La richiesta di misura alternativa, proposta ai sensi dell’art. 656, comma 6, c.p.p. deve essere corredata, a pena di inammissibilità, dalla dichiarazione o dalla elezione di domicilio del condannato prevista dall’art. 677, comma 2 bis, c.p.p.; tale obbligo non può essere assolto con modalità diverse da quelle previste. 


SVOLGIMENTO DEL PROCESSO


Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Reggio di Calabria ha in data 3 marzo 2009 emesso nei confronti di ***** -residente in San Luca, via Campania, e domiciliato in Bovalino, ***** - un provvedimento di esecuzione di pene concorrenti (contemplante la pena residua di anni due di reclusione ed euro 30.151, 98 di multa, nonché la misura di sicurezza della libertà vigilata per anni tre), ordinandone contestualmente la sospensione ai sensi dell'art. 656, comma 5, c.p.p.. In tale provvedimento veniva dato avviso al condannato della facoltà di presentare richiesta di misura alternativa alla detenzione o di altro provvedimento attribuito dalla legge alla Magistratura di Sorveglianza nonché l'obbligo di presentare, unitamente ad essa, la dichiarazione o l'elezione di domicilio; si dava inoltre atto che il condannato risultava assistito dal difensore di fiducia avv. Francesco Lojacono. Con istanza rivolta al predetto P.M., depositata il 28 marzo 2009, l'avv. Francesco Lojacono, in qualità di difensore di fiducia del *****, ha chiesto l'ammissione del suo assistito alla misura alternativa dell'affidamento in prova al servizio sociale e, in subordine, a quella della semilibertà o alla detenzione domiciliare, rappresentando che "costui risiedeva, per ragioni di lavoro, in Formello, viale delle Rughe 42". Il Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Reggio di Calabria, al quale l'istanza era stata trasmessa ai sensi del comma 6 dell'art. 656 c.p.p., precisato che il ***** risultava residente in Formello, viale delle Rughe n. 42, ha, con decreto 26 maggio 2009, dichiarato de plano inammissibile l'istanza stessa sul duplice rilievo che il condannato non aveva dichiarato o eletto domicilio, come previsto dall'art. 677, comma 2bis, c.p.p. e che difettava il mandato difensivo. Il decreto veniva notificato al ***** in data 8 giugno 2009 in Bovalino, via San Nicola n. 10, luogo indicato nella relata come residenza di quest'ultimo.
Per l'annullamento di tale decreto ha proposto ricorso per cassazione (depositato il 26 giugno 2009) il difensore di Domenico *****, avv. Francesco Lojacono. Nel ricorso è stata prospettata la violazione degli artt. 656, commi 5 e 6, e 677, comma 2bis, c.p.p per essere stata dichiarata la inammissibilità de plano dell'istanza di misure alternative alla detenzione sulla base dell'errato presupposto dell'assenza del mandato a favore del difensore e del difetto di dichiarazione o di elezione di domicilio da parte dell'interessato. Sotto il primo profilo il ricorrente difensore ha prospettato l'errore materiale in cui sarebbe incorso il Tribunale di Sorveglianza, in quanto l'avv. Lojacono aveva assistito il ***** sia nel fase del giudizio sia nella fase dell'esecuzione, sicché, in base a quanto previsto dall'art. 656, comma 5, c.p.p. (l'istanza può essere presentata "dal difensore nominato per la fase dell'esecuzione" o dal "difensore che ... ha assistito [il condannato] nella fase del giudizio") non si sarebbe potuto esigere un ulteriore atto di nomina. Sotto il secondo profilo, afferente la mancata dichiarazione o elezione di domicilio da parte dell'interessato, il ricorrente ha rammentato che in ogni caso la residenza risultava evidenziata anche nell'istanza presentata dal difensore ex art. 656 c.p.p. e che tale indicazione era di per sé idonea a soddisfare l'esigenza imposta dall'art. 677, comma 2bis, c.p.p. (in proposito citando, Cass. Sez. I, 12 marzo 2004, n. 15330, Poggi, non massimata). Il difensore, infine, ha rappresentato che, in conseguenza del provvedimento impugnato, Domenico ***** era stato tratto in arresto per l'espiazione della pena.
Il P.G., nella requisitoria del 23 luglio 2009, ha chiesto l'annullamento senza rinvio del decreto impugnato, ritenendo palesemente errati i presupposti su cui era fondata la pronuncia.
