Il mutamento di giurisprudenza, intervenuto con decisione delle Sezioni Unite, integrando un nuovo elemento di diritto, rende ammissibile la riproposizione, in sede esecutiva, della richiesta di applicazione dell’indulto in precedenza rigettata.  


FATTO


1- La Corte d'Appello di Milano, con sentenza 10/1/2001, in applicazione della Convenzione di Strasburgo del 21/3/1983 (resa esecutiva in Italia con legge 25/7/1988 n. 334) sul trasferimento delle persone condannate e agli effetti dell'esecuzione della pena in Italia, riconosceva ex art. 731 c.p.p. la sentenza 23/4/1999 della Corte d'Assise del Tribunale di Innsbruch, con la quale era stato condannato alla pena di venti anni dì reclusione per i reati di rapina, resistenza a p.u., violazione della normativa sulle armi e sugli stupefacenti.
Il condannato, dopo l'inizio dell'esecuzione, sollecitava, ai sensi dell'art. 672 in relazione all'art. 667/4° c.p.p., l'applicazione dell'indulto concesso con legge 31/7/2006 n. 241, ma la Corte d'Appello di Milano, quale giudice dell'esecuzione, con ordinanza 27/5/2008, rigettava la richiesta, ritenendo, in adesione alla giurisprudenza di legittimità sino ad allora costante, non condonabile la pena detentiva inflitta con la sentenza straniera di condanna e posta in esecuzione in Italia, considerata la mancata menzione, nell'art. 12 della richiamata Convenzione, dell'indulto tra i benefici accordabili da ciascun Paese, la- Il , a seguito dell'intervento delle Sezioni Unite Penali di questa Suprema Corte, che, con sentenza n. 36527 del 10/7/2008 (ric. Napoletano), avevano ritenuto applicabile l'indulto anche alle persone condannate all'estero e trasferite in Italia per l'espiazione della pena, reiterava la richiesta, adducendo, quale elemento di novità, proprio tale ultimo orientamento giurisprudenziale.
La Corte d'Appello di Milano, con ordinanza 23/12/2008, ritenuta ammissibile la nuova richiesta, la accoglieva e, recependo i principi affermati dalle Sezioni Unite, applicava l'indulto.
lb- Proponeva opposizione il Procuratore Generale presso la Corte territoriale ed eccepiva l'inammissibilità della nuova richiesta, perché basata sugli stessi presupposti di fatto e sulle medesime ragioni di diritto della precedente; aggiungeva che il richiamo alla sentenza delle Sezioni Unite implicava semplicemente lo sviluppo di nuovi "argomenti di diritto" a dimostrazione di "un principio giuridico già negato con la prima ordinanza". La Corte d'Appello di Milano, con ordinanza 2/2/2009, rigettava l'opposizione e confermava il provvedimento di applicazione dell'indulto.
Rilevava che la generica e ambigua espressione "medesimi elementi", su cui era incentrata la preclusione prevista dal secondo comma dell'art. 666 c.p.p., era riferibile anche agli "elementi di diritto", gli unici che venivano in rilievo nel caso in esame, essendo rimasti immutati quelli "di fatto"; che la latitudine semantica della citata locuzione non legittimava la distinzione tra "ragioni" e "argomenti", sulla quale aveva fatto leva il P.G. opponente, sicché erano da considerare nuovi elementi anche i "motivi di diritto diversi da quelli presi in considerazione" e "le nuove questioni giuridiche". Individuava i nuovi elementi a sostegno dell'istanza nella mancata previsione, nella legge n. 241V06, di una espressa esclusione di operatività dell'indulto per le condanne pronunciate all'estero e soprattutto nelle questioni giuridiche esaminate e risolte dalla sentenza 10/7/2008 n. 36527 delle Sezioni Unite, la quale, nell'affermare il principio di diritto di applicabilità dell'indulto anche alle pene inflitte da Autorità Giudiziarie straniere ma in espiazione in Italia, aveva fatto leva sui seguenti argomenti, non prospettati nell'originaria istanza del condannato e non presi in considerazione dal conseguente provvedimento di rigetto 27/5/2008 del Giudice dell'esecuzione;
- "interpretazione della Convenzione sul trasferimento delle persone condannate conforme alle direttive della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati e ai principi della Costituzione";
- "richiamo all'art. 738/1° c.p.p., secondo il quale le pene conseguenti al riconoscimento sono eseguite secondo la legge italiana";
- "ampiezza del potere attribuito dall'art. 12 della Convenzione allo Stato di esecuzione nell'emettere decisioni relative all'esecuzione della pena, secondo quanto precisato dal par. 59 del Rapporto esplicativo";
- "ricostruzione del sistema e dello spirito della Convenzione operata dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 73/2001".
2- Ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore Generale presso la Corte territoriale e ha sollecitato l'annullamento senza rinvio dell'ordinanza impugnata e, conseguentemente, di quella in data 23/12/2008.
