arizzi, Rv. 246751).
1.2. Secondo una linea interpretativa parzialmente difforme si collocano quelle pronunce le quali, pur senza giungere ad affermare l'applicazione analogica dell'art. 169, comma 4, cod. proc. pen., ritengono che, per poter definire esaustive le ricerche del latitante, le stesse devono essere eseguite secondo modalità analoghe a quelle previste per la dichiarazione di irreperibilità (Sez. 5, n. 9637 del 07/12/2011, Spaggiari, Rv. 251998).
Nel medesimo filone si iscrive anche la tesi secondo la quale l'emissione del decreto di latitanza debba essere preceduto, qualora esistano elementi investigativi circostanziati, dallo svolgimento di ricerche per rintracciare l'imputato all'estero, nonché dall'accertamento degli elementi fattuali per ritenere effettiva la sua volontà di sottrarsi al processo o alla cattura. Secondo tale orientamento, le ricerche all'estero andrebbero dunque attivate non in funzione di astratte e generiche possibilità, ma allorché esistano valide piste investigative che orientino verso il rintraccio o il tentativo di rintraccio della persona all'estero: ciò che conta, quindi, non è l'applicazione analogica dell'art. 169, comma 4, cod. proc. pen., quanto la effettiva completezza delle ricerche che sono prodromiche alla dichiarazione di latitanza (Sez. 3, n. 6679 del 10/01/2012, Vorovel, Rv .252444).
1.3. Solo in tempi relativamente recenti, si è registrato il formarsi della tesi - opposta a quella sino ad allora consolidata - favorevole a ritenere applicabile, in via analogica, anche ai fini della legittimità della emissione del decreto di latitanza, la particolare disciplina dettata dall'art. 169, comma 4, cod, proc. pen., pur se stabilita nella sua dimensione normativa in funzione della emissione del decreto di irreperibilità.
Si è, infatti, inizialmente osservato che le ricerche postulate dall'art. 295 cod. proc. pen., per potersi ritenere esaurienti, devono estendersi anche al paese estero ove l'imputato si sia verosimilmente rifugiato; e ciò in quanto la previsione dettata dall'art. 169, comma 4, cod. proc. pen., pur se dettata in vista della emissione del decreto di irreperibilità, è applicabile per analogia anche in tema di latitanza, dovendosi, quest'ultima, «ritenere una forma di irreperibilità qualificata dalla volontaria sottrazione del soggetto ad un provvedimento coercitivo» (Sez. 1, n. 17592 del 24/04/2007, Dalipi, Rv. 236504; nel medesimo senso, fondato sulla pretesa assimilabilità della latitanza alla irreperibilità, Sez. 6, n. 5929 del 22/01/2009, Bambach, Rv. 243064; Sez. 1, n. 9443 del 16/02/2010, Havaraj, Rv. 246631).
Traendo spunto da tali affermazioni e dagli approdi cui era pervenuta la Corte costituzionale nella sentenza n. 98 del 1977 a proposito della corrispondente disciplina della latitanza nel codice abrogato, si è poi puntualizzato che la situazione del latitante - vale a dire dell'imputato che si sottrae volontariamente, e al di fuori di qualsiasi presunzione normativa,alla esecuzione di un provvedimento di custodia cautelare - può effettivamente essere diversa da quella dell'irreperibile, ma non per i modi e le estensioni delle ricerche previste per entrambi, differenziandosi le due situazioni soltanto in ragione dei relativi presupposti, che legittimano, per entrambi i casi, il ricorso alla notificazione attraverso una fictio iuris: nel caso del latitante, collegata e giustificata da una scelta che deve essere verificata come volontaria; nel caso dell'irreperibile, in quanto resa necessaria dalla impossibilità oggettiva di effettuare le notificazioni secondo i modi ordinari.
Da ciò l'assunto secondo il quale il sistema delle disposizioni che consentono le notificazioni attraverso mere presunzioni, così come le regole che disciplinano il giudizio in contumacia, alla cui instaurazione le prime concorrono, deve essere interpretato con particolare cautela, «perché quello di partecipare al giudizio è un diritto fondamentale dell'imputato riconducibile all'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, riprodotto nell'art. Ili Cost., e l'ordinamento processuale deve tendere ad evitare che il giudizio penale si svolga in assenza dell'imputato» (Sez. 1, n. 17703 del 04/03/2010, Rozsaffy, Rv. 247061).
L'affermazione secondo la quale i medesimi principi affermati dalla Corte di Strasburgo nelle note condanne subite dall'Italia nei casi **** e **** - oltre allo "storico" caso **** - e che hanno indotto il legislatore a modificare l'art. 175 cod. proc. pen., devono guidare l'esegesi dell'art. 296 cod. proc. pen., pur con i dovuti adattamenti, finisce, dunque, per essere centrale nella individuazione della ratio esserteli dell'orientamento che qui ora si esamina, giacché, al di là delle strutture normative, ciò che secondo tali pronunce deve orientare il giudice, è il soddisfacimenti di garanzie di effettività che assicurino il rispetto dei canoni del giusto processo. E' ben vero, infatti - si è affermato - che, ai fini dell'accertamento della volontarietà della sottrazione al provvedimento restrittivo della libertà personale, che costituisce il presupposto psicologico della declaratoria di latitanza, sono utilizzabili anche presunzioni, con la conseguenza che «non occorre dimostrare la conoscenza della effettiva emissione del provvedimento da parte del catturando, essendo sufficiente che l'interessato si ponga in posizione di irreperibilità sapendo che quel provvedimento può essere emesso (Sez. 1, n. 48739 del 25/11/2994, Lusha, Rv. 239390) e cioè che, a fronte di un verbale completo di vane ricerche possa ricavarsi la prova della volontarietà della scelta dell'interessato di sottrarsi alla esecuzione del provvedimento cautelare rendendosi irreperibile sapendo che il provvedimento restrittivo è stato o comunque sta o può essere emesso». Tuttavia, si è concluso, la regolarità della dichiarazione di latitanza deve essere condotta sulla falsariga di una interpretazione della norma ispirata a criteri di garanzia che consentano di affermare come provato che l'imputato sia stato a conoscenza del procedimento e si sia volontariamente sottratto alla cattura. Altrimenti, «l'erronea dichiarazione di latitanza, formulata in assenza di prove della volontaria irreperibilità, non può che determinare la nullità degli atti conseguenti, ivi compresa la citazione a giudizio e la sentenza di poi pronunciata» (Sez. 1, n. 5032 del 17/12/2008, Caccavallo, Rv. 243345).