La Sezione Feriale di questa Corte, assegnataria del ricorso, all'udienza camerale del 27 agosto 2009 ha rimesso la questione alle Sezioni Unite, rilevando l'esistenza di un contrasto sull'interpretazione dell'art. 677, comma 2bis, c.p.p. in ordine alla possibilità che la dichiarazione o la elezione di domicilio possa essere fatta dal difensore, anziché dall'interessato.
Il Collegio, premesso che nella specie il difensore aveva ricevuto regolare mandato difensivo, esso risultando chiaramente dal decreto del Procuratore della Repubblica di Reggio di Calabria del 3 marzo 2009, ha rilevato, in merito alla questione della titolarità del potere di effettuare la elezione o la dichiarazione di domicilio, che correttamente era stato richiamato dalla difesa il precedente reso da Sez. I, n. 15330 del 2004, che aveva affermato la ammissibilità, pur in difetto di dichiarazione o elezione di domicilio da parte del condannato, della istanza del difensore recante "l'indicazione del domicilio", ritenendola "equipollente" alla dichiarazione di domicilio fatta dall'interessato; ma ha, di converso, rammentato la esistenza di un contrario principio di diritto (cfr. ex multìs: Sez. I, 10 febbraio 2004, n. 9678, Ronga, RV. 227233; Sez. I, 23 gennaio 2004, n. 11042, Zuccaia, non massimata; Sez. I, 18 febbraio 2004, n. 15308, Nappi, non massimata; Sez. I, 16 marzo 2004, n. 15425, Larocca, RV. 227758; Sez. I, 20 marzo 2004, n. 20968, Genovese, RV. 228367; Sez. 1,16 febbraio 2004, n. 25666, Guarino, non massimata; Sez. I, 9 ottobre, n. 42290, Curci, non massimata), secondo il quale siffatta formalità non può essere surrogata dalla mera indicazione di un domicilio nell'istanza sottoscritta e presentata dal difensore, stante la sua natura strettamente personale. E dell'uno e dell'altro indirizzo ha accuratamente scrutinato le ragioni a sostegno. Con decreto del 2 ottobre 2009, il Presidente Aggiunto ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, fissandone la trattazione all'odierna udienza camerale. Il Procuratore Generale, nella requisitoria del 9 novembre 2009, ha sostenuto che, in base al principio generale di cui all'art. 99 c.p.p. ed all'assenza nella specie di una riserva espressa a favore del solo condannato, sarebbe contraddittorio, in un sistema che consente la proposizione dell'istanza anche al difensore, imporre il contestuale intervento del condannato per l'effettuazione della dichiarazione di domicilio.

 

 

MOTIVI DELLA DECISIONE


1- L'oggetto del contrasto segnalato dall'ordinanza di rimessione - e delineato dal confronto tra le sopra citate pronunce - può essere sintetizzato nel seguente quesito: " Se, ai fini dell'ammissibilità della richiesta di misura alternativa alla detenzione o di altro provvedimento attribuito alla competenza della magistratura di sorveglianza, la dichiarazione od elezione di domicilio possano essere validamente effettuate, oltre che personalmente dallo stesso condannato anche dal difensore".