Il ricorrente, nel denunciare l'inosservanza della legge processuale, ha insistito per la declaratoria d'inammissibilità dell'istanza, perché basata sui medesimi elementi di fatto e di diritto della precedente richiesta respinta. Ha sottolineato, con particolare riferimento agli elementi di diritto, che non va confuso il princìpio di diritto con Vargomento di diritto, riproponendo la distinzione tra i due concetti, fondata non solo semanticamente ma anche sistematicamente per i riferimenti normativi di cui agli art. 627/3° c.p.p. e 384 epe; che la nuova richiesta avanzata dal aveva fatto leva sullo stesso "principio di diritto", vale a dire l'applicabilità dell'indulto, anche se motivata da "nuovi argomenti di diritto".
3- Il Procuratore Generale presso questa Suprema Corte, con articolata requisitoria scritta, ha chiesto il rigetto del ricorso.
Ha evidenziato, a integrazione del provvedimento impugnato e a confutazione di quanto dedotto in ricorso, che l'argomento centrale da considerare è il rapporto tra legge e giurisprudenza o - meglio - tra norma e interpretazione, rilevando, in particolare, che nel sistema giuridico integrato dalle norme della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, così come interpretate dalla Corte di Strasburgo, il mutamento giurisprudenziale non può essere considerato un fenomeno irrilevante per il diritto. Ha aggiunto che, nel caso in esame, non venendo in discussione un problema di giudicato formale ma soltanto la preclusione disciplinata dal secondo comma dell'art. 666 c.p.p., superabile sulla scorta di elementi nuovi, assume certamente rilievo una interpretazione conforme alla giurisprudenza europea, secondo la quale il novum non è soltanto la nuova legge in senso formale, ma anche un nuovo diritto vivente, divenuto stabile per effetto dell'intervento delle Sezioni Unite.
4- Con ordinanza 15/7/2009, la Prima Sezione penale, alla quale il ricorso era stato assegnato, ne ha rimesso la decisione a queste Sezioni Unite per la risoluzione della questione relativa alla portata della nozione "medesimi elementi" di diritto, rilevante,
secondo la previsione di cui al secondo comma dell'art. 666 c.p.p., ai fini dell'ammissibilità di una seconda richiesta da parte del condannato di applicazione dell'indulto, dopo il rigetto di altra analoga precedente richiesta.

Si precisa nell'ordinanza di rimessione che "la stessa normativa comunitaria richiamata da S.U. Napoletano e l'art. 7 della Convenzione Edu, cui occorre prestare ossequio se non altro ai sensi dell'art. 117 Cosi, ostino all'applicazione del principio di preclusione in situazione quale quella in esame, nella quale la precedente decisione, non coperta da giudicato formale, si fonda su di una lettura della disposizione che regola la materia successivamente riconosciuta contrastante con le norme internazionali pattizie comuni dalle Sezioni Unite, che hanno sul punto espresso un principio di diritto idoneo a conformare, in termini di diritto vivente, la norma interna a quella europea".
Si osserva, tuttavia, che tale soluzione è contrastata da un pressoché uniforme orientamento di segno opposto, il che determina una situazione di potenziale contrasto giurisprudenziale.
5- 11 Presidente Aggiunto ha quindi assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione l'odierna udienza in camera di consiglio.
6- Il Procuratore Generale ricorrente ha fatto pervenire in data 18/11/2009 memoria, con la quale ha insistito per l'accoglimento del ricorso, richiamando, a ulteriore sostegno del medesimo, alcune pronunce recenti di questa Corte (sez. I 15/1/2009 n. 3736; sez. I 11/3/2009 n. 23817), che avevano riconfermato il principio della preclusione processuale nel procedimento di esecuzione ed escluso che la formazione di un nuovo orientamento giurisprudenziale potesse costituire elemento nuovo per rendere inoperante la preclusione. Ha evidenziato, inoltre, che la soluzione adottata dal Giudice a quo porrebbe la sentenza delle Sezioni Unite sullo stesso piano di una legge o di una declaratoria di incostituzionalità, con l'effetto che verrebbe così messo in discussione il rapporto tra la valutazione del giudice della cognizione e quella del giudice dell'esecuzione, finora risolto a favore del primo.

 


DIRITTO


1- La quaestio iurts rimessa alla valutazione delle Sezioni Unite può essere così sintetizzata: "se il mutamento di giurisprudenza intervenuto con decisione delle Sezioni Unite renda ammissibile o no la riproposizione della richiesta di applicazione dell Indulto in precedenza rigettata".
2- Nell'ambito della giurisprudenza di questa Suprema Corte, si riscontrano due diversi orientamenti, entrambi - in verità - formatisi su materie diverse da quella dell'applicazione dell'indulto.
