La circostanza attenuante ad effetto speciale prevista dall’art. 8 d.l. 13 maggio 1991 n. 152, cosiddetta della “dissociazione attuosa”, non è soggetta al giudizio di bilanciamento tra circostanze.  


Svolgimento del processo

 

1. Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte di appello di Salerno confermava la responsabilità di ***** per fatti di estorsione aggravata (art. 629, secondo comma, c.p.) e di concorrenza illecita con minaccia (art. 513-jbis c.p.) commessi in danno di *****, in Pagani tra il maggio 1998 e il 1° aprile 1999.
a) All'esito del giudizio abbreviato di primo grado il Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Salerno, ritenuta sussistente la continuazione tra i reati contestati, aveva condannato l'imputato alle pene di anni quattro di reclusione ed euro 600,00 di multa, riconoscendo la diminuente della dissociazione di cui all'art. 8 del d.l. 13 maggio 1991 n. 152, convertito con modificazioni dalla legge 12 luglio 1991 n. 203, equivalente, a norma dell'art. 69, terzo comma, c.p., alle circostanze aggravanti contestate in relazione alla violazione più grave ex art. 81, cpv., c.p. (il delitto di estorsione).
b) I giudici di appello riducevano, con la sentenza impugnata, le pene ad anni due e mesi due di reclusione ed euro 400,00 di multa.
Ritenevano di dover concedere all'imputato le circostanze attenuanti generiche di cui all'art. 62-bis c.p., valorizzando il mutamento radicale della personalità e della condotta di vita, che imponeva di escluderne la pericolosità, nonché il tempo "ormai trascorso dai fatti".
Affermavano, poi, richiamandosi ad un precedente di questa Corte (Cass. I 7 novembre 2001, n. 43241, Alfieri, RV 220294), che la menzionata circostanza attenuante ad effetto speciale di cui all'art. 8 della legge 12 luglio 1991 n. 203 non era soggetta al giudizio di comparazione previsto dall'art. 69 c.p.; tenuto conto dell'intento primario perseguito dal legislatore, che era quello di offrire un incentivo concreto e non meramente eventuale alla dissociazione operosa dalla criminalità mafiosa, l'attenuazione delle sanzioni, ricorrendo le condizioni per la sua applicazione - precisava la Corte di merito - doveva ritenersi "obbligatoria".
La Corte effettuava, pertanto, il giudizio di bilanciamento, in termini di equivalenza, soltanto tra le aggravanti contestate e le riconosciute circostanze attenuanti generiche.
Determinava, in altre parole, la pena nel modo seguente:
- riconoscimento della continuazione tra i reati contestati;
- estorsione aggravata di cui al capo 1) dell'imputazione come violazione più grave ex art. 81 c.p.;
- riconoscimento della sussistenza della circostanza attenuante di cui all'art. 8 della legge 12 luglio 1991 n. 203 (che comporta una diminuzione delle pene temporanee da un terzo alla metà);
pena - base già diminuita per effetto dell'anzidetta circostanza attenuante computata sulla fattispecie non aggravata di cui all'art. 629, primo comma, c.p.: anni tre di reclusione ed euro 400,00 di multa;
- riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, equivalenti alle circostanze aggravanti inerenti alla violazione più grave;
aumento per la continuazione (reati di cui al capo 2: estorsione aggravata e concorrenza illecita con minaccia): mesi tre di reclusione ed euro 200,00 di multa;
pena risultante dal suddetto aumento: anni tre e mesi tre di reclusione ed euro 600,00 di multa;
- diminuzione per il rito abbreviato tale da determinare la pena di cui si è detto sopra (anni due e mesi due di reclusione ed euro 400,00 di multa).
2. Avverso l'anzidetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell'imputato chiedendone l'annullamento ed articolando due motivi.