Va al riguardo rilevato che la giurisprudenza di questa Corte è pressoché unanime nel ritenere la dichiarazione od elezione di domicilio di cui all'art. 677, comma 2bis, c.p.p, come un atto personalissimo che può essere fatto soltanto dal condannato (Sez. I, 19 febbraio 2004, n. 9678, Ronga, RV. 227233; Sez. I, 23 gennaio 2004, n. 11042, Zuccaia, non massimata) e, quindi non delegabile al difensore (Sez. I, 20 marzo 2004, n. 20968, Genovese, RV. 228367; Sez. I, 10 marzo 2004, n. 23907, Cisterna, RV. 229521; Sez. I, 16 marzo 2004, n. 23900, Feltre, non massimata; Sez. I, 18 febbraio 2004, n. 155308, Nappi, non massimata; Sez. I, 3 febbraio 2004, n. 25666, Guarino, non massimata; Sez. I, 19 ottobre 2004, n. 42290, Curci, non massimata; Sez. I, 26 aprile 2006, n. 18492, Gliori, non massimata); che tale onere sussiste non soltanto nel caso di istanza presentata personalmente dal condannato (Sez. I, 16 marzo 2004, n. 15425, Larocca, RV. 227758; Sez. I, 16 gennaio 2004, n. 3940, Vinaccio, non massimata; Sez. I, 25 febbraio 2004, n. 14934, Sollo, non massimata; Sez. I, 18 febbraio 2004, n. 15308, Schiano, non massimata; Sez. I , 16 marzo 2004, n. 14934, non massima; Sez. I, 16 marzo 2004, n. 22707, Viterbo, non massimata; Sez. I, 26 aprile 2006, n. 18492, Gliori, non massimata), ma anche quando l'istanza sia presentata dal difensore (Sez. I, 16 marzo 2004, n. 23900, Feltre, non massimata), poiché la dichiarazione o l'elezione di domicilio da parte dell'interessato può ben essere contenuta o allegata all'istanza del difensore. In contrasto con tali approdi giurisprudenziali si pone la sentenza Sez. I. 12 marzo 2004, n. 15330, Poggi, non massimata, che ha ritenuto equipollente alla dichiarazione od elezione di domicilio, senza tuttavia indicarne la ragione, la "indicazione" del domicilio fatta dal difensore nella istanza. Si é espressa criticamente anche parte della dottrina; questa, infatti, ha rilevato: che la disposizione in esame si porrebbe in contrasto con il principio del giusto processo in quanto la magistratura già sarebbe a conoscenza del domicilio o della residenza del condannato, avendo provveduto a notificare all'interessato ed al difensore l'ordine di esecuzione; che, invece di stabilire un criterio di rigido automatismo, sarebbe stato più opportuno prevedere la inammissibilità dell'istanza solo nel caso di mancata presentazione del condannato all'udienza, come previsto dall'art. 92, comma 1, d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309, T.U. sugli stupefacenti; che la sanzione apprestata dal legislatore sarebbe di "rigore inusitato" in considerazione che lo scopo di assicurare la costante interconnessione tra interessato e Magistratura di Sorveglianza non è assicurata dalla elezione di domicilio, che può non coincidere con la sede dove il condannato svolge effettivamente la sua attività e, quindi, con il luogo in cui il Servizio Sociale deve assumere informazioni sui rapporti sociali e lavorativi dell'interessato; che, infine, tale onere varrebbe soltanto nel caso di istanza proposta personalmente dal condannato e non nel caso di proposizione da parte del difensore in considerazione del tenore letterale della disposizione di legge che non può essere interpretata in malam partem. La risoluzione della questione comporta necessariamente una analisi del procedimento di sorveglianza e della normativa che lo regola non limitata alla norma più direttamente investita dal contrasto interpretativo segnalato nell'ordinanza di rimessione.
2- Il procedimento di sorveglianza è regolato, atteso l'espresso richiamo contenuto nell'art. 678 c.p.p., dalle disposizioni degli artt. 666 e 667 c.p.p. previste per il procedimento di esecuzione, salvo alcune previsioni particolari (artt. 677, comma 2bis, e 678, commi 2e 3, c.p.p.), derivanti dall'oggetto della materia e dalla competenza distrettuale del Tribunale. Anche nell'ambito del procedimento di sorveglianza trova dunque applicazione la disposizione dell'art. 666, comma 2, c.p.p. secondo la quale il giudice competente dichiara inammissibile la richiesta che "appare manifestamente infondata per difetto delle condizioni dì legge ovvero costituisce mera riproposizione di una richiesta già rigettata, basata sui medesimi elementi"; situazione che si verifica, quanto al primo profilo (che è il solo che qui rileva), quando difettano quei presupposti o requisiti che discendono direttamente dalla legge e la cui mancanza -in negativo o in positivo- è di