In riferimento al delitto di peculato, può disporsi la confisca per equivalente, prevista dall’art. 322 ter, comma 1, ultima parte, cod. pen., soltanto del prezzo e non anche del profitto del reato 


FATTO E DIRITTO


Il G.i.p. del Tribunale di Roma, in data 20 maggio 2008, emetteva decreto di sequestro preventivo, ai sensi dell'art. 321, comma 2, c.p.p., in relazione all'art. 322 ter cod. pen., di beni intestati o nella disponibilità di Caruso Luciano, sino alla concorrenza dell'importo di euro 4.844.456,03, quale equivalente del profitto che si assumeva dallo stesso realizzato per effetto di condotte illecite, in danno dell'Inpdap, riconducibili alle previsioni degli artt. 81 cpv. e 314 cod. pen..
Il sequestro aveva ad oggetto beni diversi (saldo di conto corrente, automobile e quote societarie).
L'adozione di detto provvedimento si connetteva alle indagini esperite dalla Procura della Repubblica di Roma, per il delitto di peculato continuato - configurato a carico del Caruso e di tale Michieian Francesco Giuseppe [il primo quale legale rappresentante della "Ge.Fi Fiduciaria Romana" s.p.a. e presidente della società consortile (Ge.Fi.- Ciemme) costituita con la "Nuova Ciemme" s.p.a.; il secondo quale amministratore delegato della "Nuova Ciemme" s.p.a. e della società consortile, concessionaria - nel periodo 2002-2004 -della gestione di alcuni lotti del patrimonio immobiliare dell'Inpdap], perché, in violazione dell'art. 26 della Convenzione di gestione (che vietata alla società concessionaria di aprire conti correnti presso istituti diversi da quelli che effettuavano servizio di cassa per l'ente), avevano fatto transitare i flussi finanziari relativi alla commessa Inpdap (canoni di locazione e oneri accessori riscossi dagli inquilini) in un conto corrente bancario, non noto all'ente e quindi fuori da ogni possibilità di controllo, per poi farli confluire anche per la parte di spettanza dell'ente (segnatamente, per l'importo di euro 4.420.879,71) su altro conto corrente riconducibile ai predetti.
Al solo Caruso veniva altresì contestato di essersi appropriato di fondi depositati presso un conto corrente bancario utilizzato per la gestione di immobili dell'Inpdap per il periodo 1996-2002, nonostante la cessazione della convenzione di gestione, auto-liquidando fatture a favore della società concessionaria per un controvalore di 423.576,32 euro, eludendo così la procedura di controllo e pagamento di competenza dell'ente pubblico.

Sull'istanza di riesame presentata nell'interesse del Caruso, il Tribunale di Roma confermava il provvedimento di sequestro con ordinanza dell'8 luglio 2008.
Il Tribunale, in particolare, riteneva configurabile la qualità di incaricato di pubblico servizio in capo al Caruso, argomentando che la gestione del patrimonio immobiliare dell'Inpdap doveva essere considerata attività strettamente funzionale alle finalità pubbliche dell'ente, principali e non meramente accessorie, di erogazione dì prestazioni in danaro ai suoi assistiti.
Ravvisava inoltre nei fatti il fumus del delitto di peculato contestato, sulla base di "palesi ed inequivoci" elementi di fatto desumibili dalla dettagliata informativa di p.g. e dalle dichiarazioni di un coindagato, assunte ai sensi dell'art. 392 c.p.p., non emergendo al contrario, dalle prospettazioni difensive, l'immediato rilievo della insussistenza del fumus stesso, anche in relazione all'elemento soggettivo del reato.
Secondo il Collegio, le dichiarazioni rilasciate dal Caruso alla polizia giudiziaria dimostrerebbero che costui intese attuare, trattenendo la somma di oltre 4 milioni di euro, una sorta di compensazione di crediti e debiti tra la società di gestione e l'Inpdap non prevista dalla convenzione di gestione e comunque tutta da verificare. L'utilizzazione di un conto corrente presso una banca di conoscenza dell'indagato (conto Master) ed in una zona geografica nella quale costui aveva propri interessi, aggirando così i controlli da parte dell'Inpdap, ignara della situazione, paleserebbe l'interesse personale perseguito dall'indagato.
In riferimento alla contestazione di appropriazione indebita, il Tribunale rilevava che lo stesso Caruso aveva addotto di aver agito, nonostante la cessazione della convenzione, in una prospettiva di continuità di gestione - quanto alla mancata chiusura del conto corrente bancario dedicato alla conduzione della commessa - ed aveva ammesso la possibilità di errori e duplicazioni nel pagamento delle fatture, non smentendo pertanto i rilevi accusatori.

In ordine all'oggetto del sequestro, la difesa aveva eccepito l'inapplicabilità - in caso di peculato - del sequestro per equivalente del "profitto" del reato, finalizzato alla confisca, di cui al primo comma dell'art. 322ter c.p., sull'essenziale rilievo che la formulazione letterale della norma considera come termine di raffronto il solo "prezzo" del reato. Il Tribunale, invece, respingeva tale eccezione, richiamando la giurisprudenza di legittimità formatasi in tema dì confisca ex art. 64quater cod. pen. e sostenendo che non vi era ragione per non estenderla anche al profitto del reato di peculato, ove si consideri il richiamo nell'art. 322 ter, comma 1, cod. pen. al peculato e al "profitto".
Circa l'entità del sequestro, il Collegio affermava che non spettano al tribunale del riesame "adempimenti estimatori", rimessi invece alla fase della confisca.
In relazione, infine, alla lamentata carenza di un accertamento preliminare riferito alla verifica di una possibile confiscabilità "diretta" di beni costituenti il prezzo o il profitto del reato, il Tribunale richiamava un recente orientamento di questa Corte Suprema (Sez. VI, n. 31692/2007) secondo il quale - qualora il profitto tratto da taluno dei reati per i quali, ai sensi dell'art. 322fór c.p., è prevista la confisca per equivalente, sia costituito da denaro - l'adozione del sequestro preventivo in vista dell'applicazione di detta misura non può essere subordinata alla verifica che il denaro sia confluito nella effettiva disponibilità dell'indagato giacché, altrimenti, si verrebbe a ristabilire la necessità di un nesso pertinenziale tra la "res" ed il reato, che la legge, con l'introduzione della confisca "per equivalente", ha escluso.