2.1. Con il primo motivo deduce l'inosservanza e l'erronea applicazione del menzionato art. 8 della legge n. 203 del 1991 e dell'art. 62-bis c.p. Ricorda il ricorrente, rifacendosi ad altra pronuncia di questa Corte (Cass. II 29 novembre 2001, n. 13928/2002, Barra ed altri, RV 221933) che mostra, seppur implicitamente, di ritenere da assoggettare al giudizio di comparazione la circostanza in esame, che qualora, in presenza di circostanze aggravanti, si determini la pena sulla base della concessione dell'attenuante medesima, ciò significa che si è stabilita la prevalenza di
detta attenuante sulle aggravanti.
Da ciò deriverebbe che l'eventuale concessione anche delle attenuanti generiche deve essere effettuata con giudizio di prevalenza, calcolando la relativa riduzione.
In altre parole, il modus operandi di questa circostanza, una volta riconosciuta, dovrebbe condurre il giudice dapprima a determinare la pena per il reato cui accede con una riduzione compresa tra un terzo e la metà, se il reato stesso è punito con pena detentiva temporanea, e, successivamente, a ridurre la pena così ottenuta, considerando le altre eventuali attenuanti (in quel caso, come nel presente, quelle "generiche") come prevalenti sulle circostanze aggravanti.
La Corte, dunque, avrebbe erroneamente effettuato le operazioni di determinazione della pena non avendo effettuato quest'ultima riduzione.

2.2. Con il secondo motivo denuncia, in via subordinata, la carenza della motivazione della sentenza impugnata in punto di ritenuta equivalenza delle circostanze attenuanti generiche. La Corte di merito aveva del tutto omesso - secondo il ricorrente - di spiegare le ragioni della non ritenuta prevalenza in presenza dei positivi elementi di valutazione posti a base del riconoscimento delle attenuanti medesime.
3. La seconda sezione penale - cui il ricorso era stato assegnato - ha, con ordinanza in data 22 settembre 2009, rimesso alle Sezioni Unite "il tema relativo all'applicabilità o meno dell'ordinario giudizio di valenza fra circostanze ove venga in discorso la peculiare circostanza attenuante prevista in tema di criminalità mafiosa".
Rileva l'ordinanza che il tema ha formato oggetto di "pronunce discordanti" da parte di questa Corte.
Al riguardo, sussiste un primo orientamento che ritiene che la circostanza attenuante in questione non sia soggetta al giudizio di bilanciamento previsto dall'art. 69 c.p., trattandosi di una deroga che il legislatore ha inteso introdurre al fine di limitare l'ordinaria discrezionalità del giudice in relazione alla pena, tenuto conto della particolare rilevanza del tema del trattamento sanzionatorio di tipo premiale dei collaboratori di giustizia (Cass. I 2 aprile 2008, n. 18378, Pecoraro, RV 240373; Cass. VI 20 aprile 2005, n. 6221, Aglieri, RV 233088; Cass. I 7 novembre 2001, Alfieri, cit.).
Altre decisioni invece affermano l'opposto principio secondo cui la circostanza attenuante della "dissociazione attuosa" soggiace, in assenza di un'espressa deroga di legge, alla regola generale del giudizio di comparazione con altre circostanze (Cass. II 12 luglio 2006, n. 34193, Cotugno, RV 235419; Cass. II 29 novembre 2001, Barra, cit.; Cass. I 21 gennaio 1998, n. 7427, Alfieri, RV 210884).
Rilevato, dunque, il contrasto di giurisprudenza, la seconda sezione ha disposto la rimessione del ricorso alle Sezioni Unite penali ai sensi dell'art. 618 c.p.p., formulando il seguente quesito: «Se la circostanza attenuante ad effetto speciale di cui all'art. 8 d.l. 13 maggio 1991 n. 152, convertito con modificazioni dalla legge 12 luglio 1991 n. 203, sia o meno soggetta al giudizio di bilanciamento tra circostanze».
Il Primo Presidente Aggiunto ha quindi assegnato, con decreto in data 6 novembre 2009, il ricorso alle Sezioni Unite penali per la trattazione alla pubblica udienza del 25 febbraio 2010.