Secondo un primo indirizzo interpretativo, assolutamente prevalente, il mutamento di giurisprudenza, in quanto non assimilabile al mutamento del dato normativo, non rappresenta un "elemento nuovo di diritto" idoneo a rendere ammissibile la riproposizione dell'istanza già in precedenza respinta dal giudice dell'esecuzione e a rimuovere la preclusione del ed. "giudicato esecutivo" (cfr. Cass. sez. I 28/3/1995 n. 1876, Marchesi; sez. V 27/4/2004 n. 25079, Giovannino sez. I 15/1/2009 n. 3736, P.M./Anello; sez. 1 11/3/2009 n. 23817, Cat Berrò).
L'altro orientamento afferma che la mutata interpretazione di una norma, specie se cristallizzata in una pronuncia delle Sezioni Unite, può integrare una nuova motivazione giuridica che legittima la riproposizione al giudice dell'esecuzione di una richiesta precedentemente rigettata (cfr. Cass. sez. V 24/2/2004 n. 15099, Aragno). Sulla stessa lunghezza d'onda del primo indirizzo sono sintonizzate alcune decisioni di questa Suprema Corte in materia di "giudicato cautelare", figura concettuale normativamente non prevista, costruita dalla giurisprudenza come preclusione di natura endoprocessuale, legittimata dal principio del ne bis in idem di cui all'art. 649 c.p.p. (cfr. Cass. S.U. 12/10/1993, Durante), sostanzialmente analoga, anche se non identica, a quella del "giudicato esecutivo", dalla quale si differenzia, sul piano della disciplina normativa, per la mancanza di una apposita disposizione come quella di cui all'art. 666/2° c.p.p.. Il riferimento è alle sentenze 19/12/2006 n. 14535 (ric. Librato) delle Sezioni Unite e 26/11/2008 n. 1180 (ric. Elia) della Seconda Sezione penale, nelle quali si afferma che non "può valere a rimuovere l'effetto preclusivo il mero sopravvenire di una sentenza della Corte di Cassazione che esprime un indirizzo giurisprudenziale minoritario, diverso da quello seguito dall'ordinanza che ha già deciso la questione controversa", e ciò perché "la nozione di fatto nuovo deve riservarsi ad eventi naturalistici o ad atti, documenti o prove ovvero a eventi legislativi o ad atti sostanzialmente equiparabili, capaci di incidere direttamente sul fatto concreto addebitato all'imputato (o all'indagato)". Sembra, invece, in linea col secondo indirizzo interpretativo Cass. sez. V 23/4/2002 n. 21344 (ric. De Biase), che, sempre in tema di giudicato cautelare, ha affermato che "può costituire fatto nuovo, idoneo a modificare il quadro indiziario già a suo tempo valutato e a legittimare istanza di revoca della misura...il mutamento della giurisprudenza di legittimità" in materia di intercettazioni tra presenti espletate, in difetto di decreti esecutivi adeguatamente motivati, con impianti diversi da quelli in dotazione alla Procura della Repubblica.
In ogni caso, è fuori discussione che, nel procedimento di esecuzione come in quello di sorveglianza (per il richiamo fatto dall'art. 678 c.p.p. alla stessa disciplina), opera il principio della preclusione processuale derivante dal divieto del bis in idem, nel quale, secondo la giurisprudenza di legittimità, s'inquadra la regola dettata dal secondo comma dell'art. 666 c.p.p., che impone al giudice dell'esecuzione di dichiarare inammissibile la richiesta che sia mera riproposizione, in quanto basata sui "medesimi elementi", di altra già rigettata (cfr. Cass. sez. 1 15/1/2009 n. 3736; sez. III 30/9/2004 n. 44415; sez. Ili 5/12/1993 n. 5195; sez. Y 15/12/2000 n. 770; sez. I 5/4/1996 n. 2259; sez. VI 26/11/1993 n. 3586;
sez. V 20/10/1993; sez. 114/10/1991 n. 3739; sez. 123/5/1990 n. 1435).
Il problema di fondo che si pone, quindi, al di là del rilevato conflitto giurisprudenziale, peraltro molto circoscritto, è individuare l'esatta portata e i limiti di operatività della  detta preclusione.
3- In linea generale, rileva la Corte che impropriamente si evoca, in relazione ai provvedimenti adottati dal giudice dell'esecuzione, il concetto di giudicato, così come elaborato con riferimento al processo di cognizione.