Avverso l'ordinanza del Tribunale del riesame ha proposto ricorso per cassazione il difensore del Caruso, articolando tre doglianze con le quali lamenta.
a) Inosservanza o erronea applicazione della legge penale per l'impossibilità di
ricondurre, anche solo in astratto, il fatto contestato alla fattispecie di peculato.
Secondo la prospettazione difensiva, tale delitto non sarebbe configurabile, nella specie, in quanto la somma che si assume essere oggetto di peculato non sarebbe mai entrata nella disponibilità della società concessionaria, a causa di una considerevole morosità degli inquilini degli immobili gestiti. L'appropriazione di denaro sarebbe stata desunta dall'accusa solo da una mera posta contabile del rendiconto redatto all'atto della conclusione del rapporto tra Plnpdap ed il gestore, che però non indicherebbe alcuna somma effettivamente esistente e disponibile. La somma di oltre 4 milioni di euro rappresenterebbe, quindi, soltanto un credito dell'ente, liquidabile esclusivamente qualora la società concessionaria avesse incassato la somma di circa sette milioni di euro complessivamente dovuta dagli inquilini.
In conclusione, una corretta lettura del documento contabile redatto dall'indagato avrebbe impedito ictu oculi di configurare il reato di peculato.
b) Contrarietà del ragionamento giustificativo della decisione rispetto alle risultanze di
atti processuali specificatamente indicati.
Si assume, in proposito, che il Tribunale del riesame avrebbe travisato, nella valutazione del fumus commissi delitti, la prova documentale ritualmente prodotta dall'indagato. Da tale documentazione emergerebbe appunto che, a fronte del credito dell'Inpdap, l'importo di 4.420.879,71 euro non costituisce una somma entrata nella disponibilità effettiva del gestore, a causa della mancata riscossione dei canoni locatizi.
Viene richiamato, a sostegno della formulazione di detta doglianza, il principio espresso dalla giurisprudenza di legittimità, in tema di sequestro probatorio, secondo cui integra il vizio di cui al novellato art. 606, comma primo, lett. e) c.p.p., la contraddittorietà del ragionamento giustificativo della decisione rispetto alle risultanze di cui agli atti del processo specificamente indicati dal ricorrente.
c) Inosservanza ed erronea applicazione della legge penale in relazione alla confisca per equivalente disciplinata dall'art. 322ter cod. pen.
Il ricorrente lamenta, infine, la violazione dell'art. 322ter cod. pen. poiché l'istituto della confisca per equivalente del "profitto" del reato, da tale norma previsto, erroneamente sarebbe stato ritenuto applicabile alla fattispecie di peculato, che non rientrerebbe, invece, tra le ipotesi delittuose per le quali detta confìsca è consentita. Il primo comma dell'art. 322ter cod. pen. consentirebbe, invero, la confisca per equivalente per il reato di peculato solo in relazione al "prezzo" del reato ed una estensione della misura al "profitto", in via interpretativa, si porrebbe in evidente contrasto con l'art. 25 Cost.

La Sesta Sezione penale di questa Corte Suprema, assegnataria del ricorso - all'udienza camerale del 6 marzo 2009 - ha rimesso la decisione alle Sezioni Unite, ai sensi dell'art. 618 c.p.p. (con ordinanza a 15549, depositata il 9 aprile 2009), avendo ravvisato un contrasto interpretativo in ordine all’assoggettabilità alla confisca per equivalente di beni di valore corrispondente al profitto del reato di peculato.
Il Primo Presidente Aggiunto ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite penali, fissando per la trattazione l'odierna camera di consiglio.


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L'ultimo motivo di ricorso è fondato e merita accoglimento.

1. Va rilevata, preliminarmente, la infondatezza delle altre due doglianze, riferite alla questione della configurabilità, nella specie, del "fumus" del delitto di peculato.
H ricorrente contesta al riguardo - come si è detto - che la somma che si assume essere oggetto di tale reato sia entrata nella disponibilità effettiva della società concessionaria, prospettando, al contrario, che essa rappresenterebbe un mero credito dell'Inpdap, liquidabile soltanto se la società concessionaria avesse incassato dagli inquilini circa sette milioni di euro. A sostegno di tale affermazione, richiama il documento contabile prodotto agli inquirenti e lamenta che esso sarebbe stato travisato dai giudici del riesame.
Tali doglianze, però, più che riferirsi ad un controllo di compatibilità tra la fattispecie concreta e quella legale, ineriscono piuttosto ad una valutazione sulla fondatezza dell'ipotesi accusatoria, non ammessa in sede di procedimento incidentale riguardante l'applicazione di una misura di cautela reale.
Il Tribunale ha stabilito, sul punto, che le somme dovute all'ente furono trattenute dalla società concessionaria, anche ammettendo che tale operazione possa essere stata effettuata, come sostenuto dall'indagato, a titolo di compensazione dei debiti dell'ente medesimo. E la giurisprudenza dominante di questa Corte Suprema individua il momento consumativo del peculato avente ad oggetto il denaro nel momento in cui l'agente si appropria di esso e, quindi, ancor prima della scadenza del rendiconto: non ha influenza l'intenzione di restituire le somme né la restituzione del tantundem, né la scadenza del termine per la presentazione del rendiconto, in quanto la lesione del bene giuridico si è già verificata con l'appropriazione, né verrebbe cancellata la lesione dell'interesse relativo alla integrità patrimoniale della pubblica amministrazione [vedi Cass., Sez. VI: 20.1.2004, n. 1256, P.G. in proc. Bosinco ed altri 2.3.1999, n. 4328, Abate; 10.6.1993, IL 8009, Ferolla]. Pertanto - salvi ovviamente i casi espressamente eccettuati dalla legge - in tema di peculato si esclude il riconoscimento dell'autotutela per la realizzazione dei propri diritti, in quanto l'eventuale mancanza di danno patrimoniale conseguente all'appropriazione non esclude la sussistenza del delitto, atteso che rimane pur sempre leso dalla condotta dell'agente l'altro interesse, diverso da quello patrimoniale, protetto dalla norma, cioè quello del buon andamento, legalità e imparzialità della pubblica amministrazione [Cass., Sez. VI: 31.1.2005, n. 2963, Aiello; 10.6.1993, n. 8009, Ferolla]. In definitiva, a nulla rileva che l'agente, trattenendo le somme incassate per conto dell'ente, abbia preteso di esercitare un proprio supposto diritto ricorrendo a una sorta di autoliquidazione del proprio credito, trattandosi di comportamento non tollerabile a fronte del suddetto interesse della pubblica amministrazione.