Motivi della decisione


4. L'art. 8 del d.l. 12 gennaio 1991, n. 5, non convertito in legge e reiterato dal d.l. 13 marzo 1991, n. 76 e dal d.l. 13 maggio 1991, n. 152, quest'ultimo convertito dalla legge 12 luglio 1991, n. 203 (il cui art. 1, comma 2, stabilì che rimanessero validi gli atti e i provvedimenti adottati e che fossero fatti salvi gli effetti prodotti e i rapporti giuridici sorti sulla base dei menzionati decreti non convertiti), ha esteso al settore antimafia la circostanza attenuante già in precedenza elaborata per i fenomeni terroristici (art. 4 del d.l. 15 dicembre 1979, n. 625, convertito dalla legge 6 febbraio 1980, n. 15, ripreso dall'art. 2 della legge 18 febbraio 1987 n. 34).
La norma è strutturata con previsione di pena autonoma (in particolare, la pena della reclusione da dodici a venti anni sostituisce quella dell'ergastolo e le altre pene sono ridotte da un terzo alla metà), in relazione al delitto di cui all'art. 416-bis c.p. ed ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni di tipo mafioso, nei confronti dì chi, dissociandosi dagli altri, si adoperi per evitare che l'attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, anche aiutando concretamente l'autorità di polizia o quella giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l'individuazione o la cattura degli autori dei reati.
Il comma 2 della disposizione stabilisce, poi, che, nei casi previsti dal comma 1, vale a dire nei casi di chi si dissoci nei modi anzidetti, "non si applicano le disposizioni dell'articolo 7" del d.l. medesimo, che contempla una circostanza aggravante per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416-bis c.p. ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso articolo.

5. Come si è accennato, le Sezioni Unite sono chiamate a rispondere al quesito «se la circostanza attenuante ad effetto speciale di cui all'art. 8 d.l. 13 maggio 1991 n. 152, convertito con modificazioni dalla legge 12 luglio 1991 n. 203, sia o meno soggetta al giudizio di bilanciamento tra circostanze».
Sulla questione si contrappongono - come rilevato nell'ordinanza dì rimessione - due orientamenti.

a) Un primo orientamento, minoritario, è favorevole all'assoggettamento della attenuante in esame al giudizio di comparazione di cui all'art. 69 c.p.
La decisione che in modo migliore rappresenta questo indirizzo interpretativo è la già menzionata Cass. II 12 luglio 2006, Cotugno, così massimata: "La circostanza attenuante speciale della dissociazione attuosa, prevista per il delitto di cui all'art. 416 bis c.p. e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni di tipo mafioso, soggiace, in assenza di un'espressa deroga di legge, alla regola generale del giudizio di comparazione con altre circostanze" (negli stessi termini, ma non massimata, Cass. V 8 ottobre 2009, n. 4104/2010, Doria).
La pronuncia è, dunque, imperniata sul rilievo della mancata previsione di un'espressa deroga all'art. 69 c.p.
Deroga la cui necessità troverebbe conferma nel corpo dello stesso d.l. n. 152 del 1991, avendo il comma 2 dell'art. 7 espressamente escluso la sottoposizione al giudizio di bilanciamento della circostanza aggravante contemplata nel primo comma dello stesso articolo, oltre che in norme analoghe (che hanno riprodotto quasi ad litteram il testo dell'art. 7, comma 2, sopra citato), come quelle contenute nell'art. 1, comma 3, del d.l. 15 dicembre 1979, n. 625, convertito dalla legge 6 febbraio 1980, n. 15 (aggravante della finalità di terrorismo o di eversione dell'ordine democratico), bell'art. 7, comma 4, del d.l. 31 dicembre 1991, n. 419, convertito dalla legge 18 febbraio 1992, n. 172 (per i delitti di cui all'art. 407, comma 2, lett. a), n. 1-6, c.p.p., aggravati ex artt. Ili e 112, primo comma, n. 3 e 4, c.p.), ^ell'art. 3, comma 2, del d.l. 26 aprile 1993, n. 122, convertito dalla legge 25 giugno 1993, n. 205 (aggravante della finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso e del fine di agevolare l'attività di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi che hanno tra i loro scopi le medesime finalità), bell'art. 291-ter, comma 3, del d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43 (aggravanti del delitto di contrabbando di tabacchi lavorati esteri), -Itell'art. 12, comma 3-guater, del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (aggravanti del delitto di favoreggiamento dell'immigrazione illegale).
Altra conferma si trarrebbe dall'affermato assoggettamento, nell'unico precedente conosciuto (Cass. II 2 dicembre 1985, n. 1553, Zìzi, RV 171935), al giudizio di comparazione della "attenuante speciale del tipo di quella in esame" prevista, per il sequestro di persona a scopo di estorsione, dall'art. 630, quarto comma, c.p.
Sulla stessa linea ermeneutica si era posta in precedenza Cass. I 21 gennaio 1998, Alfieri, cit.
A quell'epoca l'affermazione secondo cui l'attenuante speciale non si sottraeva al giudizio di bilanciamento con le aggravanti (in particolare quelle che rendevano l'omicidio punibile con l'ergastolo) si coniugava, nell'ambito di procedimenti per siffatti omicidi, con quella secondo cui, per l'effetto della pronuncia di illegittimità costituzionale dell'art. 442, comma 2, ultimo periodo, c.p.p. (Corte cost. 23 aprile 1991, n. 176), il giudizio abbreviato non era ammesso quando l'imputazione enunciata nella richiesta di rinvio a giudizio concernesse un reato punibile con l'ergastolo; in quel caso il giudice per le indagini preliminari non era competente a definire il giudizio con le forme stabilite dagli artt. 441 e 442 c.p.p., anche se riteneva che in concreto dovesse essere applicata una pena diversa dall'ergastolo (così Cass. S.U. 6 marzo 1992, n. 2977, P.G. in proc. Piccillo, RV 189398).
L'affermazione era dunque - come non aveva mancato di osservare Cass. V 20 aprile 2007, n. 29355, Di Telia (non massimata) - esclusivamente rivolta a produrre "effetti deteriori" a fini sanzionatori mediante il diniego di accesso al giudizio abbreviato.
E' ascrivibile, poi, al filone interpretativo in esame la decisione menzionata dal ricorrente (Cass. II 29 novembre 2001, Barra, cit.; nello stesso senso Cass. V 22 aprile 2009, n. 21593, Abbruzzese, RV 243899, non massimata sul punto), alla stregua della quale, qualora in presenza di circostanze aggravanti sì determini la pena sulla base dell'attenuante in esame, ciò starebbe a significare che si è voluto riconoscere la prevalenza di detta attenuante sulle aggravanti, con l'ulteriore conseguenza che l'eventuale concessione anche delle attenuanti generiche andrebbe effettuata con giudizio di prevalenza, calcolando pertanto la relativa riduzione.
L'indirizzo interpretativo esaminato dà risalto, dunque, all'obbligatorietà del giudizio di comparazione in assenza di una esplicita deroga legislativa.
Esclude, di riflesso, la possibilità di una deroga implicita, desumibile cioè da una disciplina che, pur non prevedendo espressamente l'eccezione, sia oggettivamente incompatibile con il principio anzidetto.