Vana si rivela la ricerca, nell'ambito del codice di rito, salva la precisazione di cui si dirà in seguito, di una norma da cui desumere l'efficacia preclusiva delle decisioni adottate dal giudice dell'esecuzione, le quali sono revocabili e, come tali, insuscettibili di passare in giudicato, posto che la competenza cognitiva di detto giudice ha carattere provvisorio. Non può, invero, ignorarsi il divario strutturale tra giudizio di cognizione e giudizio di esecuzione, tenuto conto delle peculiarità "di accertamento giudiziale a contenuto limitato" di quest'ultimo, le quali ostano ad una trasposizione tout court di concetti e istituti propri del processo penale di cognizione, contraddistinto dall'accertamento del fatto oggettivo e della sua riferibilità all'imputato. La circostanza che nel procedimento di esecuzione non si ha mai un giudizio di merito sul fatto comporta necessariamente una diversa regolamentazione dell'efficacia preclusiva della decisione, nel senso che le richieste del soggetto interessato sono - di norma - suscettibili di essere riproposte in qualsiasi momento, con il solo limite, previsto dall'art. 666/2° c.p.p., che la nuova istanza non costituisca mera riproposizione di altra già rigettata, basata sui "medesimi elementi". Con tale limite si è inteso creare, per arginare richieste meramente dilatorie, un filtro processuale, ritenuto dal legislatore delegato necessario in un'ottica di economia e di efficienza processuale e concepito sull'esempio di quanto già legislativamente previsto in tema di procedimento di sorveglianza (art. lìsexies della legge 27/7/1975 n. 354, nel testo modificato dalla legge 12/1/1977 n. 1). La ratio della richiamata disposizione è resa, peraltro, esplicita dalla relazione al Progetto preliminare del vigente codice di procedura penale, nella quale si sottolinea che i presupposti di operatività della preclusione sono rigorosamente delimitati, al fine di evitare valutazioni sommarie che possano pregiudicare i diritti dell'interessato.
Si colloca così in questa prospettiva la nozione di "giudicato esecutivo", impiegata non in senso tecnico ma in senso convenzionale, per certificare il limitato effetto "autoconservativo" di un accertamento rebus sic stantibus. Più correttamente la stabilizzazione giurìdica di siffatto accertamento deve essere designata con il termine "preclusione", proprio al fine di rimarcarne le differenze con il concetto tradizionale di giudicato.
4- La norma di cui all'art. 666/2° c.p.p. inibisce, quindi, soltanto la reiterazione in executivis di una richiesta basata sui "medesimi elementi" di altra già rigettata.
La verifica del repetita in idem non può prescindere da una comparazione tra le due richieste, per stabilire se la seconda, pur avendo ad oggetto lo stesso petitum, faccia leva o no su presupposti di fatto e/o su motivi di diritto diversi da quelli in precedenza apprezzati e, nell'affermativa, ritenerla conseguentemente ammissibile e non paralizzata dall'operatività della preclusione.
Nel caso in esame, la situazione di fatto è rimasta certamente immutata e non viene, pertanto, in rilievo.
L'elemento di novità è rappresentato dalla decisione 10/7/2007 n. 36527 delle Sezioni Unite, che, modificando l'orientamento in senso negativo fino ad allora espresso dalla quasi unanime giurisprudenza di legittimità, hanno ritenuto applicabile l'indulto anche alle persone condannate all'estero e trasferite in Italia per l'espiazione della pena con la procedura stabilita dalla Convenzione di Strasburgo 21/3/1983. A tale conclusione le Sezioni Unite sono pervenute, interpretando detta Convenzione in maniera conforme alle direttive della Convenzione di Vienna 23/5/1969 sul diritto dei trattati e ai principi della Costituzione, ai quali aveva fatto riferimento la sentenza n. 73/2001 del Giudice delle leggi, nel ricostruire il sistema e nel cogliere lo spirito della Convenzione del 1983. Si tratta di stabilire se il mutamento di giurisprudenza ad opera del massimo Organo di nomofilachia possa costituire quell'elemento di novità idoneo a superare la preclusione del ed. "giudicato esecutivo".
La soluzione positiva, per quanto si preciserà di qui a poco, è imposta dall'obbligo del giudice nazionale di interpretare la normativa interna in senso conforme alle previsioni della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, nel significato ad esse attribuito dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo (cfr. C. Cost. 24/10/2007 n. 349; C. Cost. 24/7/2009 n. 239). Occorre quindi verificare quali siano le implicazioni dell'obbligo di interpretazione conforme in rapporto al principio di legalità, sancito, in materia penale, dall'art. 7 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo.
5- L'ordinanza impugnata fa leva sulla locuzione normativa "medesimi elementi", nella quale, per la sua genericità, devono ritenersi compresi anche gli elementi di diritto; considera, quindi, come "nuovi elementi" anche i "motivi di diritto diversi da quelli già presi in considerazione", li individua essenzialmente nelle questioni giuridiche esaminate e risolte dalla sentenza n. 36527/'08 delle Sezioni Unite, ritiene mero "esercizio dialettico" la distinzione tra "ragioni di diritto" e "argomenti di diritto".
Tale criterio ermeneutico, affidato al mero dato semantico, appare riduttivo e non soddisfa appieno, perché, ravvisando il novum in qualsiasi diversa "ragione" o "argomento di diritto", senza alcun'altra specificazione, sterilizza ogni effetto della prevista preclusione e conduce a conseguenze inaccettabili, eventualmente anche in malam partem. D'altronde, pure la doglianza del P.G. ricorrente, incentrata sulla sottile distinzione tra "principio di diritto" e "argomento di diritto", non coglie nel segno, considerato che: a) definisce "argomento di diritto" quello che il codice di rito qualifica "questione di diritto" (art. 627/3°) o "principio di diritto" (art. 173 disp. art), concetti questi ultimi due che dall'argomento sono resi espliciti e con esso sostanzialmente si identificano; b) elude il vero problema di fondo, che è quello del rapporto tra legge e giurisprudenza o - meglio -tra norma e interpretazione e si attesta unicamente sulla visione tradizionale della irrilevanza del mutamento giurisprudenziale.