2. Al terzo motivo di ricorso inerisce la questione controversa sottoposta all'esame di queste Sezioni Unite ed essa consiste nello stabilire "se, in riferimento al delitto di peculato, possa disporsi la confisca per equivalente, prevista dall'art. bitter, comma 1, ultima parte, cod. pen., non solo del prezzo ma anche del profitto del reato".

2.1 L'art. 322ter cod. pen. - introdotto dalla legge 29-9-2000, n. 300, in occasione della ratifica di specifiche convenzioni internazionali rivolte a contrastare i fenomeni corruttivi
- prevede:
- al 1° comma: che, in caso di condanna o di applicazione di pena "patteggiata" per i più gravi delitti contro la pubblica amministrazione (quelli previsti dagli artt. da 314 a 320 cod. pen.), anche se commessi dai soggetti indicati nel 1° comma dell'art. 322bis cod. pen., è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono "/7 profitto o il prezzo", salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero,, quando questa non sia possibile, la confisca di beni di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale "prezzo" [ed. confisca per equivalente];
- al 2° comma: che, in caso di condanna per il delitto di corruzione attiva (art. 321 cod. pen), è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono "il profitto", salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando questa non sia possibile, la confisca di beni di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a quello di detto profitto e, comunque, non inferiore a quello del denaro o delle altre utilità date o promesse al pubblico ufficiale o all'incaricato di pubblico servizio o agli altri soggetti indicati nel 2° comma dell'art. 322bis cod. pen.;
- al 3° comma: che il giudice, nei casi di cui ai precedenti due commi, con la sentenza di condanna determina le somme di denaro o individua i beni assoggettati a confisca in quanto costituenti "il profitto o il prezzo" del reato ovvero in quanto di valore corrispondente "al profitto o al prezzo" del reato.
La previsione della "confisca per equivalente" [alla quale già si riferivano l'art. 7356/5 c.p.p., introdotto dalla legge 9.8.1993, n. 328, e l'art. 644 cod. pen., in tema di usura, come riformulato dalla legge 7.3.1996, n. 108] - nel caso in cui i beni costituenti il profitto o il prezzo del reato non siano aggredirli per qualsiasi ragione - è rivolta a superare gli ostacoli e le difficoltà per la individuazione dei beni in cui si "incorpora" il profitto iniziale, nonché ad ovviare ai limiti che incontra la confisca dei beni di scambio o di quelli che ne costituiscono il reimpiego.
Ciò comporta che la stessa confisca per equivalente - alla quale è funzionale il sequestro preventivo di ciò che a tale provvedimento ablativo può essere soggetto all'esito del procedimento - può riguardare (a differenza dell'ordinaria confisca prevista dall'art. 240 cod. pen., che può avere ad oggetto soltanto cose direttamente riferibili al reato) beni che, oltre a non avere alcun rapporto con la pericolosità individuale del reo, neppure hanno alcun collegamento diretto con il singolo reato [cfr. Cass., Sez. Unite, 22.11.2005, n. 41936, Muci]. La ratio dell'istituto è quella di privare il reo di un qualunque beneficio economico derivante dall'attività criminosa, anche di fronte all'impossibilità di aggredire l'oggetto principale, nella convinzione della capacità dissuasiva e disincentivante di tale strumento, che assume "i tratti distintivi di una vera e propria sanzione" [vedi Cass., Sez. Unite: 2.7.2008, n. 26654, Fisia Italimpianti Spa ed altri e 15.10.2008, n. 38834, P.M. in proc. De Maio].

2.2 Nell'interpretazione dell'art. 322ter cod. pen., l'indirizzo giurisprudenziale assolutamente prevalente, ancorato al dato letterale della norma, è orientato nel senso che la anzidetta previsione della confiscabilità (e quindi del prodromico sequestro) per equivalente non è applicabile in relazione al "profitto" del delitto di cui all'art. 314 cod. pen., dovendo ritenersi limitata, invece, al solo tantundem del "prezzo" del reato [così Cass., Sez. VI: 11.4.2006, n. 12852, P.M. in proc. Ingravallo; 11.4.2006, n. 12853, P.M. in proc. Fornarelli; 22.5.2006, n. 17566, P.M. in proc. Tortorici; decisioni alle quali si sono adeguate, senza particolari motivazioni, Cass:, Sez. VI: 18.5.2007, n. 19586, Pantonio; 10.3.2009, n. 10679; Marzetti; 7.4.2009, n. 14966, Marzetti]. Ciò in quanto:
- appare "insostenibile" che il legislatore, nella formulazione dell'art. 322ter cod. pen., abbia usato il termine "prezzo" in senso atecnico, così da includere qualsiasi utilità connessa al reato, perché le nozioni di "prezzo" e di "profitto" risultano nettamente distinte già nell'art. 240 cod. pen. e non sarebbe logico ritenere che sia voluto derogare sul punto con l'art. 322ter dello stesso codice;
- nell'iter parlamentare dell'approvazione della legge n. 300 del 2000 (che ha introdotto l'art. 322/er cod. pen.) - mentre in una prima versione era prevista la confisca per equivalente di beni di valore corrispondente al profitto e al prezzo dei reati previsti dagli artt. da 317 a 322*/* cod. pen. - nella versione definitiva la confisca medesima è stata limitata, per i reati previsti dagli artt. da 314 a 3226« cod. pen., all'equivalente del solo prezzo:
- risulterebbe chiara la volontà del legislatore nel senso di escludere, al di fuori delle ipotesi di cui al secondo comma dell'art. 322tór cod. pen., il profitto del reato da tale ipotesi di confisca;
- tale scelta normativa, in sé non qualificabile come irrazionale od illogica, risulterebbe esercizio della potestà discrezionale del legislatore; né la stessa si porrebbe in contrasto con le norme pattizie internazionali, atteso che queste ultime hanno ad oggetto esclusivamente ipotesi riconducibili, nel diritto interno, alle fattispecie della corruzione e della concussione e non già a quella del peculato;
- non sarebbe dirimente il principio affermato dalle Sezioni Unite, con la sentenza 22.11.2005, n. 41936, Muci, riferita all'oggetto della confisca per equivalente prevista dall'art. 640quater cod. pen., in quanto la estensione di essa anche all'equivalente del profitto si giustificherebbe in forza del rinvio disposto in tale articolo all'intero testo dell'art. 322ter cod. pen. e quindi anche alla confisca prevista dal secondo comma, comprensiva della confisca di valore sia del prezzo sia del profìtto.