b) Il prevalente contrapposto orientamento valorizza, invece, la ratio della circostanza attenuante che - anche per il "ponte d'oro" fatto agli autori di delitti punibili con l'ergastolo, riducibile fino a dodici anni di reclusione, con tutte le ulteriori favorevoli conseguenze in tema di prescrizione, indulto e benefici di altro ordine - sottintende un interesse preferenziale del legislatore allo scompaginamento dei sodalizi mafiosi rispetto alla severità della risposta sanzionatoria verso i colpevoli anche di gravi reati che abbiano decisivamente contribuito a quella dissoluzione. Questo diverso indirizzo ermeneutico non trascura, peraltro, per giungere ad affermare che la circostanza attenuante in discussione non è soggetta al giudizio di bilanciamento previsto dall'art. 69 c.p., il tenore letterale della disposizione.
Tra le pronunce riconducibili a detto orientamento merita, anzi tutto, di essere segnalata quella ricordata nella sentenza impugnata (Cass. I 7 novembre 2001, Alfieri, cit.).
In essa sì legge che la circostanza attenuante prevista dall'art. 8 non è soggetta al giudizio di comparazione, "stante l'obbligatorietà dell'attenuazione delle sanzioni allorché ricorrano le condizioni per la sua applicazione e tenuto conto dell'intento primario perseguito dal legislatore, che è quello di offrire un incentivo concreto e non meramente eventuale alla dissociazione operosa dalla criminalità organizzata". La decisione dà risalto, inoltre, alle "irrazionali conseguenze" della tesi opposta, che comporterebbe la necessaria attenuazione di pena per i delitti puniti di per sé con l'ergastolo, mentre per i (meno gravi) delitti sanzionati con la pena perpetua soltanto se aggravati l'attenuazione ex art. 8 potrebbe essere vanificata dal giudizio di comparazione. Detta pronuncia si pone dichiaratamente sulla scia di Cass. I 11 luglio 2001, n. 36954, Benfante (non massimata), che aveva affermato che "la disposizione di cui all'art. 8 é "speciale" rispetto a quella dell'art. 69, secondo comma, c.p., posto che é lo stesso legislatore ad avere stabilito, in via generale ed inderogabile, la prevalenza dell'attenuante e ad avere fissato autonomamente la misura delle pene applicabili, escludendo che possa "venire in gioco" la comune disciplina codicistica, presupponente il riconoscimento di un potere discrezionale del giudice, nella specie eliminato in radice, ai fini del giudizio di bilanciamento tra aggravanti ed attenuanti".
Quest'ultima decisione, tra l'altro, utilizza la previsione della non bilanciabilità dell'aggravante prevista dal primo comma dell'art. 7 come argomento sistematico a favore dell' impossibilità di sottoporre anche l'attenuante dell'art. 8 al giudizio di comparazione (si è visto sopra che lo stesso spunto è utilizzato, per fini diametralmente opposti, dal diverso indirizzo interpretativo).
Al tenore letterale dell'art. 8 presta particolare attenzione Cass. VI 20 aprile 2005, Aglieri, cit., che afferma che il riconoscimento della circostanza attenuante della dissociazione attuosa implica il ricorso, in deroga alla disciplina del bilanciamento delle circostanze di cui all'art. 69 c.p., a speciali criteri di diminuzione della pena, in forza dei quali si applica la reclusione da dodici a venti anni in luogo dell'ergastolo, non rilevando se esso sia previsto per la forma aggravata o per la fattispecie criminosa di base.
A tale interpretazione conduce - secondo la Corte - la lettera della norma che parla appunto di "pena dell'ergastolo", non di "delitti puniti con l'ergastolo", evocando così "fattispecie concrete, comprese quelle circostanziate".
Il non assoggettamento al giudizio di comparazione è stato, poi, ribadito da Cass. I 2 aprile 2008, Pecoraro, cit., che attribuisce ruolo preponderante alla volontà del legislatore di derogare all'art. 69 c.p. al fine dì limitare "l'ordinaria discrezionalità del giudice in relazione alla pena", in considerazione della particolare rilevanza del tema del trattamento sanzionatorio di tipo premiale dei dissociati e dei collaboratori di giustizia.