2. L'orientamento prevalente, che deve senz'altro essere preferito, ha adeguatamente messo in luce le profonde differenze, strutturali e teleologiche, che concettualmente separano fra loro gli istituti della irreperibilità e quello della latitanza, fondando proprio sulla ontologica autonomia degli istituti medesimi e sulle connotazioni extra ordinem che li caratterizzano l'impossibilità di procedere ad una applicazione analogica della disciplina prevista dall'art. 169, comma 4, cod. proc. pen. anche agli effetti della latitanza.
Lo stato di latitanza, infatti, come puntualizza l'art. 296 del codice di rito, presuppone la volontaria sottrazione del soggetto alla cattura e, una volta accertato tale status, lo stesso permarrà per tutto il tempo in cui il soggetto continuerà a sottrarsi volontariamente alla cattura (Sez. 4, n. 2024 del 02/09/1996, Turchetti, Rv. 206262, ove si è ritenuta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 296 cod. proc. pen. in relazione all'art. 3 della Costituzione, sollevata sotto il profilo che vi sarebbe disparità di trattamento tra la condizione del latitante e quella dell'irreperibile per il quale sono previste nuove ricerche; e ciò, proprio in considerazione del fatto che non può ravvisarsi una omologia di situazione procedimentale tra le citate condizioni: mentre, infatti - si è osservato - la dichiarazione, solo formale, di irreperibilità necessita di essere controllata secondo cadenze individuate dal legislatore, potendo tale condizione processuale risolversi con l'individuazione di un domicilio dell'interessato, lo stato di latitanza non può non permanere per tutto il tempo in cui. Il soggetto si sottrae volontariamente alla cattura e si astiene dal costituirsi).
Uno stato, quindi, che potrà cessare, oltre che per le cause indicate nell'art. 296, comma 4, cod. proc. pen. - vale a dire in virtù di quegli eventi, tipici e nominati, che incidono sulla stessa fattispecie cautelare, come la revoca o la perdita di efficacia della misura, o la estinzione del reato o della pena cui la misura stessa si riferisce - soltanto con la cattura o la costituzione spontanea, ovvero con l'arresto dell'imputato all'estero a fini estradizionali (Sez. 2, n. 31253 del 18/09/2002, Santolla, Rv. 222358; Sez. 1, n. 30804 del 27/06/2002, Maggio, Rv. 222357).
Da ciò, la caducità del decreto di irreperibilità, a fronte del perdurante valore del decreto di latitanza. A differenza, infatti, del provvedimento che dichiari lo stato di irreperibile, che abbisogna di nuove ricerche e di nuovo provvedimento dichiarativo ad ogni cadenza processuale, secondo un meccanismo reiterativo tipico delle situazioni mutevoli e precariamente accertate, la dichiarazione di latitanza varrà per tutto il processo (ma solo per "quel" processo, a norma dell'art. 296, comma 3, cod. proc. pen.), proprio in ragione della "volontarietà" del relativo status e della condizione perenne di "ricercato" (per di più, ad opera di tutte le forze di polizia, e non soltanto dell'organo delegato per la esecuzione della misura) che caratterizza la posizione del latitante (Sez. 1, n. 29503 del 01/03/2013, Masha, Rv. 256107; Sez. 5, n. 2483 del 27/10/1998, Vista, Rv. 213075; Sez. 5, n.5807 del 18/12/1997, Volpe, Rv. 210752).
Mentre, dunque, la latitanza produce automaticamente effetti processuali, in quanto frutto di una scelta volontaria del soggetto di sottrarsi ad un provvedimento custodíale e conseguentemente di non presenziare al procedimento, la irreperibilità è una condizione di fatto, la quale può derivare da cause estranee ad una "scelta" dell'imputato; può quindi consistere in uno status non soltanto involontario, ma anche incolpevole: con la conseguenza di assumere connotazioni processualmente rilevanti, tanto agli effetti della conoscenza della accusa e del procedimento a proprio carico, quanto ai fini del diritto dì partecipare al giudizio.
Latitanza e irreperibilità, pertanto, rappresentano il convergere di condizioni soggettive profondamente diverse e fra loro non assimilabili, vuoi sul piano delle garanzie e delle correlative strutture normative di riferimento, vuoi su quello delle reciproche "compatibilità" sul versante degli sviluppi ermeneutici. Le ricerche, infatti - come si è già osservato - anche dopo l'emissione del decreto che dichiari lo stato di latitanza, non si arrestano, ma continuano, proprio perché la finalità dell'istituto è quella di assicurare l'esecuzione del provvedimento e porre fine, con al cattura dell'imputato, allo stato di latitanza. D'altra parte, in questa prospettiva, non avrebbe alcun senso circoscrivere le ricerche del latitante ai luoghi preso i quali devono essere attivate "particolarmente" (e dunque secondo una rassegna indicativa, ma non necessariamente esaustiva) le nuove ricerche dell'imputato in vista della adozione del decreto di irreperibilità, secondo le prescrizioni dettate dall'art. 159 del codice di rito.
Per altro verso, evocando l'art. 296 cod. proc. pen. il genus della latitanza anche nella ipotesi della sottrazione volontaria ad un ordine di esecuzione in vinculis, a norma dell'art. 656 cod. proc. pen., con riverberi, dunque, di tipo per così dire, "sostanziale", l'ordinamento fa mostra di assegnare al latitante una condizione che assume spessore ed efficacia diversi dal semplice proiettarsi sul versante del regime delle notificazioni, che, a ben guardare, finisce per essere l'unico terreno di raffronto fra gli istituti che vengono qui in discorso.