2.3 In senso contrario si pone un'unica decisione di questa Corte [Cass., Sez. VI, 25.3.2005, n. 11902, Baldas] che, se pure in modo non diretto (perché sulla questione non vi era ricorso dell'interessato), aderisce di fatto ad una interpretazione estensiva secondo la quale, in relazione al delitto di peculato, sono assoggettabili a confisca, in forza dell'art. 322ter cod. pen., beni nella disponibilità dell'imputato per un valore corrispondente a quello relativo al profitto o al prezzo del reato [analoga pronuncia si rinviene in relazione ad un'ipotesi di confisca per equivalente di denaro rinvenuto in conti bancari nella disponibilità di soggetti indagati per concussione: Cass., Sez. VI, 17.7.2006, n. 24633, Lucci ed altro],

3. Tra i due orientamenti giurisprudenziali dianzi illustrati ritengono queste Sezioni Unite di aderire al primo di essi, cioè all'interpretazione restrittiva, secondo la quale deve escludersi la confiscabilità per equivalente del profitto del reato di cui all'art. 314 cod. pen.

Tale conclusione si basa sulle seguenti considerazioni.
3.1 Le nozioni di "prezzo" e di "profitto" del reato sono nettamente distinte in relazione al trattamento fattone dall'art. 240 cod. pen. e devono ritenersi presupposte nella loro diversa valenza tecnica dall'art. 322ter dello stesso codice.
3.2 Queste Sezioni Unite hanno già rilevato che non è rinvenibile in alcuna disposizione legislativa una definizione della nozione di "profìtto del reato" e che tale locuzione viene utilizzata in maniera meramente enunciativa nelle varie fattispecie in cui è inserita, assumendo quindi un'ampia "latitudine semantica" da colmare in via interpretativa [Sezioni Unite, 2.7.2008, n. 26654, Fisia Italimpianti Spa ed altri]. In detta pronuncia [con riferimento alla confisca di valore prevista dall'art. 19 del D.Lgs. 8.6.2001, n. 231] sono state richiamate le consolidate affermazioni giurisprudenziali sulla nozione di "profitto del reato" contenuta nell'art. 240 cod. pen., secondo le quali: "il profitto a cui fa riferimento l'art. 240, comma 1, cod. pen., deve essere identificato col vantaggio economico ricavato in via immediata e diretta dal reato e si contrappone al "prodotto" e al "prezzo" del reato. Il prodotto è il risultato empirico dell'illecito, cioè le cpse create, trasformate, adulterate o acquisite mediante il reato; il prezzo va individuato nel compenso dato o promesso ad una determinata persona, come corrispettivo dell'esecuzione dell'illecito" [vedi Sez. Unite : 24.2.1993, n. 1811, Bissoli; 17.10.1996, n. 9149, Chabni Samir].
All'espressione "vantaggio economico", tuttavia, non va attribuito il significato di "utile netto" o di "reddito", bensì quello di "beneficio aggiunto di tipo patrimoniale" [cfr. Sez. Unite: 9.7.2004, n. 29951, Curatela fall., in proc. Focarelli; 9.7.2004, n. 29952, Curatela fall., in proc. Romagnoli]: il termine "profitto", invero, non può essere inteso come espressione di una grandezza residuale o come reddito di esercizio, determinato attraverso il confronto tra componenti positive e negative del reddito [cfr. Sez. Unite, 2.7.2008, n. 26654, Fisia Italimpianti Spa ed altri].
La delineata nozione di "profitto" del reato può peraltro subire un ridimensionamento quanto il reato, come nel caso in esame, non si inserisca nello scenario di un'attività totalmente illecita. In ipotesi, infatti, in cui il comportamento penalmente rilevante venga attuato nell'ambito di un 'attività contrattuale e non coincida con la stipulazione del contratto in sé, ma vada ad incidere unicamente sulla fase di esecuzione del programma negoziale, è possibile enucleare aspetti leciti del relativo rapporto, con la conseguenza che il corrispondente profitto tratto dall'agente ben può essere non ricollegabile direttamente alla condotta sanzionata penalmente. Il corrispettivo di una prestazione regolarmente eseguita dall'obbligato ed accettata dalla controparte, che ne trae comunque una concreta utilitas, non può costituire, pertanto, una componente del profitto da reato, perché trova titolo legittimo nella fisiologica dinamica contrattuale [vedi Cass.: Sez. Unite, n. 26654/2008 e, in tema di corruzione, Sez. VI, 29.4.2009, n. 17897, P.M. inproc. Ferretti].
Altro principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità [di recente ribadito da Sez. Unite, n. 26654/2008] è che il profitto del reato presuppone l'accertamento della sua diretta derivazione causale dalla condotta dell'agente. Il parametro della pertinenzialità al reato del profitto rappresenta l'effettivo criterio selettivo di ciò che può essere confiscato a tale titolo: occorre cioè una correlazione diretta del profitto con il reato ed una stretta affinità con l'oggetto di questo, escludendosi qualsiasi estensione indiscriminata o dilatazione indefinita ad ogni e qualsiasi vantaggio patrimoniale, che possa comunque scaturire, pur in difetto di un nesso diretto di causalità, dall'illecito [vedi Sez. Unite, 19.1.2004, n. 920, Montella]. Tale criterio di selezione non appare scalfito dalla pronuncia [Sez. Unite 6.3.2008, n. 10280, Miragliotta] che, con riferimento alla confisca "diretta" (ed. di proprietà) del profitto della concussione, ha ricompreso nella nozione di profitto anche il bene acquistato con il denaro illecitamente conseguito attraverso il reato, sottolineando che tale reimpiego deve comunque essere "causalmente" ricollegabile al reato e al profitto "immediato" dello stesso.