L'orientamento in esame ha trovato conforto anche in altre pronunce (Cass. V 20 aprile 2007, Di Telia, cit.; Cass. 1 22 febbraio 2007, n. 13978, Pesce, non massimata; Cass. V 2 luglio 2004, n. 36085, Vitellaro, non massimata; Cass. V 23 aprile 2002, n. 24712, Apicella, RV 222300) che non offrono, peraltro, spunti argomentativi diversi da quelli fin qui esposti. Da ultimo va segnalata Cass. V 8 ottobre 2009, n. 4977/2010, Finocchiaro, RV 245582, che ha sottolineato come il legislatore abbia, in deroga all'art. 69 c.p., fatto ricorso a "speciali criteri di diminuzione della pena".
Va detto, per concludere sul punto, che la medesima linea interpretativa era stata seguita, con l'esclusione di una prima pronuncia rimasta isolata (Cass. I 25 gennaio 1985, n. 4200, Fasoli, RV 168998), anche in relazione ai reati di terrorismo.
Le diminuzioni di pena in conseguenza di intervenuta dissociazione - si era affermato - in virtù dell'art. 4 del d.l. 15 dicembre 1979 n. 625, convertito dalla legge 6 febbraio 1980 n. 15, oltre che degli artt. 2 e 3 della legge 29 maggio 1982 n. 304 e dell'art. 2 della legge 18 febbraio 1987 n. 34 non sono facoltative ma obbligatorie, non rientrano nella comparazione fra circostanze di segno opposto ex art. 69 c.p. e conseguono ex lege al verificarsi di tutte le condizioni prescritte delle correlate disposizioni (così Cass. I 18 dicembre 1987, n. 10233, Berardi, RV 179465; nello stesso senso Cass. I 27 ottobre 1998, n. 4906, Atzeni, RV 180970).

c) Dalla giurisprudenza costituzionale, che ha avuto modo di occuparsi della disposizione in una sola occasione (cfr. ordinanza 19 giugno 1995 n. 263), non derivano vincoli interpretativi di alcun tipo.
Si aggiunga che l'affermazione, desumibile da diverse pronunce (si veda, per tutte, Corte cost. 14 giugno 2007 n. 192), secondo cui il giudizio di bilanciamento può essere formulato anche rispetto a circostanze speciali non implica che la circostanza attenuante ad effetto speciale qui in discussione debba necessariamente essere assoggettata a giudizio di comparazione con le aggravanti contestate.
Allo stato, dunque, qualsiasi soluzione del quesito appare compatibile con le considerazioni svolte dalla giurisprudenza costituzionale.

d) Va detto, infine, che la dottrina non ha dedicato particolare attenzione alla questione in esame.

