Il reato di violazione di sigilli è configurabile anche nel caso in cui la condotta tipica abbia riguardo a sigilli apposti esclusivamente per impedire l’uso illegittimo della cosa e non solo quando gli stessi siano stati apposti per assicurarne la conservazione o l’identità.  


SVOLGIMENTO DEL PROCESSO


Con sentenza in data 31/1/05 il Tribunale monocratico di Messina ha dichiarato ***** colpevole del reato di cui all'art. 349 cpv. c.p. per avere il 26/2/03 violato, nella qualità di custode, i sigilli apposti il 13/8/02 per ordine dell'autorità amministrativa (la Sezione annona e polizia amministrativa della locale Polizia municipale) alla macchina del caffè e ad una scaffalatura di esposizione di bevande in un esercizio di ritrovo, sito in Ganzirri, nel quale si effettuava attività di somministrazione di alimenti e bevande senza la prescritta autorizzazione; e l'ha condannata alla pena ritenuta di giustizia.
La decisione è stata confermata dalla Corte di Appello di Messina con sentenza in data 14/3/08.
Contro quest'ultima pronuncia la ***** ha proposto ricorso per cassazione con il quale deduce erronea applicazione dell'art. 349 c.p., sull'assunto che non sarebbe configurabile il reato di violazione di sigilli quando questi sono apposti non per assicurare la conservazione o l'identità della cosa, come enunciato dalla norma incriminatrice, bensì per impedire la prosecuzione di un'attività illegittima.
La III Sezione, cui il ricorso era stato assegnato, con ordinanza in data 23/6/09 lo ha rimesso alle Sezioni Unite rilevando l'esistenza di due contrapposte letture interpretative della norma.
Secondo l'orientamento, largamente prevalente, cui i giudici del merito si sono uniformati (Sez. VI 11/12/69 n. 2401, Del Giudice, rv. 114.231; Sez. VI 22/2/84 n. 4943, Cioce, rv.164.495; Sez. VI 16/4/86 n. 10666, Ventimiglia, rv.173.903; Sez. VI 28/4/93 n.7961, Di Filippo, rv.194.900; Sez. III 10/7/01 n. 36210, Arcieri, rv.220.345; Sez. III 28/1/03 n. 10267, Buonfiglio Tanzarella, rv.224.348; Sez. Ili 26/11/03 n. 2600/04, Biondo, rv.227.398; Sez. Ili 12/1/07 n. 6417, Battello, rv.236.178; Sez. Ili 5/7/07 n. 34151, Ascolese, rv.237.370; Sez. Ili 3/4/08 n.19722, Palomba, rv.240.037) l'oggetto giuridico del delitto di violazione di sigilli va individuato nella tutela della intangibilità della cosa rispetto ad ogni atto di disposizione o di manomissione, dovendosi ricondurre alla finalità di assicurarne la conservazione anche la interdizione dell'uso di essa disposta dall'autorità, senza che rilevino le finalità o le ragioni del provvedimento limitativo.
Secondo un altro orientamento invece (Sez. VI 9/7/82 n.7934, Villanis, rv. 155.056; Sez. VI 24/11/87 n.5248, Clemente, rv.178.261; Sez. Ili 14/10/99 n.13710, Gallo, rv.214.819; Sez. II 12/12/03 n.3416/04, Minopoli, rv.227.865) le finalità indicate nella norma incriminatrice sono tassative e quindi il reato non sarebbe configurabile quando i sigilli non sono apposti per assicurare la conservazione o la identità di una cosa ma per la finalità, considerata diversa e tipicamente sanzionatoria, di impedirne l'uso.
Con decreto del 17/7/09 il Presidente Aggiunto della Corte di Cassazione ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione l'udienza pubblica del 26 novembre 2009.


MOTIVI DELLA DECISIONE


1. Il contrasto per cui il ricorso è stato rimesso alle Sezioni Unite è molto netto, avendo dato luogo a decisioni opposte in situazioni quasi identiche, e si è radicalizzato senza che le due diverse tesi siano state fatte oggetto di particolari approfondimenti, stante l'essenzialità dell'apparato argomentativo delle varie pronunce.
L'area in cui vi è stata difformità rispetto all'orientamento nettamente maggioritario è però piuttosto limitata, riguardando in tutto solo quattro casi di violazione di sigilli apposti per impedire la prosecuzione di attività commerciali o artigianali esercitate in assenza delle necessarie autorizzazioni.
Per la stessa finalità, quella di impedire il protrarsi di attività svolte senza il rispetto della normativa che le disciplina, i sigilli violati risultano essere stati apposti in casi del tutto analoghi in cui è stata adottata la soluzione contraria.
Nessun contrasto rispetto all'orientamento prevalente si è invece mai verificato nelle fattispecie, le più numerose tra quelle che hanno dato luogo a pronunce di questa Corte, in cui i sigilli violati risultano essere stati apposti per impedire la prosecuzione di costruzioni abusive o altre attività in campo edilizio.