immediata percezione e non implica alcuna valutazione discrezionale da parte del giudice, così da rendere superfluo il contraddittorio sul punto (Sez. I, 26 febbraio 1991, n. 996, Monferdin, RV. 187316; Sez. I, 1 luglio 1993, n. 3133, Nenadovka, RV. 194830; Sez. 1,27 maggio 2003, n. 27737, Cimetti, RV. 224941). Tra le "condizioni di legge" deve certamente comprendersi l'obbligo, posto a carico del condannato non detenuto dall'art. 677, comma 2bis, c.p.p. e sancito a pena di inammissibilità "di fare la dichiarazione o l'elezione di domicilio con la domanda con la quale chiede una misura alternativa alla detenzione o altro provvedimento attribuito dalla legge alla magistratura di sorveglianza". E ciò anche nelle ipotesi di cui all'art. 656, comma 5, c.p.p., come risulta dalla lettera del suddetto comma che richiede, senza distinguere tra domanda presentata direttamente dal condannato ovvero dal suo difensore, che l'istanza volta ad ottenere la concessione di una misura alternativa sia "corredata dalle indicazioni e dalla documentazione necessarie", dovendosi ricomprendere tra le "indicazioni" che la domanda deve contenere, in mancanza di espressa deroga, quella di cui al citato art. 677, comma 2bis, c.p.p., richiesta in generale per tutte le istanze concernenti il procedimento di sorveglianza; deve altresì tenersi presente che siffatta indicazione non é suscettibile di integrazione successiva, prevedendosi al comma 6 dell'art. 656 c.p.p. soltanto la possibilità di integrare la "documentazione" mancante, ma non anche le "indicazioni" (Sez. I, 9 giugno 2004, n. 36137, Caramba, RV. 229849). Quanto alla ratio della disposizione prevista dall'art. 677, comma 2bis, c.p.p., essa é stata individuata nelle varie pronunzie sul punto di questa Corte:
- "nella necessità di assicurare 'ab origine' il rapporto tra condannato e organi giurisdizionali del procedimento di sorveglianza, che per la sua peculiare natura e funzione propone specifiche esigenze di interconnessione ai fini di una costante verifica dell'andamento e dell'esito delle misure alternative (Sez. I, 16 marzo 2004, n. 23907, Cisterna, RV. 229251; Sez. 1,10 gennaio 2006, n. 8834, Amoruso, non massimata);
- nella esigenza, oltre che per ragioni di speditezza processuale, di rendere "certa la reperibilità" del richiedente non solo per l'istruttoria, ma sopratutto ai fini del trattamento condannato;
- nel soddisfacimento "della esigenza di pronta reperibilità [del condannato] indispensabile ai fini degli accertamenti che debbono essere svolti sulla sua condotta" (Sez. I, 16 marzo 2004, n. 22706, Schiano, non massimata; Sez. III, 5 febbraio 2004, n. 4353, Nassarello, non massimata; Sez. I, 15 ottobre 2004, n. 44670, Monticelli, non massimata);
- "nella esigenza di evitare lungaggini e ricerche nella fase di fissazione dell'udienza camerale "(Sez. 1, 25 settembre 2007, n. 37377, Avdiaj, non massimata), ovvero'V/ rendere più spedito il procedimento davanti alla magistratura di sorveglianza "(Sez. I, 11 maggio 2005, n. 34345, Elkhinni, RV. 232411) -in quanto procedimento caratterizzato dall'urgenza (Sez. I, 21 aprile 2004, n. 21359, Sanzo, non massimata)- e comunque di "agevolare la trattazione della domanda" (Sez. I, 25 febbraio 2004, n. 14934, Sollo, non massimata);
nella "esigenza di evitare un improprio allungamento del processo di esecuzione e di assicurare la immediata reperibilità - durante siffatta fase - del condannato che trovasi in stato di libertà in attesa della esecuzione della pena" (Sez. I, 2 agosto 2004, n. 33722, Clavo, non massimata);
- nella esigenza non solo di facilitare la notificazione degli atti processuali ma anche di facilitare "la fase di esecuzione della misura, tenuto conto non soltanto dell'attività di controllo demandata al servìzio sociale, ma anche dell'assistenza finalizzata al reinserimento del soggetto nella vita sociale che presuppongono la costante reperibilità del condannato" (Sez. I, 28 gennaio 2004, n. 8739, Improta, non massimata).
Ad avviso di queste Sezioni Unite, condividendosi in parte le ragioni testé esposte, la finalità della disposizione in esame va individuata in quella di rendere più spedito il procedimento davanti alla magistratura di sorveglianza, disponendo di un domicilio certo presso il quale procedere alle notifiche, e di evitare, conseguentemente, la possibilità di improprie sottrazioni del condannato alla corretta esecuzione, nelle forme e modalità di legge, delle sentenze di condanna a pena detentiva.
