Le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione hanno affermato che, nel caso di contestazione di più circostanze aggravanti ad effetto speciale, nel calcolo della pena ai fini della determinazione dei termini di durata massima delle fasi processuali precedenti la sentenza di primo grado, deve tenersi conto, ai sensi dell'art. 63, comma quarto, cod. pen., oltre che della pena stabilita per la circostanza più grave, anche dell’ulteriore aumento complessivo di un terzo per le ulteriori omologhe aggravanti meno gravi. 


 RITENUTO IN FATTO
1. Il Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Catanzaro, con ordinanza del 10 gennaio 2011 (eseguita il 26 gennaio 2011), applicava a **** **** la misura cautelare della custodia in carcere per due delitti, commessi nel settembre/ottobre 2009, di concorso in estorsione biaggravata ai sensi dell'art. 629, secondo comma, cod. pen. (in relazione all'art. 628, terzo comma, n. 1, cod. pen.: più persone riunite) e dell'art. 7 d.l. n. 152 del 1991 (azione criminosa commessa con metodi e per fini di natura mafiosa).
Il 18 gennaio 2012 il medesimo G.i.p. emetteva, ex art. 456 cod. proc. pen., decreto dispositivo del giudizio immediato davanti al Tribunale di Vibo Valentia nei confronti dell'imputato in vinculis.
2. Il 30 settembre 2013, i difensori del **** chiedevano al Tribunale, giudice della cognizione di merito, la declaratoria di inefficacia della misura carceraria per decorrenza del termine di custodia cautelare previsto per la fase del giudizio di primo grado. Termine da individuare nella misura complessiva di un anno e sei mesi, dovendo i contestati delitti di estorsione aggravata considerarsi puniti, ai sensi dell'art. 303, comma 1, lett. b), n. 2, cod. proc. pen., con pena edittale non superiore a venti anni e, quindi, scanditi da un termine cautelare ordinario della fase pari ad un anno, a questo cumulandosi l'ulteriore termine di sei mesi previsto dal n. 3-bis della lett. b) del citato art. 303, comma 1, cod. proc. pen., rientrando i contestati fatti di estorsione nel novero dei reati elencati dall'art. 407, comma 2, lett. a), cod. proc. pen.
Secondo la difesa, essendo i fatti estorsivi ascritti al giudicabile qualificati da due circostanze aggravanti ad effetto speciale, i criteri di calcolo della pena per fini cautelari dettati dall'art. 278 cod. proc. pen. non potevano non essere integrati dal disposto dell'art. 63, quarto comma, cod. pen., che per il giudizio di merito stabilisce - in caso di pluralità di aggravanti ad effetto speciale (e impregiudicati eventuali bilanciamenti delle circostanze a norma dell'art. 69 cod. pen.) - l'applicazione della pena stabilita per la circostanza più grave, salva la possibilità per il giudice di aumentarla in riferimento alle ulteriori aggravanti ad effetto speciale in misura non superiore a un terzo (a norma dell'art. 64, primo comma, cod. pen.).
Nel caso riguardante il ****, essendo individuabile in quella di cui all'art. 629, secondo comma, cod. pen., la circostanza aggravante più grave (pena detentiva edittale massima di venti anni a fronte di quella di dieci anni prevista per l'estorsione semplice ex art. 629, primo comma, cod. pen.) rispetto alla concorrente aggravante della "mafiosità" della condotta ex art. 7 d.l. n. 152 del 1991 (aumento della pena-base da un terzo alla metà), deve inferirsi che tale seconda aggravante, «trasformandosi in aggravante comune», diviene inapprezzabile per gli effetti di cui all'art. 278 cod. proc. pen. Con la conseguenza che per i reati contestati all'imputato, siccome puniti con una pena non superiore a venti anni, il termine custodíale per la fase del giudizio di primo grado è quello di un anno (art. 303, comma 1, lett. b, n. 2, cod. proc. pen.), aumentato di sei mesi per la natura dei reati (art. 303, comma 1, lett. b, n. 3- bis, cod. proc. pen.). Dunque un termine di un anno e sei mesi, largamente decorso (in mancanza di sentenza di condanna conclusiva del giudizio di merito di primo grado) dal decreto che ha disposto il giudizio immediato nei confronti del ****.
La descritta metodologia di determinazione della pena ai fini cautelari troverebbe conforto, per i difensori del prevenuto, nella decisione con cui le Sezioni Unite penali (Sez. U, n. 20798 del 24/02/2011, Indelicato, Rv. 249664), definendo la recidiva c.d. qualificata (nelle varie tipologie elencatene dall'art. 99 cod. pen. implicanti aumenti di pena superiori ad un terzo) come una circostanza aggravante ad effetto speciale, hanno statuito che la detta recidiva «soggiace, in caso di concorso con circostanze aggravanti dello stesso tipo, alla regola dell'applicazione della pena prevista per la circostanza più grave, e ciò pur quando l'aumento che ad essa segua sia obbligatorio, per avere il soggetto, già recidivo per un qualunque reato, commesso uno dei delitti indicati all'art. 407, comma 2, lett. a), cod. proc. pen.».