2. L'orientamento minoritario si è attestato su una interpretazione strettamente letterale della norma incriminatrice e ha quindi senz'altro ritenuto, senza indagare quelle che potrebbero essere state le ragioni di una simile scelta, che il legislatore abbia voluto attribuire rilevanza penale alla sola violazione dei sigilli apposti per evitare manomissioni dirette ad alterare l'oggettiva consistenza della cosa.
L'orientamento prevalente ha ritenuto invece, sin dalla pronuncia più risalente nel tempo (Sez. VI 11/12/69 n. 2401), che la lettera dell'art. 349 c. p., se non ci si ferma alla più comune accezione delle espressioni usate, non delinea affatto in modo insuperabile un perimetro così limitato. Ciò sul rilievo che "conservare una cosa" letteralmente significa mantenerla nello stato in cui attualmente si trova e quindi, poiché anche il non uso è uno stato, tra i significati che tale espressione è suscettibile di esprimere vi è anche quello di sottrarre la cosa "all'esercizio di ogni facoltà altrui compresa quella di farne uso".
Ritenuto quindi che vi fosse spazio agevolmente percorribile per una interpretazione estensiva della norma incriminatrice di cui si tratta, che non contrasta con il principio di stretta legalità vigente in materia penale non risolvendosi in applicazione analogica in malam partem, l'orientamento prevalente è approdato alla conclusione che il fine di conservazione della cosa, che deve connotare l'apposizione del sigillo perché la sua violazione abbia rilevanza, comprende anche il fine di impedirne l'uso, non solo quello di preservarne la materialità.

3. Le Sezioni Unite ritengono di aderire alla soluzione data alla dall'orientamento
prevalente, sul rilievo che ad essa conducono i criteri propri della interpretazione logica cui, ai sensi dell'art. 12 delle Disposizioni sulla legge in generale, il giudice deve lare ricorso, con il solo limite rappresentato dalla lettera della norma nella sua massima capacità di espansione, per stabilire quale sia la reale intenzione del legislatore. Intenzione che, secondo un canone ermeneutico ormai generalmente recepito e costantemente adottato dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr., tra le molte, Sez. Ili 13/5/08 n. 36845 con riferimento al reato di cui all'art. 674 c.p.) va considerata non in senso soggettivo ma in senso oggettivo, come voluntas legis, sicché non è importante tanto stabilire (soprattutto se, come nel caso di specie, l'origine della norma è lontana nel tempo) quale fosse lo scopo perseguito da chi l'ha redatta, quanto piuttosto individuare quale è la funzione cui essa risponde nel contesto del sistema in cui è attualmente inserita; e ciò al di là delle parole usate che, nella loro accezione più comune, possono non essere, per le più svariate ragioni, le più idonee a compiutamente rivelare la ratio della disposizione.

4. Posta questa premessa, va anzitutto rilevato, sotto il profilo storico, che il testo dell'art. 349 del vigente codice penale, collocato nel capo riguardante i delitti dei privati contro la pubblica amministrazione, riproduce, senza rilevanti variazioni ai fini che qui interessano, quello del precedente art. 201 del codice penale del 1889, e che quest'ultima disposizione era stata mutuata dai codici preunitari (il codice sardo del 1859, che ha imitato la comune casistica del codice francese del 1810, e il codice toscano).
Si tratta dunque di una norma elaborata secondo tecniche e con riferimento a realtà molto lontane nel tempo, sicché più che all'aspetto descrittivo è all'esigenza da cui è ispirata che occorre avere riguardo.
Tale esigenza è stata sempre individuata dalla più autorevole dottrina e dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr., tra le molte, Sez. VI 10/12/85 n. 2109, Manone, rv. 172.144; Sez. VI 15/4/88 n. 926, Tranchino, rv. 180.266; Sez. Ili 28/9/04 n. 42900, Giuliani, rv.230.307) nell'interesse di assicurare il normale funzionamento della pubblica amministrazione in senso lato garantendo il rispetto dovuto a quelle custodie materiali - meramente simboliche, in quanto costituiscono non tanto un mezzo di impedimento fisico all'attività interdetta, quanto piuttosto un segno di avvertimento delle conseguenze giuridiche di tale attività - mediante le quali si manifesta la volontà dello Stato diretta a preservare determinate cose da ogni atto di disposizione o di manomissione da parte di persone non autorizzate.
E poiché questo interesse dello Stato si presenta in moltissimi campi - e all'apposizione di sigilli sono legittimate a fare ricorso, per manifestare erga omnes la presenza di un siffatto vincolo giuridico su determinati beni, sia l'autorità giudiziaria e quella di polizia, nei procedimenti penali e in quelli civili, sia, come è avvenuto nel caso di specie, l'autorità amministrativa ai sensi dell'art. 5 del D.P.R. 29/7/1982 n. 571 recante norme di attuazione della legge 24/11/1981 n. 689 - l'ambito di possibile applicazione dell'art. 349 c.p. risulta molto ampio.