Non è un caso, quindi, che questa Corte abbia avuto modo di affermare, in passato, che «il provvedimento dichiarativo della latitanza ha carattere strumentale, in funzione del perseguimento di ben precise finalità; ne consegue - si è affermato - che non avrebbe senso una dichiarazione di latitanza fine a sé stessa, avulsa dalle esigenze di rispetto delle garanzie di legge, in relazione sia alla sussidiaria procedura notificatoria che al conferimento al difensore della rappresentanza del condannato. Dall’interpretazione dell'art. 296 cod. proc. pen. - è stato ulteriormente puntualizzato - si ricavano due distinti profili della disciplina della latitanza: uno sostanziale, afferente alla qualità del latitante, connessa alla consapevole sottrazione ad una delle misure previste nel primo comma (compreso l'ordine di carcerazione), ed un profilo formale, inerente alla mera declaratoria di quella condizione, i cui effetti processuali sono previsti per il solo latitante rispetto ad una misura custodiale e non già per il latitante rispetto ad una sentenza definitiva, per il quale il legislatore non ha previsto, neppure nell'art. 656 cod. proc. pen., relativo all'esecuzione delle pene detentive, alcun riferimento alla disciplina del decreto di latitanza, posto che in questo secondo caso è da ritenere sufficiente che lo stato di latitanza risulti dal verbale di vane ricerche (nella fattispecie la Corte ha rigettato il ricorso avverso il provvedimento con cui il Tribunale, in qualità di giudice dell'esecuzione, aveva respinto la richiesta del p.m. di dichiarazione di latitanza per il condannato che si sottrae all'ordine di carcerazione)»: Sez. 5, n. 283 del 19/01/2000, Ficarra, Rv. 215831.
In tale quadro di riferimento deve quindi convenirsi con la giurisprudenza di questa Corte che ha escluso la possibilità di ricorrere alla analogia per rendere applicabile anche alla disciplina della latitanza il regime delle ricerche all'estero di cui all'art. 169, comma 4, cod. proc. pen., prodromico alla declaratoria di irreperibilità. Il ricorso alla analogia, infatti, è consentito dall'art. 12 delle preleggi solo quando manchi nell'ordinamento una specifica norma regolante la concreta fattispecie e si renda, quindi, necessario porre rimedio ad un vuoto normativo altrimenti incolmabile in sede giudiziaria (Sez. L, n. 9852 del 06/07/2002, Rv. 555598). Ove poi sia effettivamente riscontrabile nel sistema una simile lacuna, l'applicazione della disciplina dettata per un caso "analogo" sconta l'esigenza che tra la fattispecie positivamente disciplinata e quella cui tale normativa debba essere estesa sussista una identità di ratio essendi, vale a dire che le due situazioni poste a raffronto siano governate dall'identico fondamento razionale: presupposto, questo, la cui sussistenza può essere verificata all'esito di un processo logico che consiste nel risalire dalle norme espresse e particolari al principio che le governa, per accertare se in questo rientri anche il caso non preveduto (Sez. 1 civ., n. 2404 del 23/11/1965, Rv. 314487).
Ebbene, a proposito del primo presupposto per fare legittimamente ricorso alla analogia - vale a dire la sussistenza di un "vuoto" normativo - è agevole avvedersi di come l'art. 295 cod. proc. pen. non prevede, ratione cognita, alcun criterio per l'attività di ricerca del "catturando", dal momento che essa deve essere per definizione esauriente al fine di conseguire la esecuzione della misura, e completa agli effetti della verifica che il giudice, a norma del comma 2 dello stesso articolo, deve compiere in vista della declaratoria dello stato di latitanza. Anzi, e come è stato puntualmente messo in luce, la previsione di un "criterio legale" di ricerca potrebbe addirittura rivelarsi strutturalmente eccentrico rispetto alla funzione che quelle ricerche devono assolvere, dal momento che il soddisfacimento di quel criterio in tanto potrebbe avere un senso, in quanto destinato a far sorgere una "presunzione di completezza" che, al contrario, deve cedere il passo ad un paradigma di "effettività", calibrato sulla falsariga delle peculiarità concrete che il singolo caso (e il singolo soggetto da catturare) può presentare.
Quanto, poi, al profilo della eadem ratio, è del tutto evidente la chiara distonia che impedisce qualsiasi interferenza tra l'art. 169 e l'art. 295 del codice di rito: mentre il primo, infatti, è volto a dettare una specifica disciplina per le notificazioni degli atti nei confronti dell'imputato residente o dimorante all'estero, ed esaurisce, quindi, la propria portata all'interno degli strumenti destinati a portare gli atti del processo a conoscenza del relativo destinatario, l'art. 295, e le ricerche che in esso sono previste, si rivolgono ad una ben diversa funzione "esecutiva", che vede il destinatario come mero "soggetto passivo", che non deve essere informato dell'atto - per sua natura "a sorpresa" - ma che lo deve soltanto subire. Per altro verso, la eventuale estensione all'estero delle ricerche, non sarebbe funzionale ad un meccanismo di notificazione degli atti, ma di esecuzione della misura attraverso i canali della cooperazione giudiziaria: il che profilerebbe, addirittura, una contraddittorietà di ratio, dal momento che una previsione di garanzia nei confronti dell'imputato dimorante all'estero sarebbe "utilizzata" per scopi coercitivi, in vista dell'arresto a fini estradizionali (Sez. 6, n. 47528 del 13/01/2013, Elezaj).
D'altra parte, lo stesso assunto, posto a base della qui contestata applicazione analogica dell'art. 169, comma 4. cod. proc. pen. anche al latitante, secondo cui quest'ultimo altro non sarebbe «che un irreperibile qualificato dalla volontaria sottrazione» alla esecuzione della misura custodiale, appare essere fortemente criticabile. Anche a voler prescindere, infatti, dalla singolarità rappresentata dal fatto che soltanto una parte della disciplina prevista per l'irreperibile (le ricerche all'estero) sarebbe estensibile al latitante, sembra dirimente osservare che l'assimilazione tra le due condizioni non si basa sulla disamina delle "qualità" che normativamente definiscono lo status dell'uno rispetto a quello dell'altro, ma esclusivamente sul modo di essere del regime delle notificazioni, finendo così per accomunare l'attività dell'ufficiale giudiziario a quella dell'organo destinato ad eseguire la misura custodiale.