6. Ciò premesso, ritiene questa Corte di dover condividere l'orientamento interpretativo da ultimo indicato.
La circostanza attenuante in esame è legata - come si è visto - non già al semplice contributo che intervenga in un quadro probatorio dì per sé maturo, ma, oltre che alla dissociazione dal sodalizio criminoso, a una condotta attiva intesa ad evitare che l'attività delittuosa venga portata a conseguenze ulteriori ed alla prestazione di un concreto e significativo apporto alle indagini, determinante per la ricostruzione dei fatti e la cattura dei correi (cfr., ex plurimis, Cass. V 25 giugno 2008, n. 33373, Russo, RV 240994; Cass. I 29 gennaio 2008, n. 7160, Russo, RV 239306; Cass. I 13 dicembre 2006, n. 9276/2007, Cirillo, RV 236230).
Essa trova, dunque, la propria ragione nella volontà del legislatore di assicurare un premio particolarmente significativo per la dissociazione ed. attuosa o collaborativa.
Se ne ha conferma nella disposizione del secondo comma dell'art. 8 là dove stabilisce che al dissociato di mafia non si applichino le disposizioni dell'art. 7; non si applichi, cioè, la speciale circostanza aggravante del ed. metodo mafioso o del fine dì agevolare l'attività delle associazioni mafiose.
La prevista impossibilità (secondo comma del citato art. 7) di tutte le circostanze attenuanti, diverse da quelle previste dagli artt. 98 e 114 c.p., di essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a detta aggravante avrebbe, invero, sistematicamente svuotato la portata dell'attenuante in esame.
E detta esigenza di non vanificare la funzione che l'attenuante è destinata a svolgere è presidiata proprio dalla non soggezione al giudizio di bilanciamento.
D'altra parte, se il legislatore ha escluso espressamente il giudizio di bilanciamento con la circostanza aggravante ad effetto speciale di cui al menzionato art. 7, sarebbe irrazionale o, in ogni caso, "asimmetrico", ammettere detto giudizio per le altre aggravanti.
Il fatto che il legislatore abbia escluso il concorso con l'aggravante di cui all'art. 7 significa - in altre parole e secondo un criterio ermeneutico di ragionevolezza - che non si potrebbe giammai ritenere un'altra aggravante (comune o speciale) prevalente o equivalente rispetto a detta attenuante.
Detti rilievi bene si armonizzano con la lettera dell'art. 8, primo comma, nella parte in cui parla di "pena dell'ergastolo", non di "delitti puniti con l'ergastolo".
Evoca, invero, in tal modo anche le fattispecie punite con l'ergastolo soltanto se circostanziate, per far intendere come anche ad esse debba essere obbligatoriamente applicata l'attenuazione in questione, tralasciando il bilanciamento con le aggravanti che le connotano. Deve, poi, notarsi che gli effetti - sicuramente divergenti dall'intento del legislatore di assicurare un premio particolarmente significativo per la dissociazione collaborativa - che si potrebbero produrre in caso di adesione alla diversa opzione interpretativa potrebbero anche indurre a fondati dubbi di legittimità costituzionale.
Sotto tale profilo si sono - come si è visto - giustamente sottolineate le irrazionali conseguenze della tesi della soggezione al giudizio di comparazione, che comporterebbe la necessaria attenuazione di pena per i più gravi reati di per sé puniti con l'ergastolo, se non altrimenti circostanziati, mentre, per delitti sanzionati con la pena perpetua solo se aggravati, l'attenuante ex art. 8 citato potrebbe essere vanificata da tale giudìzio.
Sulla base di dette considerazioni deve, dunque, rispondersi al quesito prospettato nel senso che l'attenuante ad effetto speciale di cui all'art. 8 del d.l. n. 152 del 1991, come convertito dalla legge n. 203 del 1991, non è soggetta al giudizio di bilanciamento tra circostanze.