5. Proseguendo nell'indagine diretta a verificare - al di là del dato letterale su cui si fonda l'orientamento giurisprudenziale restrittivo - se esista qualche pregnante ragione per ritenere che la voluntas legis sia di escludere dalla tutela penale dei sigilli i casi, molto numerosi, in cui la loro apposizione è precipuamente finalizzata a impedire l'uso della cosa assicurata con questo mezzo piuttosto che a preservarne l'integrità, è utile ancora ricordare, sotto il profilo sistematico, che la protezione delle cose sottoposte a vincolo è demandata anche ad altre nome incriminatici come l'art. 334 c.p. (che punisce la sottrazione o il danneggiamento di cose sottoposte a sequestro nel corso di un procedimento penale o dall'autorità amministrativa), l'art. 351 c.p. (che punisce la sottrazione, soppressione, distruzione, dispersione o deterioramento di corpi di reato, atti, documenti, ovvero un'altra cosa mobile particolarmente custodita in un pubblico ufficio, o presso un pubblico ufficiale o un impiegato che presti un pubblico servizio) e l'art. 388 comma 3 c.p. (che punisce la sottrazione, soppressione, distruzione, dispersione o il deterioramento di cose, di proprietà dell'agente, sottoposte a pignoramento ovvero a sequestro giudiziario o conservativo).
Rispetto a queste norme - che sono tutte di portata generale, prescindendo dalla specifica finalità per cui il vincolo sulla cosa è stato posto - quella sulla violazione dei sigilli chiaramente rappresenta, come è stato rilevato in dottrina, una forma di tutela "prodromica", in quanto non diretta immediatamente sulla materialità dei beni custoditi ma incentrata sulla repressione dei comportamenti che incidono sui segni esteriori della custodia.

6. Il profilo funzionale che emerge da quanto sinora evidenziato è dunque decisivo, insieme
a quello sistematico, per la risoluzione della questione rimessa alle Sezioni Unite.
Ed invero, poiché il sigillo si configura come un mezzo di portata generale destinato a rafforzare la protezione delle cose che l'autorità giudiziaria o amministrativa è autorizzata dalla legge a rendere indisponibili per il perseguimento dei suoi compiti istituzionali, appare del tutto coerente ritenere che la effettiva voluntas legìs sia di attribuire la stessa ampiezza anche alla tutela penale che a tale strumento si è inteso riconoscere.
E' significativo, infatti, che in dottrina sia pervenuto a questa stessa conclusione - sul rilievo che le finalità indicate dall'art. 349 c.p. non sono di per sé escluse dalla eventuale compresenza di fini ed obiettivi ulteriori rispetto alla conservazione o alla identità della cosa, che si vogliono strumentalmente garantire - anche chi ritiene che le espressioni usate nella norma facciano riferimento alla cosa nella sua materialità.
Come è stato rilevato nella sentenza 12/1/07 n. 6417 della III Sezione, contrasterebbe d'altra parte in modo evidente con la ratio della incriminazione che venissero sottratte alla tutela penale apprestata dall'art. 349 c.p. molte e importanti ipotesi di sequestro cautelare disposto dall'autorità giudiziaria; conseguenza questa cui si perverrebbe alla stregua dell'orientamento, formatosi sui ricordati casi di sequestro amministrativo, che privilegia una interpretazione strettamente letterale della norma. Ciò in particolare accadrebbe per il sequestro preventivo penale (art. 321 c.p.p.) - in relazione al quale l'applicabilità dell'art. 349 c.p. è stata invece specificamente ritenuta (cfr. Sez. Ili 24/1/06 n. 6446, Ornano e altri, rv.233.312) - che è preordinato proprio ad impedire la disponibilità della cosa pertinente al reato, per evitare che dall'uso di essa possa derivare l'aggravamento o la protrazione delle conseguenze o l'agevolazione della commissione di altri reati.

7. Va quindi affermato il principio di diritto che il reato di cui all'art. 349 c.p. è
configurabile anche quando la condotta tipica abbia riguardo a sigilli apposti per impedire l'uso illegittimo della cosa.
Pertanto il ricorso dell'imputata va rigettato con le conseguenze in ordine alle spese processuali previste dall'art. 616 c.p.p.


P.Q.M.


La Corte di Cassazione a Sezioni Unite rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma, il 26/11/2009.