Al contrario,, la "qualità" del latitante è normativamente definita dalla sequenza procedimentale scandita dagli artt. 295 e 296 cod. proc. pen., al di fuori di qualsiasi nesso con il regime delle notificazioni, e secondo una articolazione del tutto autosufficiente, che si giustifica nell'alveo del procedimento cautelare: le ricerche, dunque, sono esse stesse "procedimentalizzate", al punto da poter formare oggetto di specifica attività di indagine, ben testimoniata dalla possibilità di impiegare strumenti tipici della fase investigativa, come le intercettazioni di conversazioni o comunicazioni telefoniche e di altre forme di telecomunicazione. Nulla a che vedere, dunque, con le forme di "rintraccio" dell'imputato ai fini della notificazione degli atti del procedimento. D'altra parte, se fosse vera la premessa - il latitante assumerebbe, nella sostanza, i connotati di un "irreperibile volontario" - non vi sarebbe stato alcun bisogno di disciplinare, con una previsione a sé stante, le notificazioni all'imputato latitante o evaso, posto che, in una simile prospettiva, poteva reputarsi sufficiente un mero rinvio alle forme di notificazione previste per gli irreperibili.
Ma l'art. 165 cod. proc. pen. rivela, invece, anch'esso un profilo di "autonomia" che merita di essere scandagliato. Accanto, infatti, alla previsione per la quale le notificazioni all'imputato latitante o evaso sono eseguite mediante consegna di copia al difensore, il comma 2 stabilisce che, ove l'imputato non abbia un difensore di fiducia, l'autorità giudiziaria designa un difensore di ufficio: il che già proietta la disposizione in un quadro di disciplina "generale", destinata ad operare anche al di fuori dello specifico alveo delle notificazioni degli atti. Ma è il comma 3 dello stesso articolo a rivelare come la "qualità" del latitante assuma una dimensione normativa non riconducibile allo stato di irreperibilità, giacché si stabilisce il principio - stavolta estraneo al tema delle notificazioni - per il quale l'imputato latitante o evaso «è rappresentato ad ogni effetto dal difensore», rendendo quindi la relativa figura analoga a quella di un "contumace qualificato". D'altra parte, è pure significativo che l'art. 420-bis cod. proc. pen., escluda la necessita della rinnovazione della citazione per l'ipotesi in cui si ritenga che l'imputato non abbia avuto conoscenza effettiva della stessa, nei casi di notificazione mediante consegna al difensore previsti dagli artt. 159,161, comma 4, e 169, ma non menzioni l'ipotesi di notificazione al difensore per il latitante o l'evaso, omettendo di richiamare proprio l'art. 165 del codice di rito: e ciò, evidentemente, in ragione delle peculiarità che caratterizzano la latitanza ed il relativo stato di volontaria sottrazione alla cattura ed al processo.
3. Il punto, peraltro, su quale la giurisprudenza sembra convergere e che costituisce, a ben guardare, la ragion d'essere degli sforzi interpretativi volti a soddisfare l'esigenza di evitare procedimenti in absentia che si presentino, in concreto, di dubbia compatibilità con i valori del giusto processo tracciati tanto dall'art. Ili Cost. che dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, ruota attorno alla necessaria rigorosità che deve orientare il sindacato giurisdizionale volto ad accertare l'esistenza dei presupposti per la declaratoria di latitanza. Il che sposta l'asse della disamina sui criteri che devono muovere un siffatto scrutinio.
Gli artt. 295 e 296 del codice di rito, individuano, come si è già osservato, alcuni snodi di significativa pregnanza.
L'art. 295, comma 1, stabilisce, anzitutto, che, se la persona nei confronti della quale è stata disposta la misura non viene "rintracciata" e non è possibile procedere agli adempimenti di cui all'art. 293, l'ufficiale o l'agente di polizia giudiziaria redige ugualmente il verbale, «indicando specificamente le indagini svolte». Si tratta, dunque, di una attività composita, che passa da una fase di tipo constatativo - il mancato "rintraccio"- ad una di tipo squisitamente investigativo, che può anche assumere caratteri di notevole complessità. Delle indagini svolte deve poi essere fornita indicazione "specifica" nel relativo verbale, dal momento che è proprio dalla analitica rassegna degli accertamenti che può apprezzarsi il "merito" delle scelte compiute dalla polizia giudiziaria e della impossibilità di battere altre strade che possano condurre alla cattura del latitante.
Tra il verbale di vane ricerche e la dichiarazione di latitanza si inserisce, poi, il sindacato del giudice, senza che vi sia alcun automatismo tra gli esiti negativi delle prime e la "ratifica" giurisdizionale che quella declaratoria comporta: lo stato di latitanza, infatti, è dichiarato soltanto se il giudice ritenga «le ricerche esaurienti». Si tratta, però, di una esaustività investigativa che deve essere concretamente misurata in una duplice e concorrente prospettiva: da un lato, infatti, le indagini svolte per pervenire al rintraccio del latitante devono essere tali da escludere possibilità ulteriori ai fini della esecuzione della misura, rendendo quindi evidente che, laddove sussistano concreti elementi che indichino un preciso luogo di rifugio all'estero del soggetto, gli strumenti di cooperazione internazionale di polizia non possono non essere attivati; dall'altro, le ricerche e le correlative indagini devono consentire al giudice di affermare la sussistenza del presupposto della volontaria sottrazione alla esecuzione della misura, giacché, altrimenti, la declaratoria di latitanza risulterebbe priva dell'accertamento "sostanziale" che qualifica la condizione normativa di quello status. Tutto ciò sta quindi a significare che, ove non risulti positivamente riscontrata la completezza delle ricerche, nella duplice prospettiva di cui innanzi si è detto, il giudice sarà chiamato a disporre ulteriori accertamenti, proprio perché non risultano positivamente acciarati, alla luce delle peculiarità che possono caratterizzare le singole vicende, fra le quali - anche e forse soprattutto - le condizioni personali del ricercato, i presupposti cui l'ordinamento subordina la declaratoria dello stato di latitanza.