3 - Per effetto della precisata finalità dell'obbligo imposto dall'art. 677, comma 2bis, c.p.p. e della sua specificità, ritengono queste Sezioni Unite che la disposizione in esame sia tassativa (come, peraltro, si evince dal dettato legislativo che prescrive la indicazione "a pena di inammissibilità") e che debba, di conseguenza, escludersi che l'obbligo incombente sul condannato non detenuto possa essere assolto attraverso il "recupero" di indicazioni equipollenti pur desumibili dagli atti processuali (quali le mere indicazioni circa il domicilio o la residenza dell'istante), o che possano considerarsi valide precedenti dichiarazioni o elezioni domicilio che valide, ai sensi dell'art. 164 c.p.p., per ogni stato e grado del giudizio di cognizione, perdono efficacia in relazione al procedimento di esecuzione e di sorveglianza. Questi procedimenti, non costituiscono, infatti, una fase o un grado del procedimento di cognizione, ma sono del tutto autonomi, con la conseguenza che la dichiarazione o la elezione di domicilio effettuata nel giudizio di cognizione non è suscettibile di "trasmigrazione" nel procedimento esecutivo ed in quello di sorveglianza (Sez. Ili, 23 novembre 1998, n. 3197, Petrera, RV. 222856; Sez. I, 16 marzo 2004, n. 23907, Cisterna, RV. 229251; Sez. I, 3 febbraio 2005, n. 11522, Procopio, RV. 231268; Sez. I, 23 ottobre 2007, n. 46265, Colantoni, RV. 238768). Unica eccezione a tale principio è quella prevista dall'art. 656, comma 5, c.p.p. per la notificazione al condannato ed al difensore dell'ordine di esecuzione e del decreto di sospensione della esecuzione della pena emessa dal P.M.; ma tale eccezione trova la sua logica giustificazione proprio nella necessità di pervenire in tempi brevi alla esecuzione della condanna, sia disponendo la carcerazione, momentanea sospesa, sia rendendo possibile l'applicazione di una delle misure alternative, per cui si presume, proprio per la quasi contemporaneità della irrevocabilità della sentenza con la sua esecuzione, che la notificazione presso i luoghi indicati nel procedimento di cognizione possa accelerare la complessa procedura di esecuzione delle pene "brevi".
4 - Ciò posto e tenuto altresì conto del richiamo operato dalla norma in esame alle disposizioni dell'art. 161 c.p.p. "in quanto compatibili", deve affermarsi che, ai fini dell'assolvimento dell'obbligo di cui si discute, non è richiesta l'adozione di formule sacramentali e che -per costante indirizzo di questa Corte di legittimità in tema di dichiarazione di domicilio, indirizzo che queste Sezioni Unite fanno proprio- sia solo necessario che l'indicazione esprima con chiarezza la volontà del condannato in ordine al luogo ove egli intende ricevere la notificazione degli avvisi.
In particolare, pur convenendosi in via generale sul più alto livello di formalismo della elezione di domicilio, che rappresenta la manifestazione di quel potere di autonomia dell'imputato (e dell'indagato) di stabilire per le notifiche e gli avvisi degli atti a lui destinati un luogo diverso da quello della residenza, della dimora o del domicilio, unitamente alla indicazione di altro soggetto od ufficio presso i quali intende appunto che siano eseguite le notificazioni, deve rilevarsi come con la dichiarazione di domicilio venga operata una "vera e propria scelta" tra i luoghi indicati nell'art. 157 c.p.p. con la consapevolezza degli effetti processuali di tale scelta (Sezioni Unite, 17 ottobre 2006, n. 41280, Clemenzi). Consegue che, compiendosi con entrambe -elezione o dichiarazione di domicilio- un atto di volontà dal quale discendono determinati effetti, è richiesta in proposito, pur senza l'adozione -come si è detto- di una forma vincolata (che condizioni l'efficacia e la validità dell'atto di cui all'art. 161 c.p.p.) la presenza di requisiti minimi che attengono sia al contenuto dell'atto, che deve corrispondere allo scopo da perseguire, sia alla certezza della provenienza dell'atto da parte della persona sulla quale grava l'onere, sia alla sicura destinazione di questo ad una determinata autorità giudiziaria (Sez. I, 22 aprile 2004, n. 23510, Scardino, RV. 228135; Sez. I, 7 febbraio 2006, n. 11316, Rossigni, RV. 233654; Sez. I, 21 settembre 2006, n. 11316, Corsaro, RV. 234900; Sez. V, 29 novembre 2006, n. 422204, Ferretti, RV. 235366).