S'impone, invece, una interpretazione sistematica dell'art. 666/2° c.p.p. alla luce delle disposizioni della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (CEDU), con particolare riferimento al principio di legalità penale di cui all'art. 7, così come interpretato dalla giurisprudenza comunitaria, in modo da soddisfare l'esigenza di una interazione dialogica tra attività ermeneutica del giudice nazionale e di quello europeo, nella prospettiva della più completa tutela dei diritti fondamentali della persona.
6- L'art. 7 CEDU, pur enunciando formalmente il solo principio di irretroattività, è stato interpretato dalla giurisprudenza e dalla dottrina nel senso che esso delinea, nell'ambito del sistema europeo di tutela dei diritti dell'uomo, i due fondamentali principi penalistici nullum crimen sine lege e nulla poena sine lege.
Il principio di legalità permea di sé l'intero impianto della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, molteplici essendo le disposizioni di questa che richiamano il concetto di legalità o la nozione di legge. Tale nozione è la stessa in ogni previsione convenzionale, perché "essa rinvia al principio di legalità, che è un fondamento di ogni società democratica e patrimonio comune degli Stati membri del Consiglio d'Europa". La richiamata norma, apparentemente "debole" e scarsamente "incisiva" rispetto ai connotati degli ordinamenti penali continentali (riserva di legge, irretroattività, determinatezza, divieto di analogia), presenta, in realtà, contenuti particolarmente qualificanti, resi progressivamente espliciti dalla giurisprudenza della Corte europea, che ha esteso la portata della disposizione, includendovi il principio di determinatezza delle norme penali, il divieto di analogia in malam partem (cfr. sentenza n. 32492/'96, caso Coeme e altri c/ Belgio), il principio implicito della retroattività della legge meno severa (sentenza Grande Camera 17/9/2009, caso Scoppola ci Italia), e ha enucleato dal sistema della Convenzione un concetto di "legalità materiale", in forza del quale possono raggiungersi livelli garantistici, per certi aspetti, più elevati di quelli offerti dall'art. 25 della Costituzione.
La Corte europea ha saputo "distillare dalla disposizione dell'art. 7 il condensato dei più importanti principi espressivi della civiltà giuridica europea", conciliando, all'interno di una realistica visione del principio di legalità, aspetti peculiari di ordinamenti giuridici diversi.
In considerazione delle differenze che intercorrono, sul piano del sistema delle fonti del diritto, tra gli ordinamenti di common law e quelli di civil law, il principio convenzionale di legalità è stato inteso, per così dire, in senso "allargato".
Per effetto dell'esplicito riferimento al "diritto" ("law") - e non soltanto alla "legge" -contenuto nell'art. 7, la giurisprudenza di Strasburgo, infatti, ha inglobato nel concetto di legalità sia il diritto di produzione legislativa che quello di derivazione giurisprudenziale, riconoscendo al giudice un ruolo fondamentale nella individuazione dell'esatta portata della norma penale, il cui significato è reso esplicito dalla combinazione di due dati; quello legislativo e quello interpretativo (cfr. sentenze della Corte di Strasburgo 24/4/1990, caso Kruslin c/ Francia; 12/2/2008, caso Kafkaris d Cipro; 15/11/1996, caso Cantoni c/ Francia; 25/5/1993, caso Kokkinakis c/ Grecia).
Tale visione sostanziale del principio dì legalità si confronta peraltro, secondo la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, con particolari condizioni qualitative, quali l'accessibilità della norma penale e la ragionevole prevedibilità delle sue conseguenze (cfr. sentenze Corte europea Cantoni c/ Francia succitata; 22/11/1995, caso S.W. e C.R. c/ Regno Unito; 29/3/2006, caso Achour c/ Francia).
Con le recenti sentenze 17/9/2009 (caso Scoppola c/ Italia) e 8/12/2009 (caso Previti c/ Italia), la Corte europea, dopo avere ribadito i principi consolidati in merito alla nozione di diritto, ha affermato che "a causa del carattere generale delle leggi, il testo di queste... non può presentare una precisione assoluta", posto che si serve di "formule più o meno vaghe la cui interpretazione e applicazione dipendono dalla pratica; pertanto, in qualsiasi ordinamento giuridico, per quanto chiaro possa essere il testo di una disposizione dì legge, ivi compresa una disposizione di diritto penale, esiste inevitabilmente un elemento di interpretazione giudiziaria... ; del resto, è solidamente stabilito nella tradizione giuridica degli Stati parte della Convenzione che la giurisprudenza... contribuisce necessariamente all'evoluzione progressiva del diritto penale".