4. In risposta al primo dei due quesiti posti a base della rimessione del ricorso a queste Sezioni Unite deve dunque rispondersi nei termini seguenti:
«Tenuto conto delle differenze che rendono non comparabili fra loro la condizione della irreperibilità e quella della latitanza, le ricerche effettuate dalla polizia giudiziaria ai sensi dell'art. 295 cod. proc. pen. non devono necessariamente comprendere quelle nel luoghi specificati dal codice di rito ai fini della dichiarazione di irreperibilità e, di conseguenza, anche le ricerche all'estero quando ricorrano le condizioni previste dall'art. 169, comma 4, dello stesso codice. La polizia giudiziaria, tuttavia, deve compiere le ricerche e svolgere le relative indagini in modo tale che le stesse risultino esaustive al duplice scopo di consentire al giudice di valutare, in sede di adozione del decreto di latitanza, da un lato, l'impossibilità di procedere alla esecuzione della misura custodíale per l'assenza di ulteriori elementi che consentano di pervenire al rintraccio dell'imputato, e, dall'altro, la volontarietà del ricercato dì sottrarsi alla esecuzione della misura emessa nei suoi confronti. Con la conseguenza che, ove dalle indagini emergano concreti elementi che denotino la presenza in un determinati luogo all'estero della persona ricercata, la polizia giudiziaria sarà chiamata ad attivare gli strumenti di cooperazione internazionale, atti a consentire /'/ rintraccio dell'imputato, in vista della eventuale instaurazione del procedimento di consegna attraverso i canali della collaborazione giudiziaria».
5. Il secondo quesito devoluto alle Sezioni Unite riguarda, invece, l'ipotesi in cui lo stato di latitanza cessi a seguito dell'arresto avvenuto all'estero in relazione ad altro procedimento, e ci si interroga, di conseguenza, se tale evento, anche se non portato a conoscenza del giudice che procede, risolva ex se la condizione di latitanza in riferimento a qualsiasi procedimento, determinando la illegittimità delle successive notifiche eseguite nella forma prevista per l'imputato latitante dall'art. 165 cod. proc. pen.
Si tratta di tematica più volte scandagliata dalla giurisprudenza, anche se sotto il duplice riflesso rappresentato, non soltanto dal regime delle notificazioni applicabili, ma anche dell'impedimento a comparire derivante dallo stato detentivo al di fuori del territorio nazionale, con la conseguente preclusione, per il giudice, di disporre la traduzione del detenuto, per consentirgli di partecipare al processo a suo carico.
5.1. Sotto quest'ultimo profilo, il punto di partenza è rappresentato dalla sentenza **** delle Sezioni Unite, nella quale si è affermato il principio secondo il quale l'arresto dell'imputato all'estero nell'ambito di una procedura estradizionale o per altra causa comporta la cessazione dello stato di latitanza (Sez. U, n. 21035 del 26/03/2003, ****, Rv. 224134). Nel frangente, la Corte osservò che il diritto dell'imputato alla autodifesa afferisce ad un diritto fondamentale, la cui possibilità di esercizio connota, indefettibilmente, il giusto processo, con la conseguenza che le norme che lo riguardano devono essere di stretta interpretazione. In tal senso - osservò ancora la Corte - depone il nuovo testo dell'art. Ili Cost., il quale, nello stabilire il principio del contraddittorio nella formazione della prova, ne avrebbe elevato a rango costituzionale la sua premessa logico-giuridica, ovvero il diritto dell'imputato ad essere presente al suo processo. Conclusione, questa, verso la quale convergono anche le fonti internazionali ed in particolare la Convenzione europea dei diritti dell'uomo per come interpretata dalla Corte di Strasburgo, la cui giurisprudenza ha puntualizzato che la presenza dell'imputato al suo processo, anche se non espressamente prevista dall'art. 6 della Convenzione tra i diritti minimi dell'imputato, assume essenziale rilievo quale aspetto fondamentale del giusto processo; con la conseguenza che la normativa dei singoli Stati deve «giungere ad un ragionevole equilibrio tra il diritto di partecipare personalmente all'udienza e gli interessi pubblici, ed in particolare quelli della giustizia, scoraggiando le assenze ingiustificate, senza tuttavia giungere all'uso della minaccia della privazione dei diritti dell'uomo per costringere l'imputato ad essere presente».
Va rammentato, però, che la fattispecie oggetto della pronuncia di cui ora si è detto concerneva la condizione di un soggetto detenuto all'estero in esecuzione di misura cautelare disposta nel medesimo procedimento ed in attesa di estradizione, con la conseguenza che la Corte, attenendosi al caso concreto sottoposto al suo esame, ha solo accennato , richiamando per lo più precedenti arresti, al profilo relativo alla necessità che il giudice procedente abbia contezza della condizione di detenuto all'estero dell'imputato, che si è ritenuta essere causa di legittimo impedimento.
Il tema è stato invece affrontato ex professo nella successiva sentenza Arena, sempre delle Sezioni Unite, ove si è affermato il principio per il quale la conoscenza, da parte del giudice, di un legittimo impedimento a comparire dell'imputato ne preclude la dichiarazione di contumacia, a meno che l'imputato stesso non acconsenta alla celebrazione dell'udienza in sua assenza o, se detenuto, rifiuti di assistervi. Principio, questo, a fronte del quale si è peraltro puntualizzato che la detenzione dell'imputato per altra causa, sopravvenuta nel corso del processo e comunicata solo in udienza, integra un'ipotesi di legittimo impedimento a comparire e preclude la celebrazione del giudizio in contumacia, anche quando risulti che l'imputato medesimo avrebbe potuto informare il giudice del sopravvenuto stato di detenzione in tempo utile per la traduzione, in quanto non è configurabile a suo carico, a differenza di quanto accade per il difensore, alcun onere di tempestiva comunicazione dell'impedimento (Sez. U, n. 37483 del 26/09/2006, Arena, Rv. 234600).
All'esito di una approfondita disamina del quadro della normativa nazionale e convenzionale, con particolare riferimento alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, già soffermatasi più volte sul tema del processo in absentia nei casi ****, **** e ****, che hanno visto l'Italia soccombente, la Corte giunge ad affermare che il sistema è improntato ai seguenti principi: a) la conoscenza di un legittimo impedimento preclude la dichiarazione di contumacia, e solo ove l'imputato impedito esplicitamente consenta che l'udienza avvenga in sua assenza, o, se detenuto, rifiuti di assistervi, trova applicazione l'istituto dell'assenza, ai sensi dell'art. 420-quinquies, cod. proc. pen.; b) costituisce legittimo impedimento la detenzione dell'imputato per altra causa anche nel caso in cui restasse inerte, ben potendo comunicare al giudice la sua condizione in tempo utile per consentirne la traduzione; c) per l'effetto di tali principi, la accertata presenza di un legittimo impedimento, del quale il giudice sia comunque reso edotto, in mancanza di qualsiasi dichiarazione di rinuncia, non sortisce alcun effetto abdicativo e, in mancanza di un atto di tal genere, la dichiarazione di contumacia è illegittimamente resa.