Quello che maggiormente rileva è, tuttavia, la riconducibilità all'imputato della relativa manifestazione di volontà, riconducibilità assicurata dalla dichiarazione "raccolta a verbale" ovvero dalle altre modalità indicate dall'art. 162, comma 1, c.p.p., che convergono nel riconoscere la natura strettamente personale dell'atto di elezione o dichiarazione di domicilio (Sez. V, 14 ottobre 1996, n. 10918, Orefice, RV. 207061; Sez. Ili, 27 novembre 1998, n. 1199, Boscotrecase, RV. 212826; Sez. I, 8 febbraio 2001, n. 13577, Antonelli, RV. 218738; Sez. VI, 12 giugno 2003, n. 33058, Conte, RV. 226665; Sez. II, 3 luglio 2008, n. 31194, Stagno ed altri, RV. 240952), con la conseguente esclusione che esso sia ad altri delegabile ovvero sia surrogabile da una dichiarazione del difensore.
5 - Non può poi indurre a diversa opinione in ordine alla tassatività dell'obbligo previsto dall'art. 677, comma 2bis, c.p.p. (nonché in ordine alla inidoneità di una surroga del difensore) la facoltà riconosciuta al difensore -ai sensi dell'art. 656, comma 6, c.p.p.- di poter presentare anch'egli, in pendenza della sospensione dell'ordine di esecuzione della pena prevista dal comma 5 del medesimo articolo, l'istanza volta ad ottenere la concessione di una misura alternativa alla detenzione o la sospensione della esecuzione della pena ai sensi dell'art. 90, d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309.
A parte la incongruenza e la estraneità al sistema normativo della prospettazione di una differente disciplina per il caso in cui la domanda di misura alternativa sia proposta dal difensore in luogo del condannato, osserva il Collegio: che nessuna differenziazione in tale senso è posta dalla normativa, prevedendo l'art. 656, comma 5, c.p.p. l'obbligo per l'istante, sia esso il condannato o il difensore, di presentare "istanza, corredata dalle indicazioni e dalla documentazione necessaria" e, quindi, come innanzi precisato, corredata anche dalla elezione o dalla dichiarazione di domicilio, che ben possono essere allegate all'istanza presentata dal difensore o contenute nell'istanza stessa qualora questa sia firmata anche dal condannato e depositata nella cancelleria (Sez. V, 29 novembre 2006, n. 42294, citata); che ad una differenziazione di normativa non può indurre, altresì, il tenore dell'art. 677, comma 2bis, c.p.p. laddove menziona il "condannato" quale destinatario dell'obbligo previsto a pena di inammissibilità, essendo una tale dizione imposta dalla natura strettamente personale dell'atto di elezione o di dichiarazione di domicilio e nulla incidendo, come testé ricordato, sulla obbligatorietà comunque e per chiunque facoltizzato alla presentazione dell'istanza di corredare la stessa con "le indicazioni" necessarie.
Né al fine di superare la sanzione di inammissibilità in caso di carenza della elezione o della dichiarazione di domicilio può sostenersi che il condannato sia domiciliato ex lege presso il difensore, non trovando siffatta ipotesi alcun avallo nel sistema processuale, anche tenuta presente la evidente specialità della disposizione di cui si discute e la conseguente inapplicabilità per analogia di altre norme del codice di rito (Sez. I, 20 marzo 2004, n. 20968, Genovese, non massimata sul punto).
Né può ancora diversamente rilevare -in via generale- la circostanza che il difensore intenzionato a presentare la richiesta di misura alternativa nell'interesse del suo assistito possa non avere rapporti con costui e non sia quindi in grado di farsi da lui rilasciare la dichiarazione o l'elezione di domicilio, trattandosi di situazione che appartiene alla patologia del rapporto difensivo: deve ritenersi, infatti, che il difensore, anche d'ufficio, sia sempre in grado di prendere contatti con il propino assistito (Sez. I, 16 marzo 2004, n. 15425, Larocca, non massimata sul punto) e che a tale generale valutazione faccia unica eccezione l'ipotesi in cui costui risulti in atti irreperibile o latitante. 6 - Solo in presenza di siffatta ipotesi di presumibile impossibilità di contatti tra difesa e condannato può venir meno l'obbligo sancito dall'art. 677 comma 2 bis C.P.P., assumendo in tali limitati casi significatività e rilievo principi generali -insuscettibili di essere negletti- che, con altri, sono posti a base del sistema processual-penalistico e regolano il giusto processo: il diritto di difesa, il concreto e fattivo esercizio della difesa tecnica, l'estensione al difensore di diritti e facoltà dell'imputato, il carattere necessariamente esigibile di ogni obbligo normativamente imposto.