7. E' ora possibile passare all'esame dei motivi del ricorso.

7.1. Con il primo motivo la difesa dell'imputato prospetta, richiamandosi espressamente a quanto affermato da Cass. II 29 novembre 2001, Barra, cit. (v. supra 2.1), una sorta di prevalenza obbligatoria della circostanza attenuante in discussione che avrebbe come riflesso la dovuta applicazione delle diminuzioni di pena relative a tutte le altre circostanze attenuanti che si riconoscessero sussìstenti.
Il motivo, che a causa di detto erroneo presupposto è destituito di fondamento, schiude, tuttavia, il problema di valutare, non stabilendolo la norma, quale sia la sequenza delle operazioni da compiere, in presenza -come nel caso in esame - di altre circostanze attenuanti (le circostanze attenuanti generiche) che concorrano con circostanze aggravanti e siano quindi soggette al giudizio previsto dall'art. 69 c.p.
Due le sequenze prospettabili: la prima contempla che venga autonomamente determinata la pena applicando l'attenuante speciale, per modo che soltanto successivamente sia compiuto il giudìzio di comparazione tra le resìdue circostanze eterogenee; la seconda prevede, invece, che venga determinata la pena effettuando subito tale giudizio affinché, sul risultato che ne consegue, sia poi applicata l'attenuante speciale.
Anche se il testo della sentenza impugnata non indica esplicitamente l'ordine delle operazioni aritmetiche eseguite, non può dubitarsi che la Corte di merito abbia scelto questa seconda sequenza; abbia, in altre parole, fatto precedere il giudizio di comparazione delle circostanze diverse dall'attenuante speciale all'applicazione di quest'ultima: destinata, dunque, ad applicarsi una volta stabilita la pena in concreto per il reato circostanziato.
La scelta effettuata dalla Corte territoriale deve essere condivisa. Soltanto l'adozione del criterio anzidetto consente, invero, di coniugare premialità, personalizzazione del trattamento sanzionatorio e proporzionalità del medesimo rispetto alla misura di lesività effettiva del fatto costitutivo del reato; consente, in altri termini, di impedire che dissociazione e contributo investigativo elidano la concreta offensìvità del fatto.
Due sono, d'altra parte, le esigenze egualmente e simultaneamente tenute presenti dalla legislazione "premiale" e tra loro non confliggenti : da un lato, l'esigenza di contrastare e scompaginare le associazioni criminali che assegna alle tecniche premiali, segnatamente (ma non solo) alle consistenti diminuzioni di pena, una funzione di incentivazione della collaborazione quale strumento delle indagini; dall'altro, la non obliterazione del fatto di reato nella sua oggettiva gravità, la cui valutazione non può che essere, di volta in volta, rimessa, anche attraverso il giudizio di comparazione delle circostanze, al giudice. Come esigenze di giustizia sostanziale non possono consentire lassismo nel perseguimento e nella punizione di gravi fatti, che tali rimangono anche nei confronti dei "dissociati", nonostante abbiano contribuito in modo determinante a disarticolare importanti organizzazioni criminose, così l'esigenza della lotta alla criminalità organizzata, specie di origine mafiosa, che rappresenta un obiettivo primario dello Stato, deve tradursi nel riconoscimento, in concreto, di un trattamento privilegiato a chi abbia fornito un contributo determinante in quella lotta.
E, in vista appunto della necessità di coniugare queste esigenze, la notevole riduzione di pena stabilita per la dissociazione e, con la sua concessione, l'elisione automatica della circostanza aggravante di cui al più volte citato art. 7 del d.l. n. 152 del 1991 non possono far sì che il sistema penale perda di vista la specifica vicenda criminosa (la quale può avere connotati anche particolarmente gravi) , senza il rischio che esso finisca per smentire se stesso, con ricadute sulla proporzionalità della pena alla gravità del reato, sull'effettività della sanzione e sull'osservanza della legge da parte della generalità dei consociati.