3.3 II "prezzo del reato", invece - come già si è detto - è stato individuato dalla  giurisprudenza nel "compenso dato o promesso ad una determinata persona, come corrispettivo dell'esecuzione dell'illecito", ovvero in "un fattore che incide sclusivamente sui motivi che hanno spinto l'interessato a commettere il reato" [Sez. Unite, n. 9149/1996, Chabni Samir],

Ad esso non può essere attribuita la definizione di "utilità economica" ricavata dalla commissione del reato [Sez. Unite, 24.2.1993, n. 1811, Bissoli] e, in coerenza con tale affermazione, questa Corte ha escluso, fra l'altro, che possano identificarsi nel "prezzo del reato": il denaro esposto nel gioco d'azzardo [Sez. Unite, n. 1811/1993, Bissoli], il corrispettivo versato allo spacciatore per la cessione di sostanza stupefacente [Sez. Unite, n. 9149/1996, Chabni Samir], la cosa incautamente acquistata [Sez. II, 5.10.1998, n. 10456, Assetiti], il danaro consegnato dalla prostituta al suo sfruttatore [Sez. Ili, 10.2.2000-7.4.2000, n. 661, Brunetti].

3.4 A fronte della netta distinzione tra le nozioni di "prezzo" e di "profitto" del reato come sopra delineata - ed in mancanza di una chiara indicazione normativa che attribuisca a tali termini un significato diverso da quello comunemente loro assegnato (pure tenendo conto del travagliato iter parlamentare di approvazione della legge n. 300/2000, che, attraverso scansioni particolarmente tortuose, ha portato a ripetuti assestamenti del testo legislativo) - deve convenirsi, dunque, che non esiste alcun elemento idoneo a far ritenere che il legislatore, nella formulazione dell'art. 322ter cod. pen., abbia usato il termine "prezzo" in senso atecnico, così da includere qualsiasi utilità connessa al reato.
Argomento troppo debole, a sostegno dì un'interpretazione contraria, appare quello secondo il quale - nella lettura dell'art. 322ter cod. pen. - l'espressione "valore corrispondente a tale prezzo", conclusiva del Io comma, potrebbe riferirsi, per le significazioni o||nicomprensive attribuibili all'aggettivo indicativo "tale", anche al valore dei beni integranti il "profitto", precedentemente indicati. Si tratta, invero, di un'interpretazione grammaticale opinabile, stante comunque l'uso dell'aggettivo al singolare, mentre la ricognizione del significato della formula legislativa non può prescindere dalle connessioni concettuali e dal collegamento sistematico con la formulazione dell'art. 240 cod. pen.
Nella formulazione definitiva dell'art. Z22ter cod. pen. appare perciò inconfutabile la previsione della inoperatività della confisca per equivalente per i profitti derivanti dalle fattispecie di reato previste al primo comma, diverse dalla corruzione attiva, nelle quali il vantaggio ottenuto dal reato non è qualificabile come "prezzo".
La dottrina ha generalmente evidenziato che tale restrizione non appare coerente con la ratio dell'istituto della confisca per equivalente, diretta ad attuare un riequilibrio compensativo a favore della collettività, una sorta di prelievo pubblico dei proventi illeciti nel loro complesso.
Ciò è senz'altro condivisibile (e queste Sezioni Unite, già nella sentenza n. 41936/05, Muci, hanno fatto riferimento ad una "indubbia stonatura"), ma all'apposizione normativa del limite non può ovviarsi con una interpretazione sostanzialmente correttiva, essendo invece necessario l'intervento del legislatore.

4. Né può ritenersi che la limitazione in oggetto sia stata abrogata dall'art. 3356» cod. pen. (introdotto dall'art. 6 della legge 27-3-2001, n. 97), attribuendo a tale norma la funzione di estendere la confisca a tutte le ipotesi in cui residuino utilità economiche rivenienti all'autore dalla commissione di ciascuno dei reati previsti dagli artt. da 314 a 335 cod. pen.
L'art. 3356/5, infatti, non contempla espressamente la confisca di valore e la clausola di salvezza di "quanto previsto dall'articolo 322ter" appare escludere tale istituto dall'ambito di applicazione della norma.

5. Alla conclusione dianzi raggiunta potrebbe obiettarsi che sia la nozione di "prezzo" sia quella di "profitto" possono ricomprendersi all'interno del più ampio concetto di "provento" del reato: locuzione frequentemente utilizzata dalla normativa comunitaria, alla quale anche questa Corte, in passato, aveva assegnato carattere onnicomprensivo e, quindi, nella sua latitudine semantica, inclusivo di tutto ciò che deriva dalla commissione del reato nelle diverse nozioni - indicate nell'art. 240 cod. pen., commi 1 e 2 - di prezzo, prodotto e profitto [Sez. Unite, 28.4.1999-8.6.1999, n. 9, Bacherotti].
Ciò si uniformerebbe all'obbligo di interpretazione "conforme" della normativa nazionale al diritto dell'Unione Europea ed alle Convenzioni internazionali.