Né va sottaciuto che la Corte di Strasburgo, in relazione agli obblighi imposti agli Stati dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, ha ravvisato: a) la violazione del diritto alla libertà e alla sicurezza, tutelato dall'art. 5 della stessa Convenzione, per la ritardata liberazione di un detenuto, al quale solo con notevole ritardo era stato concesso l'indulto, a causa di dubbi interpretativi circa la sua applicabilità (cfr. sentenza 10/7/2003, caso Grava c/ Italia); b) la violazione del diritto al processo equo, tutelato dall'art. 6 della Convenzione, in caso di divergenze profonde e persistenti nella giurisprudenza della Corte di Cassazione sulla interpretazione di una determinata disposizione legislativa, senza la previsione di meccanismi idonei a rimediare a tale situazione (cfr. sentenza 2/7/2009, caso Iordan Iordanov c/ Bulgaria). E' evidente, l'implicito rilievo allegato, anche in tali casi concreti, al ed. "diritto giurisprudenziale", evocato anche dalla sentenza 8/2/2007 della Corte di giustizia (caso Groupe Danone c/ Commissione delle Comunità europee), che ha delineato una dimensione innovativa del principio di irretroattività, ritenendolo applicabile anche alla nuova interpretazione in senso sfavorevole di una norma, interpretazione non ragionevolmente prevedibile nel momento della commissione dell'infrazione. 7- Riassuntivamente deve, quindi, affermarsi che, secondo l'orientamento della Corte di Strasburgo, il processo di conoscenza di una norma presuppone, per così dire, "una relazione di tipo concorrenziale" tra potere legislativo e potere giudiziario, nel senso che il reale significato della norma, in un determinato contesto socio-culturale, non emerge unicamente dalla mera analisi del dato positivo, ma da un più complesso unicum, che coniughi tale dato con l'atteggiarsi della relativa prassi applicativa. Il giudice riveste un ruolo fondamentale nella precisazione dell'esatta portata della norma, che, nella sua dinamica operativa, vive attraverso l'interpretazione che ne viene data. La struttura necessariamente generica della norma è integrata e riempita di contenuti dall'attività "concretizzatrice" della giurisprudenza.
In definitiva, il sistema convenzionale, pur dando grande risalto al principio di legalità, "non ne assolutizza l'ambito valoriale, con la conseguente prevalenza del dato formale su quello propriamente giurisprudenziale", ma, nella prospettiva di salvaguardare la specificità delle tradizioni costituzionali all'interno di un sistema di diritto comune tendenziale, ritiene complementari i due dati, che si integrano tra loro, con la conseguenza che gli elementi qualitativi dell'accessibilità e della prevedibilità di cui parla la Corte si riferiscono non tanto all'astratta previsione legale quanto alla norma "vivente", risultante dall'applicazione e dall'interpretazione dei giudici.
8- La posizione della Corte europea sulla portata e sui margini di legittimità del ed. "diritto vivente" non sembra, d'altra parte, discostarsi molto da quanto in proposito affermato dalla Corte Costituzionale.
Il Giudice delle leggi, con la sentenza n. 276/1974, aveva fatto ricorso per la prima volta al sintagma "diritto vivente", per focalizzare, con incisiva sintesi lessicale, una figura già elaborata in precedenti decisioni, e più esattamente quella della "norma non quale appare proposta in astratto, ma quale è operante nella quotidiana applicazione dei giudici" (sent. n. 3/1956) e "come vive nella realtà concreta" (sent. n. 198/1972). E' al "diritto vivente", infatti, che il Giudice delle leggi fa riferimento, per definire propriamente l'oggetto del sindacato di costituzionalità, rinunziando a imporre la propria libertà interpretativa e ritenendosi vincolato all'esegesi dei giudici ordinari.
La nozione di "diritto vivente" è correlata a quella di giurisprudenza consolidata o giurisprudenza costante, con particolare riguardo alle pronunce della Corte di Cassazione, in ragione del compito di nomofilachia alla stessa assegnato dall'ordinamento giudiziario. Tali pronunce meritano una considerazione preminente, perché sono il frutto del lavoro esegetico della Corte Suprema, finalizzato a garantire "quella sintesi imprescindibile per scongiurare il prodursi di disarmonie che offendono la fondamentale esigenza di uguaglianza dei cittadini". Per le decisioni di legittimità predomina sul "criterio quantitativo" quello "qualitativo del grado" e della funzione rivestiti dall'Autorità Giudiziaria da cui promana la scelta interpretativa, con la conseguenza che è sufficiente "anche una sola decisione della Corte di legittimità in presenza di interpretazioni contrastanti, per determinare il vincolo del diritto vivente, specie se pronunciata a Sezioni Unite", posto che queste risolvono questioni di diritto di speciale importanza, dirimono contrasti insorti o anche potenziali tra le decisioni delle singole sezioni, a superamento del pluralismo ermeneutico e nella prospettiva costituzionalmente orientata all'affermazione dei principi di legalità e di uguaglianza (cfr. C. Cost. sentenze n. 317/2009, n. 260/1992, n. 292/1985, n. 34/1977).