La giurisprudenza successiva ha, nella quasi totalità delle pronunce, dato seguito alle linee tracciate dalle Sezioni Unite, conformandosi al principio secondo cui l'arresto dell'imputato all'estero, anche per altra causa, comporta la cessazione dello stato di latitanza, puntualizzando, però, sempre, la necessità che lo stato di detenzione sia noto all'autorità giudiziaria procedente. Si è così esclusa ogni invalidità in un caso nel quale il decreto che dispone il giudizio era stato notificato ai sensi dell'art. 165 cod. proc. pen. dopo la cattura dell'imputato all'estero, ma nella assenza di qualunque atto che documentasse la cognizione giudiziale al momento della notifica. E ciò, sull'assunto che l'arresto avvenuto all'estero dell'imputato latitante produce i suoi effetti in relazione sia al regime delle notificazioni sia alla legittimità dell'impedimento dell'imputato a partecipare al processo, a condizione, peraltro, che la circostanza emerga dagli atti e sia quindi nella sfera di conoscenza della autorità giudiziaria (Sez. 6, n. 14239 del 15/12/2003, Farina, Rv. 231455).
Nel medesimo senso, si è affermato che l'arresto dell'imputato all'estero per una causa diversa dall'estradizione comporta la cessazione dello stato di latitanza, purché lo stato di detenzione sia noto all'autorità giudiziaria che procede; infatti - si è osservato - per l'imputato latitante, a differenza di quello irreperibile, non sono necessarie nuove ricerche prima della emanazione del decreto di citazione e, inoltre, l'assoluto impedimento a comparire, ai sensi dell'art. 420-ter , comma 1, cod. proc. pen., deve "risultare" dagli atti e non deve essere verificato dal giudice. D'altra parte - si è ancora rilevato - una simile regola vale a scongiurare l'aberrante ipotesi che il giudice, prima di procedere al dibattimento, debba svolgere una indagine in ogni procedimento in cui l'imputato non sia presente per verificare se ciò sia dovuto «ad assoluta impossibilità a comparire per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento». Invece, è proprio la limitazione ai casi in cui l'impedimento "risulti" dagli atti del procedimento a rappresentare il giusto punto di equilibrio tra il fondamentale diritto soggettivo dell'imputato di presenziare al dibattimento rispetto all'altrettanto fondamentale valore della durata ragionevole del
processo; principi, questi, entrambi preservati dall'art. 111 Cost. (Sez. 4, n. 36780 del 30/06/2004, Rv. 229760).
In linea con tale orientamento si è anche più di recente affermato che la detenzione all'estero anche per altra causa, sempre che risulti dagli atti, costituisce legittimo impedimento a comparire a dibattimento (nella Corte ha ritenuto legittima la dichiarazione di contumacia effettuata nel giudizio di merito posto che il difensore si era limitato a segnalare all'udienza lo stato di detenzione in Romania dell'imputato senza ulteriori precisazioni): Sez. 2, n. 24535 del 29/05/2009, Volpe, Rv. 244252.
In termini ancor più rigorosi, pur ribadendosi il principio per il quale la causa di cessazione della latitanza rileva solo se portata a conoscenza del giudice procedente, si è anche affermato che l'accertata assenza del ricercato del territorio dello Stato è, di per sé, circostanza sufficiente per la dichiarazione della latitanza, che cessa soltanto con l'arresto e non anche con la giuridica possibilità di eseguire notificazioni all'estero in base a indicazioni circa il luogo di residenza del destinatario latitante (Sez. 1, n. 15410 del 25/03/2010, Arizzi, Rv. 246751).
L'indirizzo, del tutto prevalente, che si è sin qui esposto, ha trovato da ultimo eco in Sez. 1, n. 29503 del 01/03/2013, ove si è affermato il principio per il quale le notificazioni all'imputato latitante devono essere eseguite mediante consegna di copia al difensore di fiducia o d'ufficio sino a quando non sia stata processualmente accertata la cessazione della latitanza, senza che sia necessaria la rinnovazione delle ricerche ad ogni passaggio di fase o grado.
5.2. A fronte dell'orientamento pressoché unanime e consolidato di cui innanzi si è detto, si collocano alcune pronunce nelle quali si fa leva su ipotesi peculiari, per trarne il corollario che lo stato di detenzione determini la cessazione della condizione di latitante anche ove la stessa, pur non risultando dagli atti, fosse agevolmente riscontrabile da parte del giudice procedente.
In una fattispecie nella quale peraltro si verteva in una ipotesi di detenzione in Italia per altra causa - dandosi luogo, dunque, ad una situazione profondamente diversa dall'arresto avvenuto all'estero - si è affermato che la cessazione dello stato di latitanza implica la illegittimità delle successive notifiche eseguite ai sensi dell'art. 165 cod. proc. pen. anche qualora non sia stata portata a conoscenza del giudice procedente, gravando su quest'ultimo il compito di verificare che la latitanza non sia cessata e non essendo previsto un onere di comunicazione a carico dell'imputato (Sez. 1, n. 22076 del 19/05/2009, Scollo, Rv. 244135). La Corte ha infatti osservato che, una volta avvenuta la cattura dell'imputato, la questione sulla esigibilità e sull'onere di comunicare al giudice la cessazione della latitanza va raccordata al principio per il quale la notificazione degli atti rappresenta lo strumento indispensabile per consentire all'imputato di esercitare il proprio diritto di difesa. «E questa esigenza - ha affermato la Corte - non può ritenersi soddisfatta se, pur essendo possibile adottare con un minimo di diligenza una forma di notificazione idonea a portare il contenuto dell'atto nella effettiva sfera di conoscibilità del destinatario, si faccia ricorso ad altra forma di notifica, dalla quale deriva una semplice presunzione legale di conoscenza».