In tale prospettiva il riferimento essenziale è: -- alla decisione-quadro del Consiglio dell'Unione Europea relativa alla confisca di beni, strumenti e proventi di reato (2005/212/GAl) del 24 febbraio 2005, con la quale è stata demandata agli Stati membri l'adozione, entro il 15 marzo 2007, delle "misure necessarie per poter procedere alla confisca totale o parziale di strumenti o proventi di reati punibili con una pena privativa della libertà superiore ad un anno o di beni il cui valore corrisponda a tali proventi', (qualificandosi come "provento" "ogni vantaggio economico derivato da reati"); -- al secondo Protocollo della Convenzione relativa alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee del 19 giugno 1997 (ratificato in Italia con la legge 4.8.2008, n. 135), dove si stabilisce, all'art. 5, che ciascuno Stato membro dell'Unione europea adotti le misure che gli consentano il sequestro e la confisca o comunque di ordinare la privazione degli strumenti e dei "proventi della frode, della corruzione attiva o passiva e del riciclaggio di denaro o di proprietà del valore corrispondente a tali proventi".
I reati presi in considerazione dal Protocollo sono: la "frode", ovvero le condotte descritte all'art. 1 della Convenzione relativa alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee; la "corruzione passiva", ovvero le condotte di cui all'art. 2 del Protocollo della Convenzione relativa alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee, del 27 settembre 1996; la "corruzione attiva", ovvero le condotte di cui all'art. 3 dello stesso Protocollo; il "riciclaggio di denaro", come definito nella direttiva del Consiglio 91/308/CEE, del 10 giugno 1991, relativa alla prevenzione dell'uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività illecite, in relazione ai proventi della frode,, almeno nei casi gravi, e della corruzione attiva o passiva.

In relazione agli atti dianzi citati si assume, dunque, che - secondo un'interpretazione comunitariamente orientata - potrebbe pervenirsi alla configurazione di una nozione di "provento del reato" suscettibile di ricomprendere, in tutte le sue possibili forme, il profitto derivato direttamente o indirettamente dal reato e il suo impiego.
Non può dimenticarsi, però, che la Corte di giustizia di Lussemburgo - con la sentenza 16 giugno 2005, causa C-105/03, Pupino, che ha applicato un criterio ormai consolidato per quanto attiene la normativa comunitaria - ha stabilito che:
* Il giudice nazionale deve, nell'applicare il diritto interno, attenersi ad una interpretazione "conforme" alle decisioni-quadro adottate nell'ambito del titolo VI del Trattato sull'Unione europea. Pertanto, il giudice dello Stato membro è tenuto ad applicare il diritto nazionale per quanto possibile "alla luce della lettera e dello scopo della decisione-quadro", al fine di conseguire il risultato perseguito da questa e di conformarsi così all'art. 34, n. 2 - lett. b), del Trattato. In altri termini, fin dove il diritto interno consente un'interpretazione conforme alla decisione-quadro, in quanto, ad esempio, le disposizioni pertinenti contengono clausole generali o concetti giuridici indefiniti, il giudice nazionale deve utilizzare l'intero spazio valutativo ad esso concesso in favore del diritto dell'Unione europea.
L'obbligo per il giudice nazionale di far riferimento al contenuto dì una decisione-quadro quando interpreta le norme pertinenti del proprio diritto trova tuttavia due criteri-limite: da un lato, il limite generale, di ordine logico-formale, consistente nel divieto di pervenire ad una interpretazione contra legem del diritto nazionale; dall'altro, il limite specifico costituito dai precisi vincoli derivanti dai principi generali del diritto. Sotto quest'ultimo aspetto, la Corte europea di giustizia ha precisato che l'obbligo di interpretazione conforme "trova i suoi limiti nei principi generali del diritto, ed in particolare in quelli di certezza del diritto e di non retroattività", chiarendo, più specificatamente, che tali principi "ostano a che il detto obbligo possa condurre a determinare o ad aggravare, sul fondamento di una decisione-quadro e indipendentemente da una legge adottata per l'attuazione di quest'ultima, la responsabilità penale di coloro che agiscono in violazione delle sue disposizioni" [ vedi pure le sentenze della Corte di giustizia: 11 giugno 1987, causa 14/86, Pretore di Salò; 26 settembre 1996, causa C168/95, Arcaro; 7 gennaio 2004, causa C60/02; 3 maggio 2005, cause C387/02, C391/02 e C403/02, Berlusconi ed altri]. Tale limite deriva dal principio della legalità della pena, che appartiene ai principi generali del diritto comuni alle tradizioni costituzionali degli Stati membri e che è sancito anche: dall'art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali; dall'art. 15, n. 1, prima frase, del Patto internazionale sui diritti civili e politici; nonché dall'art. 49, n. 1, prima frase, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea.

Quanto ai rapporti tra diritto comunitario, obblighi internazionali e diritto interno, la nostra Corte Costituzionale - pur riconoscendo il carattere coordinato dell'ordinamento nazionale e dell'ordinamento comunitario, pur ammettendo, altresì, l'impatto diretto dei principi e delle norme comunitarie all'interno del nostro ordinamento - ha tuttavia precisato che in ogni caso devono essere rispettati i principi fondamentali della Costituzione italiana ed i diritti fondamentali inalienabili della persona.
La stessa Corte costituzionale ha stabilito che l'obbligo di una interpretazione conforme agli obblighi internazionali, derivanti da fonti non contemplate dagli artt. 10 e 11 della Costituzione, discende in via generale dall'art. 117, 1° comma, della stessa Carta fondamentale. Il suddetto parametro costituzionale comporta: da un lato, l'obbligo del legislatore ordinario di rispettare dette norme, con la conseguenza che la norma nazionale incompatibile con gli "obblighi internazionali" di cui all'art. 117, 1° comma, Cost. viola per ciò stesso quell'articolo; dall'altro, l'obbligo del giudice nazionale di interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale, entro i limiti nei quali ciò sia permesso dai testi delle norme. Qualora ciò non sia possibile, ovvero dubiti della compatibilità della norma interna con la disposizione convenzionale "interposta", egli deve investire la Corte Costituzionale della relativa questione di legittimità costituzionale rispetto al parametro dell'art. 117, primo comma [Corte Cost.: sentenze nn. 348 e 349 del 2007].
Peraltro, è costante la giurisprudenza costituzionale secondo la quale il 2° comma dell'art. 25 Cost. deve ritenersi ostativo all'adozione di una pronuncia additiva che comporti effetti costitutivi o peggiorativi della responsabilità penale, trattandosi di interventi riservati in via esclusiva alla discrezionalità del legislatore.