7.2. Destituito di fondamento è anche il secondo motivo del ricorso. Le statuizioni relative al giudizio di comparazione tra opposte circostanze, implicando una valutazione discrezionale tipica del giudizio di cognizione, sfuggono al sindacato di legittimità qualora non siano frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico (v., per tutte, Cass. Ili 22 aprile 2004, n. 26908, Ronzoni, RV 229298) e siano sorrette da sufficiente motivazione (cfr. Cass. I 28 gennaio 2003, n. 5697, Di Giulio, RV 223442), tale dovendo considerarsi l'aver ritenuto la soluzione della equivalenza come la più idonea a realizzare l'adeguatezza della pena irrogata in concreto (cfr. Cass. IV 23 maggio 2007, n. 25532, Montanino, RV 236992).
In tal senso, a giustificare la soluzione della equivalenza deve ritenersi sufficiente, come nel caso in esame, l'implicito riferimento ad una valutazione complessiva dell'episodio criminoso e della personalità dell'imputato, che si traduce in sostanza in un giudizio di non meritevolezza di un trattamento sanzionatorio ancor più mite (la Corte territoriale, una volta riconosciute le circostanze attenuanti generiche e la loro equivalenza, ha determinato la pena detentiva nel minimo edittale previsto per l'ipotesi non aggravata di estorsione, operando, poi, la diminuzione, quasi nel massimo, per l'attenuante della dissociazione), tanto più che i motivi di appello non avevano dedicato argomentazioni specifiche alla richiesta di prevalenza, concentrando le doglianze sul fatto che il primo giudice non avesse compreso, negando il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, che esse avevano funzione del tutto diversa da quella riservata all'attenuante della dissociazione.

8. Va, infine, rilevato che il reato di concorrenza illecita con minaccia (art. 513-bis c.p.), contestato al capo 2 dell'imputazione unitamente ad altro episodio di estorsione aggravata, è estinto per prescrizione. In materia è intervenuta, come noto, la legge 5 dicembre 2005, n. 251 la quale, all'art. 10, comma 3, nel testo risultante dalla successiva dichiarazione di illegittimità costituzionale (Corte cost. 23 novembre 2006, n. 393), dispone, a proposito dei procedimenti in corso, che, "se, per effetto delle nuove disposizioni, i termini di prescrizione risultano più brevi, le stesse si applicano ai procedimenti e ai processi pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge, ad esclusione dei processi già pendenti in grado di appello o avanti alla Corte di cassazione".
Di conseguenza, essendo la citata legge entrata in vigore in data 8 dicembre 2005 e risultando pronunciata la sentenza di primo grado il 18 giugno 2006, occorre porre a raffronto i termini di prescrizione secondo il calcolo del testo previgente degli artt. 157 e 161 c.p. con quelli attuali per verificare quali siano le disposizioni più favorevoli.
Secondo il regime vigente (art. 157, comma primo, c.p.) il tempo necessario a prescrivere è quello corrispondente al massimo della pena edittale stabilita dalla legge per il delitto (nella specie, sei anni).

Questo periodo, in caso di atti interruttivi, non può essere aumentato di più di un quarto (sempre che non ricorrano - e nella specie non ricorrono -le altre condizioni previste dall'art. 161, comma secondo, c.p.), sicché il reato si prescrìve con il decorso di un tempo pari a sette anni e sei mesi. Sulla base della nuova disciplina, dunque, il reato di cui all'art. 513-bis c.p., che risulta consumato il 1° aprile 1999, è ormai da tempo prescritto. Va, pertanto, eliminato il relativo aumento di pena.
Avendo la Corte di merito, per detto delitto e per la sopra ricordata estorsione, applicato un aumento complessivo per la continuazione di mesi due di reclusione ed euro 134,00 di multa (tenuto conto della diminuzione prevista per il giudizio abbreviato), deve ritenersi, in assenza di concreti elementi di suddistinzione, che siano stati irrogati aumenti della stessa entità.
Ne consegue l'eliminazione della pena di mesi uno di reclusione ed euro 67,00 di multa.

9. In conclusione, la decisione impugnata va annullata senza rinvio limitatamente al reato di cui all'art. 513-bis c.p. perché estinto per prescrizione.
La relativa pena di mesi uno di reclusione ed euro 67,00 di multa deve essere eliminata.
Nel resto il ricorso va rigettato.


Per questi motivi

annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al reato di cui all'art. 513-bis c.p. perché estinto per prescrizione ed elimina la relativa pena di mesi uno di reclusione ed euro 67,00 di multa. Rigetta nel resto il ricorso.


Così deciso in Roma il 25 febbraio 2010