Al tema della "conoscibilità" dell'intervenuto stato di detenzione, nei termini appena esposti, e dei riverberi che da ciò possono derivare sul piano del regime delle notificazioni degli atti, viene dedicata attenzione anche da parte di altra pronuncia, nella quale si è affermato che la notificazione degli atti all'imputato, arrestato all'estero nell'ambito di una procedura estradizionale o per altra causa, e di cui risulti agli atti il luogo della detenzione, con conseguente cessazione dello stato di latitanza prima dichiarato, devono compiersi secondo la disciplina prescritta per l'imputato residente o dimorante all'estero e non secondo quella per la notifica al latitante (Sez. 5, n. 9746 del 05/12/2008, Foley, Rv. 242991). Anche in tal caso, lo scrutinio di legittimità si è concentrato sul difetto di diligenza mostrato dalla autorità giudiziaria procedente, per non essersi attivata, avuto riguardo alla specificità delle informazioni di cui era in possesso, nel verificare la persistenza della condizione di latitanza; pur se a tale approdo la Corte è giunta traendo spunto dalle affermazioni enunciate nella sentenza ****, della quale veniva valorizzato il principio in virtù del quale l'arresto dell'imputato all'estero comporta la cessazione dello stato di latitanza.
6. L'orientamento da ultimo esposto, apparentemente dissonante rispetto a quello indicato come del tutto prevalente, più che caratterizzarsi, dunque, per una distinzione tra regimi notificatori fra loro alternativi, come derivazione diretta dall'arreso all'estero "per altra causa" dell'imputato latitante in Italia, pare mettere l'accento sulla particolare scrupolosità che deve indurre il giudice a "leggere" e valutare le risultanze processuali, ove da queste possa agevolmente dedursi che l'imputato si trovi in vinculis al di fuori del territorio nazionale. Il che, a ben guardare, sposta l'asse dell'attenzione non tanto verso la individuazione della normativa applicabile, quanto, piuttosto, sulla valutazione, in termini probatori, del fatto processuale (esso stesso oggetto di prova, a norma dell'art. 187, comma 2, cod. proc. pen.) rappresentato dall'impedimento costituito dalla detenzione all'estero.
In tale prospettiva, in sé condivisibile, finisce però per confermarsi la validità deN'orientamento maggioritario. E' infatti evidente che, dovendosi convenire con la tesi secondo la quale l'impedimento derivante dallo stato di privazione della libertà personale all'estero deve "risultare" al giudice procedente, dal momento che l'evento impeditivo, come fatto esterno al processo, in tanto può produrre effetti in quanto l'autorità giudiziaria sia messa in condizione di apprezzarne probatoriamente la sussistenza, se ne deve dedurre che allo stesso regime "probatorio" deve sottostare l'accertamento del venir meno della condizione di latitante agli effetti delle notificazioni degli atti. Sarebbe, infatti, davvero paradossale che il diritto dell'imputato a partecipare al proprio processo fosse subordinato a presupposti più rigorosi di quelli in ipotesi previsti per il regime delle relative notificazioni, assegnando soltanto a queste un margine di garanzie più elevato, quando le notificazioni sono ontologicamente "serventi" rispetto proprio all'esercizio del diritto di partecipazione al processo. In altri termini, il diritto di partecipare al processo - e, dunque, la libertà di scelta se essere o meno presente - deve essere strutturalmente modulato in termini corrispondenti al regime degli strumenti ad esso funzionali, come, appunto, le notificazioni degli atti: istituto che, per definizione, mira a consentire l'esercizio di diritti e facoltà endoprocessuali.
Pertanto, se l'impedimento alla partecipazione (l'arresto all'estero) deve "risultare" dagli atti, allo stesso modo deve "risultare" dagli atti la perdita della condizione di latitante agli effetti del regime delle notificazioni. Il tutto, ovviamente, senza trascurare la circostanza, più volte sottolineata, che la latitanza - ove correttamente dichiarata - presuppone la volontarietà della sottrazione alle ricerche ed al processo, con la conseguenza che il regime delle relative notificazioni sconta - a differenza dell'irreperibile "inconsapevole" - la conoscenza del processo e della "sostanza" della accusa.
Tutto ciò non toglie, però, che il necessario coordinamento che deve instaurarsi fra le forze di polizia, e tra queste e l'autorità giudiziaria che ha emesso il provvedimento restrittivo dal quale è insorto lo stato di latitanza, comporti - proprio perché le ricerche e le indagini relative proseguono fintanto che perdura quello status - la predisposizione di adeguati strumenti conoscitivi che permettano alle autorità giudiziarie nazionali di venire prontamente rese edotte in merito all'arresto avvenuto all'estero della persona ricercata. Trattandosi, infatti, di evento che determina automaticamente la eliminazione del nominativo dal bollettino dei ricercati, se ne deve dedurre che - specie alla luce degli odierni strumenti informativi e di cooperazione internazionale - un siffatto evento debba essere immediatamente comunicato alla autorità giudiziaria comunque interessata al fatto, dal momento che - in mancanza - si determinerebbe uno iato nell'ambito dei doveri di informativa che incombono sulla polizia giudiziaria incaricata della ricerca e cattura dei latitanti. Viene dunque in discorso, a tal riguardo, l'utilizzazione delle informative desumibili dal Sistema informativo previsto dalla Convenzione del 19 giugno 1990 di applicazione dell'Accordo di Schengen del 14 giugno 1985, resa esecutiva in Italia con la legge 30 settembre 1993, n. 338, ovvero dall'interpol, per i Paesi che non aderiscono a quell'Accordo, e, più in generale, di tutti gli elementi di carattere informativo che possano comunque acquisirsi in sede di collaborazione e assistenza giudiziaria o fra le forze di polizia.
7. In relazione al secondo quesito, deve dunque essere enunciato il seguente principio di diritto:
«La cessazione dello stato di latitanza, a seguito di arresto avvenuto all'estero in relazione ad altro procedimento penale, non implica la illegittimità delle successive notificazioni eseguite nelle forme previste per l'imputato latitante dall'art. 165 cod. proc. pen. qualora essa non sia stata portata a conoscenza del giudice procedente. E' peraltro compito della polizia giudiziaria, cui spetta l'esecuzione delle ricerche della persona in stato di latitanza, di procedere alla costante verifica di tutte le informazioni desumibili, fra l'altro, dai sistemi informativi nazionali ed internazionali e di comunicare prontamente alla autorità giudiziaria procedente l'eventuale arresto avvenuto all'estero della persona ricercata».