Deve concludersi, pertanto, che l'utilizzo della normativa sovranazionale, allo scopo di integrazione di elementi normativi va escluso allorquando - come si verificherebbe nel caso di specie - gli esiti di una esegesi siffatta si traducano in una interpretazione in malam partem della fattispecie penale nazionale.

Va rilevato ancora che la legge 4.8.2008, n. 135 [che ha ratificato il secondo Protocollo della Convenzione relativa alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee del 19 giugno 1997] non può ritenersi aver determinato, per i reati rientranti nell'ambito di operatività dell'art. 322ter cod. pen., il riconoscimento della possibilità della confisca per equivalente anche dei relativi "profitti"".
La stessa relazione illustrativa della legge dà atto, infatti, della mancanza di norme attuative sul punto, tanto che, al momento della sua emanazione, già la legge 25.2.2008, n. 34 (Legge comunitaria 2007) aveva conferito al Governo la delega [divenuta ormai inefficace per la scadenza del termine di adempimento] a dare attuazione alla decisione-quadro del Consiglio dell'Unione Europea 2005/212/GAI del 24.2.2005, relativa alla confisca di beni, strumenti e proventi del reato.

6. Per compiutezza argomentativa deve evidenziarsi, infine, che - nelle more della redazione della motivazione della presente sentenza - è stata pubblicata [nella G.U. n. 188 del 14.8.2009 ed è entrata in vigore il giorno successivo] la legge 3 agosto 2009, n. 116 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione dell'Organizzazione delle Nazioni Unite contro la corruzione, adottata dall'Assemblea generale dell'ONU il 31 ottobre 2003 con risoluzione n. 58/4, firmata dallo Stato italiano il 9 dicembre 2003, nonché norme di adeguamento interno e modifiche al codice penale e al codice di procedura penale).
La Convenzione internazionale anzidetta, aperta alla firma a Merida il 9 dicembre 2003, è composta da un ampio Preambolo e da 71 articoli e costituisce il primo accordo intervenuto tra Stati a livello mondiale per il contrasto della corruzione come fenomeno transnazionale.
L'art. 2, lett. e), della Convenzione medesima, in particolare, nel definire i "proventi del crimine" oggetto delle misure espropriative, fa riferimento anche ai beni provenienti "indirettamente" dal reato, con nozione ben più ampia di quella di "profitto" elaborata dalla giurisprudenza nazionale
Di tale normativa non hanno, ad evidenza, potuto tenere conto queste Sezioni Unite al momento della presente decisione.
Anche in relazione alla legge n. 116/2009 deve darsi atto, comunque, della mancanza di norme attuative nel nostro Paese, rilevandosi che il Governo non ha dato attuazione alla delega conferitagli dalla già citata Legge comunitaria 2007, n. 34/2008, il cui art. 31 fissava quali criteri direttivi della disciplina della confisca del "provento del reato":
— (n. 1) la obbligatorietà della confisca del prodotto e del prezzo del reato, nonché del profitto derivato direttamente o indirettamente dal reato, e del suo impiego, nella parte in cui non debbano essere restituiti al danneggiato, nel caso di condanna, o di applicazione della pena su richiesta delle parti;
— (n. 3) l'obbligo di eseguire sempre la confisca, totale o parziale, su altri beni di valore equivalente a quello delle cose che costituiscono il prezzo, il prodotto o il profitto del reato, con eccezione dei beni impignorabili ai sensi dell'art. 514 cod. proc. civ,

7. Per tutte le considerazioni dianzi svolte va affermato, in conclusione, il principio di diritto secondo il quale "in riferimento al delitto di peculato, può disporsi la confisca per equivalente, prevista dall'art 322 ter, comma 1, ultima parte, cod. pen., soltanto del prezzo e non anche del profitto del reato".
8. Il Collegio è ben consapevole che - mentre, nella corruzione, la somma percepita dal pubblico ufficiale costituisce "prezzo del reato" ogni qualvolta sia stata data o ricevuta come controprestazione per lo svolgimento dell'azione illecita - la maggior parte degli altri reati previsti dal primo comma dell'art. 323 ter cod. pen. non risultano caratterizzati, invece, dall'esecuzione nella dinamica delittuosa di illecite prestazioni corrispettive, sicché il beneficio economico conseguito dal reo non può che identificarsi nel "profitto del reato". Così è: nella concussione, per "il denaro od altra utilità" estorti (Cass., Sez. VI, 25.1.1995, n. 4114, Giacalone); nel reato di cui all'art. ì\6ter cod. pen. per "la indebita percezione di pubbliche erogazioni" (Cass., Sez. n, 28.3.2003, n. 14817, P.G. in proc. Caminati ed altro); nel peculato per "il danaro o altra cosa mobile" oggetto di appropriazione (ex plurimis, Cass., Sez. VI, 20.10.2000, n. 10797, Mazzitelli).
Per tali delitti la confisca del "prezzo", inteso come compenso dato o promesso per indurre, istigare o determinare un altro soggetto a commettere il reato, appare ipotesi quasi puramente scolastica, tale comunque da svuotare l'istituto della confisca per equivalente di gran parte della sua valenza operativa.