Il diritto vivente postula, quindi, la mediazione accertativa della giurisprudenza, nel senso che deve riconoscersi ai giudici un margine di discrezionalità, che comporta una componente limitatamente "creativa" della interpretazione, la quale, senza varcare la "linea di rottura" col dato positivo ed evadere da questo, assume un ruolo centrale nella precisazione del contenuto e della latitudine applicativa della norma e assolve sostanzialmente una funzione integrativa della medesima.
Come acutamente osserva l'ordinanza di rimessione della prima sezione penale, "un segnale del valore che la giurisprudenza finisce per assumere nella stessa produzione legislativa potrebbe cogliersi infine nella legge n. 69 del 2009, che fa dei principi giurisprudenziali criteri di delega allorché prevede ad esempio (art. 44) che <il Governo è delegato ad adottare... uno o più decreti legislativi per il riassetto del processo avanti ai Tribunali amministrativi regionali e al Consiglio di Stato, al fine di adeguare le norme vigenti alla giurisprudenza della Corte Costituzionale e delle giurisdizioni superiori>". 9- Le considerazioni sin qui svolte legittimano la conclusione che l'obbligo di interpretazione conforme alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo impone di includere nel concetto di nuovo "elemento di diritto", idoneo a superare la preclusione di cui al secondo comma dell'art. 666 c.p.p., anche il mutamento giurisprudenziale che assume, specie a seguito di un intervento delle Sezioni Unite di questa Suprema Corte, carattere di stabilità e integra il "diritto vivente".
Tale operazione ermeneutica si rende necessaria ed è doverosa nel caso in cui è funzionale a garantire il rispetto di diritti fondamentali, riconosciuti anche da norme comunitarie o sopranazionali a carattere imperativo, di fronte ai quali la citata preclusione, che - come si è detto - ha natura e funzione diverse dal giudicato, non può che essere recessiva. Nel caso concreto, la sentenza "Napoletano" delle Sezioni Unite, dando applicazione a norme internazionali pattizie che lo Stato s'era impegnato a rispettare e coordinando con queste la normativa interna, ha privilegiato, modificando così il precedente orientamento della giurisprudenza di legittimità, la scelta interpretativa dell'applicabilità dell'indulto anche alle persone condannate all'estero e trasferite in Italia per l'espiazione della relativa pena.
L'intervento delle Sezioni Unite, chiarendo il contenuto del messaggio normativo e offrendo stabilità al medesimo, legittimamente può essere evocato a fondamento di una nuova richiesta di applicazione dell'indulto in precedenza rigettata. La fase esecutiva di una condanna, invero, è disciplinata da regole, per così dire, flessibili, che tengono conto della dinamica connessa alla funzione rieducativa della pena e alla risocializzazione del condannato (si pensi all'accesso alle misure alternative alla detenzione), con l'effetto che deve escludersi qualunque preclusione in una situazione in cui una precedente decisione negativa di applicazione dell'indulto, non coperta da giudicato in senso proprio, riposi su una lettura della corrispondente normativa, riconosciuta, in seguito, non in linea con norme internazionali pattizie, nonché lesiva -come nella specie - del diritto fondamentale della persona alla libertà. In tale ipotesi s'impone, alla luce del novum interpretativo, diventato "diritto vivente", la rivalutazione della posizione del condannato.
Diversamente opinando, si negherebbe, come icasticamente si esprime, nella sua requisitoria scritta, il P.G. presso questa Corte, il "minimo etico" del processo penale: si violerebbe cioè il principio di uguaglianza sancito dall'art. 3 della Costituzione, perché si determinerebbe una irragionevole disparità di trattamento tra condannati per reati dello stesso tipo, commessi tutti prima della data di operatività dell'indulto. Può, inoltre, aggiungersi che il mancato ossequio alla normativa comunitaria richiamata dalla sentenza "Napoletano" delle Sezioni Unite e all'art. 7 della Convenzione europea sui diritti umani, così come interpretato dalla giurisprudenza europea, comporterebbe anche la violazione dell'art. 117/1° della Costituzione, che, sebbene formalmente indirizzato al legislatore, enuncia un principio generale di fedeltà del nostro Paese agli impegni internazionali validamente assunti, da cui deriva sia l'esigenza di una interpretazione delle norme interne conforme agli obblighi internazionali, sia l'esigenza di prevenire eventuali giudizi di responsabilità a carico dello Stato italiano per violazione di quegli obblighi, assicurando tempestivamente, in tal modo, la tutela dei diritti e delle libertà all'interno del proprio sistema giuridico.
10- E' il caso, tuttavia, di precisare che, tenuto conto dei principi generali che ispirano il
sistema penale, non qualsiasi mutamento giurisprudenziale, che attribuisce carattere di novità ad una determinata quaestio iuris, legittima, come puntualmente rilevato dal P.G. presso questa Corte, il superamento della preclusione di cui al secondo comma dell'art. 666 c.p.p..