8. Venendo all'esame del ricorso, va rilevato che le censure poste a fondamento del primo motivo si concentrano essenzialmente sulla ritenuta insufficienza delle ricerche effettuate dalla polizia giudiziaria, in base al rilievo che «pur avendo intuito gli operanti che l'**** potesse essere all'estero», veniva omesso l'espletamento delle ricerche di cui all'art. 169, comma 4, cod. proc. pen., che parte della giurisprudenza ritiene applicabile in via analogica anche al latitante.
L'omissione di tali adempimenti, ed il conseguente espletamento delle notificazioni con il rito previsto per i latitanti dall'art. 165 cod. proc. pen., avrebbe determinato, ad avviso del ricorrente, la nullità di tutte le notifiche e di tutti gli atti processuali successivi, travolgendo, di conseguenza, la sentenza di merito emessa dal Tribunale di Brescia il 2 febbraio 2011. Per tali ragioni veniva sollecitata la declaratoria di nullità della ordinanza impugnata, con la quale era stata respinta la richiesta di declaratoria di inefficacia del titolo esecutivo, la nullità del decreto di latitanza e di tutti gli atti successivi.
Il motivo di ricorso è infondato, in quanto, come puntualmente messo in luce dai giudici a quibus in sede di incidente di esecuzione, la declaratoria di latitanza emessa dal Giudice per le indagini preliminari il 12 marzo 2010, si era fondata sulle risultanze di una esaustiva attività di ricerca ed investigazione, dalla quale era emerso che l'**** si era allontanato dalla abitazione di Cassano d'Adda, nella quale precedentemente dimorava, e si erano perse le sue tracce; evidenziandosi, nel contempo, che il medesimo si era dato alla fuga allontanandosi dal territorio nazionale, in quanto dalle intercettazioni telefoniche in atto sulla utenza della madre, dimorante con il medesimo, era emerso che l'imputato, una volta appresa la notizia dell'arresto di altri connazionali suoi correi nei confronti dei quali erano state emesse ordinanze custodiali dalla stessa autorità giudiziaria procedente, si era dato alla fuga. Del tutto pertinentemente, quindi, era stata valutata la esaustività delle ricerche agli effetti che si sono dianzi chiariti, nella duplice prospettiva della impossibilità di rintraccio dell'imputato e della volontarietà della sottrazione alla cattura. Sul punto, dunque, la motivazione esibita nel provvedimento impugnato si rivela giuridicamente corretta e priva di aporie sul pano logico-argomentativo. Piuttosto, non può non rilevarsi come, nella specie, il rimedio incidentale attivato, teso a far dichiarare inefficace il titolo esecutivo, si riveli eccentrico alla luce delle doglianze espresse, nelle quali, come accennato, il profilo denunciato riguardava la legittimità del decreto di latitanza ed il conseguente rito delle notificazioni: sicché, non vertendo la censura sulla esecutività del titolo, ma sulla regolarità di un atto del procedimento, la cui nullità si sarebbe riverberata su quelli successivi e da esso dipendenti, il rimedio attivabile era quello della proposizione della impugnazione tardiva.
Questa Corte ha infatti avuto modo di sottolineare in varie occasioni che, in sede di esecuzione, non è deducibile il vizio relativo alla declaratoria di contumacia pronunciata nel corso del procedimento di cognizione, che deve essere fatto valere con i mezzi previsti per l’impugnazione contro la sentenza, rimanendo altrimenti sanato e coperto dal giudicato (Sez. 1, n. 4554 del 26/11/2008, Baratta, Rv. 242791; Sez. 1, n. 37979 del 10/06/2004, Condemi, Rv. 229580).
Tale assunto si radica sul rilievo che il vizio relativo alla declaratoria di contumacia, al pari di qualsiasi vizio o nullità verificatisi in sede di cognizione, deve essere fatto valere con i mezzi previsti per l'impugnazione contro la sentenza e nell'ambito del processo di cognizione, rimanendo altrimenti sanato e coperto dal giudicato. In termini non dissimili si è pure puntualizzato che l'indagine affidata al giudice della esecuzione è limitata al controllo della esistenza del titolo esecutivo e della legittimità della sua emissione, per cui, un volta accertata la regolarità formale della notificazione del titolo e cioè della sentenza di cui è stato attestato il passaggio in giudicato, non rilevano le eventuali nullità verificatesi nel corso del processo di cognizione in epoca antecedente a quella del passaggio in giudicato della sentenza, che avrebbero dovuto essere denunciate nella fase di cognizione con gli ordinari mezzi di gravame. Le eventuali nullità verificatesi nel corso del processo perdono, infatti, rilievo ai fini della formazione del titolo esecutivo, dovendosi avere riguardo soltanto alla esistenza ed alla notificazione del titolo stesso (Sez. 1, n.8776 del 28/01/2008, Lasco, Rv. 239509).
Nella vicenda in esame, d'altra parte, non può porsi neppure alcun problema in riferimento alla ritenuta tardività della richiesta di restituzione nel termine per proporre impugnazione, posto che il relativo punto non ha formato oggetto di ricorso (v. comunque, da ultimo, Sez. 6, n. 23957 del 08/02/2013).
9. Quanto, infine, al secondo motivo di ricorso - fondato sul rilievo che l'intervenuto arresto dell'**** in Romania il 19 gennaio 2011, a seguito di MAE emesso dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Verbania nell'ambito di procedimento penale in qualche modo collegato a quello oggetto del presente ricorso, avrebbe dovuto comportare la revoca del decreto di latitanza - esso si rivela infondato alla luce dei principi dianzi esposti, in quanto di tale evento non è stata data alcuna notizia alla autorità giudiziaria procedente.
10. Il ricorso deve pertanto essere rigettato ed il ricorrente deve conseguentemente essere condannato al pagamento delle spese processuali.

                                                                               P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 27/03/2014.