Evidenti risultano, altresì, le discrasie di un sistema sanzionatone nel quale:
— Al solo profitto fa riferimento, per la confisca di valore, l'art. 6Q0septies cod. pen. (come novellato dalla legge 11 agosto 2003, n. 228), dove viene stabilito che, nei casi in cui non sia possibile la confisca diretta di beni che costituiscono il profitto o il prezzo dei delitti contro la personalità individuale, previsti dalla sezione I del capo HI dello stesso codice, la misura ablatoria abbia ad oggetto "beni di cui il reo ha la disponibilità per un valore corrispondente a tale profitto".
— La legge 18 aprile 2005, n. 62 (Legge comunitaria 2004) ha stabilito (con l'art. 9) - nel complesso delle disposizioni volte a modificare il testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, di cui al D.Lgs. n. 58/1998 - che, in caso di condanna per uno dei reati ivi previsti (abuso di informazioni privilegiate e manipolazione del mercato), sia disposta "la confisca del prodotto o del profitto conseguito dal reato e dei beni utilizzati per commetterlo" e, in caso l'esecuzione della stessa non sia possibile, che la stessa possa avere ad oggetto "una somma di denaro o beni di valore equivalente".
— La legge 16 marzo 2006, n. 146 {Ratifica ed esecuzione della Convenzione e dei Protocolli delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale, adottati dall'Assemblea generale il 15 novembre 2000 ed il 31 maggio 2001) ha previsto, all'art. 11, che, per i reati di criminalità organizzata transnazionale, definiti all'art 3 della stessa legge, qualora la confisca delle cose che costituiscono il prodotto, il profìtto o il prezzo del reato non sia possibile, il giudice ordini la confisca di somme di denaro, beni od altre utilità di cui il reo ha la disponibilità, anche per interposta persona fisica o giuridica, "per un valore corrispondente a tale prodotto, profitto o prezzo".
— La confisca di valore di cui all'art. 6A%quater cod. pen., introdotto con il D.Lgs. 21 novembre 2007, n. 231 {Attuazione della direttiva 2005/60/CE concernente la prevenzione dell'utilizzo del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo nonché della direttiva 2006/70/CE che ne reca misure di esecuzione) fa espresso riferimento all'equivalente del prodotto, profitto o prezzo dei reati previsti dagli artt. 64Zbis e 648ter cod. pen. (riciclaggio ed impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita).
— La legge 24 dicembre 2007, n. 244 {Legge finanziaria 2008), con l'art. 1, comma 143, ha esteso la confisca di valore anche ai reati fiscali, prevedendo che "nei casi di cui agli articoli 2, 3, 4, 5, 8, 10bis, 10ter, 10quater e 11 del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74 si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni di cui all'art. 322ter del codice penale".
— La legge 23 luglio 2009, n. 99 {Disposizioni per lo sviluppo e l'internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia) - pubblicata, nelle more della redazione della motivazione della presente sentenza, nella G.U. n. 176 del 31.7.2009, suppl. ord. n. 136 - ha introdotto l'art. 474te cod. pen., che prevede la confisca obbligatoria delle cose che servirono o furono destinate a commettere i reati di cui agli artt. 473 e 474 dello stesso codice (contraffazione, alterazione o uso di marchi o segni distintivi ovvero di brevetti, modelli e disegni - introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi) e "delle cose che ne sono l'oggetto, il prodotto, il prezzo o il profitto, a chiunque appartenenti", nonché, qualora ciò non sia possibile, "la confisca di beni di cui il reo ha la. disponibilità "per un valore corrispondente [esclusivamente n.d.r.] al profitto", richiamando espressamente altresì il 3° comma dell'art. 322ter cod. pen.
~ Il D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, contenente la disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche in ordine a taluni delitti, per lo più coincidenti con quelli richiamati dagli artt. 322ter e 640quater c.p., ha poi previsto in via generale all'art. 19, in caso di condanna, la confisca obbligatoria, nei confronti dell'ente, del prezzo o del profitto del reato e, nel caso non sia possibile la sua esecuzione, la confisca di "somme di denaro, beni o altre utilità di valore equivalente al prezzo o al profitto del reato".
— Il D.Lgs. 11 aprile 2002, n. 61, contenente la disciplina degli illeciti penali e amministrativi riguardanti le società commerciali, ha novellato l'art. 2641 cod. civ., prevedendo la confisca obbligatoria del profitto o del prodotto e dei beni utilizzati per commettere uno dei reati previsti dal titolo XI del Libro V del codice civile, o, in caso di impossibilità, di denaro o beni di valore equivalente.
~ La legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Legge finanziaria 2007), con la novella del comma 2bis, ha reso applicabile ai delitti previsti dagli artt. 314, 316, 316, 316ter, 317, 318, 319, 319ter, 320, 322, 3226/5 e 325 cod. pen. la speciale "confisca allargata" di cui all'art. 12sexies D.L. n. 306/1992, convertito con modificazioni dalla legge n. 356/1992, riguardante il denaro, i beni o le altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza. ~ Queste Sezioni Unite, con la sentenza 22.11.2005, n. 41936, Muci, hanno ritenuto ammissibile la confiscabilità per equivalente anche del profitto dei reati indicati nell'art. 64quater cod. pen.

Palese risulta, dunque, la simultanea coesistenza di una congerie di norme settoriali, non coordinate tra loro, in cui l'istituto della confisca per equivalente viene previsto, in modo altalenante, talvolta in termini perspicui ed efficienti e talaltra, invece, senza un efficace spazio di operatività. Né mancano profili di contraddittorietà, come può rilevarsi, ad esempio, attraverso la constatazione che, mentre per le persone fisiche condannate per i delitti richiamati dal primo comma dell'art. 322 ter cod. pen., non può farsi luogo alla confisca per equivalente del profitto, ciò risulta invece ammesso nei confronti dell'ente eventualmente coinvolto in relazione agli stessi fatti.

Si pone perciò la necessità che il legislatore provveda a disciplinare in modo sistematico tutte le ipotesi di confisca obbligatoria e di confisca per equivalente, già previste con norme frammentarie e prive di coordinamento.
A fronte, però, di una disposizione normativa che limita inequivocabilmente la confisca per equivalente al solo "prezzo" del reato, va ribadito che questa Corte non può pervenire ad una non consentita estensione "/» malam partem" del dettato legislativo.

9. Per le argomentazioni dianzi svolte, deve disporsi l'annullamento senza rinvio dell'ordinanza impugnata nonché del decreto di sequestro 20.5.2008 del G.I.P. del Tribunale di Roma e la restituzione dei beni sequestrati all'avente diritto, mandandosi alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all'art. 626 c.p.p.

 

P.Q.M.

 

La Corte Suprema di Cassazione, a Sezioni Unite, visti gli artt. 127 e 325 c.p.p., annulla senza rinvio l’ordinanza impugnata nonché il decreto di sequestro 20.5.2008 del G.I.P. del Tribunale di Roma e dispone restituirsi i beni sequestrati all'avente diritto. Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all'art. 626 c.p.p. Così deliberato in camera di consiglio, il 25 giugno 2009