Si osserva, infatti, che l'attribuzione al difensore ex art. 656 comma 6 C.P.P. della facoltà di presentare istanza di applicazione di una misura alternativa alla detenzione in favore del proprio assistito -e, quindi, di concretamente esercitare la difesa tecnica in un delicato momento del procedimento (in cui si valuta se l'esecuzione di pena detentiva debba avvenire mediante carcerazione ovvero attraverso modalità alternative assai meno afflittive)- comporta necessariamente non solo la concreta possibilità di esercizio di tale facoltà ma anche la possibilità di pervenire ad un positivo esito della esercitata facoltà. Ne consegue che, se sussiste, come più sopra argomentato, l'obbligo per l'istante di corredare la richiesta di misure alternative alla detenzione con tutte le indicazioni di legge e quindi l'onere per il difensore che eserciti la facoltà attribuitagli di non obliterare la disposizione di cui all'art. 677 comma 2 bis C.P.P. (acquisendo la prescritta elezione o dichiarazione di domicilio dal suo assistito, ovvero a ciò direttamente adempiendo ove munito di procura speciale ad hoc), l'osservanza di tale obbligo viene meno quando lo stato di irreperibilità o di latitanza -risultante in atti- del condannato renda tale obbligo inesigibile: e ciò perché il dichiarato stato di irreperibilità o di latitanza ingenera una presunzione di interruzione del "collegamento personale" che é all'origine del rapporto di patrocinio scaturito dal mandato difensivo e che é, altresì, il naturale portato del rapporto originato dalla nomina di ufficio. A queste sole condizioni, pertanto, la altrimenti irrilevante difficultas operandi diventa una vera situazione di inesigibilità, legittimando il difensore a proporre l'istanza di cui all'art. 656 commi 5-6 C.P.P. pur in difetto della elezione o dichiarazione di domicilio previste dall'art. 677 comma 2 bis C.P.P., rimanendo peraltro impregiudicata la concreta concedibilità -da valutare caso per caso- di misure alternative in favore di chi si sia sottratto volontariamente ad un provvedimento coercitivo ovvero in favore di chi non abbia uno stabile collegamento con il territorio (Sez. I, 13 maggio 1996, n. 3256, Stevanovic, RV. 205485; Sez. I, 24 grugno 1996, n. 4322, Carnuto, RV. 205695).
7 - Le precedenti riflessioni, svolte alla stregua dell'analisi letterale e logico-sistematica della normativa di riferimento, conducono dunque ad affermare: che la richiesta di misura alternativa proposta ai sensi dell 'art. 656, comma 6, c.p.p. deve essere corredata, a pena di inammissibilità, dalla dichiarazione o dalla elezione di domicilio del condannato prevista dall'art. 677, comma 2bìs, c.p.p.; che tale obbligo non può essere assolto con modalità diverse da quelle previste; che l'obbligo in questione sussiste pur quando l'istanza sia presentata dal difensore, a meno che il condannato risulti in atti irreperibile o latitante.
8 - Alla luce del principio di diritto sopra enunciato il discorso giustificativo sinteticamente espresso nel decreto 26 maggio 2009 del Tribunale di Sorveglianza di Reggio di Calabria circa la sussistenza di una causa assorbente di inammissibilità dell'istanza presentata nell'interesse di Domenico ***** dal difensore di fiducia (istanza priva della obbligatoria indicazione di legge prevista dall'art. 677, comma 2bis, c.p.p.) appare corretto; le censure mosse con il ricorso sono, di contro, infondate. Si impone, dunque, il rigetto del ricorso con le conseguenze di legge.


P.Q.M.


Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente ***** al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma il 17 dicembre 2009