Non lo consente certamente una diversa e nuova interpretazione contra reum di norme sostanziali, considerato che tanto la legge nazionale (artt. 25 Cost. e 2 c.p.) quanto l'art. 7 della Convenzione europea sanciscono il principio della irretroattività delle norme sfavorevoli al reo (e, per quanto detto, della mutata interpretazione più sfavorevole).
11- Deve ancora osservarsi che sarebbe certamente non conforme al diritto comunitario l'interpretazione del secondo comma dell'art. 666 c.p.p. nel senso propugnato dal P.G. ricorrente: preclusione rigida a rimettere in discussione questioni di diritto già decise, pur se rivelatesi successivamente in contrasto con norme comunitarie e con convenzioni che vincolano gli Stati membri.
E' vero che la Corte di giustizia delle Comunità europee ha sempre affermato, con riferimento al rapporto tra l'applicazione delle norme comunitarie e l'autorità del giudicato, che il principio di cooperazione derivante dall'art. 10 del Trattato CE non impone al giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne che attribuiscono autorità di cosa giudicata ad una decisione, anche quando ciò permetterebbe di porre rimedio ad una violazione del diritto comunitario da parte di tale decisione; ha sempre rammentato, inoltre, l'importanza che il principio dell'autorità del giudicato assume nell'ordinamento giuridico comunitario e in quello nazionale, perché finalizzato a garantire sia la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici, sia una buona amministrazione della giustizia ( cfr. sentenza Corte di giustizia 16/3/2006, causa C-234/04, Kapferer). Non può però sottacersi che la disposizione processuale qui esaminata, per le considerazioni più sopra sviluppate, non pone un problema di giudicato in senso proprio, ma una preclusione alla "mera riproposizione di una richiesta già rigettata, basata sui medesimi elementi", sicché, in difetto di tale presupposto ben circoscritto, è consentito il riesame della posizione della persona interessata alla tutela di un suo diritto fondamentale, ponendo così rimedio ad eventuali violazioni del diritto interno o comunitario, evidenziate da un diverso, successivo e stabilizzato orientamento ermeneutico. L'individuato limite di operatività del presupposto impeditivo garantisce anche l'effettività dell'esercizio dei diritti conferiti dall'ordinamento giuridico comunitario.
D'altra parte, la stessa Corte di giustizia non ha mancato di sottolineare, in tema di giudicato civile (art. 2909 ce), che lo stesso non opera, ove vengano in questione principi che disciplinano il riparto delle competenze tra gli Stati membri e la Comunità in materia di aiuti di Stato, che, in quanto erogati in contrasto con il diritto comunitario, non sarebbero più recuperabili (sentenza 18/7/2007, causa C-l 19/05). In altra causa in materia di imposta sul valore aggiunto, il Giudice europeo ha ritenuto che l'interpretazione da parte della Corte di Cassazione del principio dell'autorità della cosa giudicata di cui all'art. 2909 ce. (efficacia vincolante del giudicato esterno formatosi su un punto fondamentale comune ad altra causa relativa a un diverso periodo fiscale) si pone in contrasto con il principio di effettività dell'applicazione delle norme comunitarie disciplinanti la detta imposta (sentenza 3/9/2009, causa C-2/08).
Si vuole, in sostanza, evidenziare che la giurisprudenza europea, pur riconoscendo - in via generale - la rilevanza del giudicato nazionale, ne relativizza, per così dire, il valore in situazioni particolari in cui le corrispondenti modalità di attuazione siano strutturate in modo tale da rendere impossibile o eccessivamente difficile il concreto esercizio di diritti previsti dall'ordinamento giuridico comunitario (principio di effettività). E' agevolmente intuibile, quindi, che un'opzione interpretativa diversa da quella privilegiata circa l'ambito operativo della preclusione di cui all'art. 666/2° c.p.p. non garantirebbe il principio di effettività del rispetto delle norme comunitarie e si porrebbe in conflitto con queste.
12- A conclusione di tutti ì precedenti rilievi esegetici ritengono le Sezioni Unite che può enunciarsi il seguente principio di diritto: '7/ mutamento dì giurisprudenza intervenuto con decisione delle Sezioni Unite, integrando un nuovo elemento di diritto, rende ammissibile la riproposizione, in sede esecutiva, della richiesta di applicazione dell'indulto in precedenza rigettata".
13- Poiché la ratio decidendi dell'ordinanza impugnata è sostanzialmente coerente con tale principio e in essa si dà conto delle ragioni che giustificano l'applicazione dell'indulto di cui alla legge n. 241/'06 sulla pena inflitta al dall'Autorità Giudiziaria straniera e posta in esecuzione in Italia, a seguito del riconoscimento della relativa sentenza di condanna, il ricorso deve essere rigettato.


p.q.m.


Rigetta il ricorso, Così deciso in Roma
21 gennaio 2010