3. Con ordinanza del 9 ottobre 2013 il Tribunale di Vibo Valentia rigettava l'istanza de liberiate, ritenendo non condivisibile l'assunto difensivo sulla durata del termine cautelare di fase, questo dovendo computarsi in misura di due anni, ai sensi del combinato disposto dei numeri 3 e 3-bis della lettera b) dell'art. 303, comma 2, cod. proc. pen., attesa la non caducazione a fini cautelari della aggravante speciale meno grave (art. 7 d.l. n. 152 del 1991), sebbene computabile in misura non eccedente un terzo (art. 63, quarto comma, cod. pen.) della pena già definita in base all'aggravante speciale più grave, e tale, per tanto, da produrre esiti sanzionatori superiori a venti anni di reclusione.
4. Adito ex art. 310 cod. proc. pen. dall'appello dell'imputato avverso tale provvedimento reiettivo, il Tribunale distrettuale di Catanzaro con ordinanza del 20 febbraio 2014 ha respinto il gravame cautelare, ritenendo incongruo il richiamo della difesa alla decisione delle Sezioni Unite del 24 febbraio 2011 (ric. Indelicato), le cui statuizioni sono limitate alla definizione del trattamento- punitivo in concreto applicato dal giudice di merito (in conformità allo scopo perseguito dall'art. 63, quarto comma, cod. pen. di mitigare l'entità della pena che derivi da un mero cumulo materiale delle aggravanti speciali). Statuizioni non estensibili alla determinazione della pena funzionale al computo dei termini di durata massima della custodia cautelare per le varie fasi processuali secondo i criteri fissati dall'art. 278 cod. proc. pen., in virtù dei quali «viene in considerazione il massimo edittale previsto dalla legge per il delitto in ordine al quale l'imputato è cautelato, tenendosi conto, ex ante, di tutte le circostanze ad effetto speciale contestate, ancorché poi in esito al giudizio le stesse possano essere escluse ovvero ricevere concreta applicazione secondo il combinato disposto di cui agli artt. 63, quarto comma, e 64 cod. pen.».
Tale indirizzo ermeneutico, aggiungono i giudici del gravame cautelare, deve valutarsi pacifico e da tempo consolidato nella giurisprudenza di legittimità, che a più riprese ha chiarito (l'ordinanza riproduce, in via esemplificativa, la massima di Sez. 1, n. 19841 del 31/03/2005, Panaro, Rv. 233262) come, per stabilire i termini di durata della custodia cautelare, nel caso in cui concorrano più circostanze aggravanti a effetto speciale, «si debba tener conto, ai sensi dell'art. 63, quarto comma, cod. pen., della pena stabilita per la circostanza più grave e dell'aumento complessivo di un terzo per tutte le altre circostanze globalmente considerate, le quali mantengono peraltro la natura di circostanze ad effetto speciale». Decisione, questa appena citata, che i giudici dell'appello cautelare reputano particolarmente significativa, perché afferente ad un caso affatto omologo a quello concernente l'appellante ****, cioè della contestazione cautelare inframurale di un reato di estorsione aggravata ex art. 629, secondo comma, cod. pen. ulteriormente aggravata ai sensi dell'art. 7 d.l. n. 152 del 1991, per la quale la Corte di cassazione ha individuato in un anno e sei mesi (con l'ulteriore incremento di sei mesi per il titolo del reato) il termine custodíale per il giudizio di primo grado, proprio considerando il reato connotato da pena superiore nel massimo a venti anni di reclusione (giusta quanto previsto dalla ipotesi n. 3 della lettera b del comma 1 dell'art. 303 cod. proc. pen.). Casistica giudiziaria assai frequente e in rapporto alla quale i giudici dell'appello cautelare hanno menzionato altre decisioni di legittimità nei medesimi termini.
Nel solco tracciato dall'indicata giurisprudenza di legittimità in tema di determinazione della pena per fini cautelari (art. 278 cod. proc. pen.) si inserisce, ad avviso del Tribunale di Catanzaro, anche una recente decisione di legittimità (Sez. 2, n. 31065 del 10/05/2012, Lo Bianco, Rv. 253525) in tema di prescrizione, alla cui stregua per determinare il tempo necessario a prescrivere, ai sensi dell'art. 157, secondo comma, cod. pen., deve aversi riguardo, ove coesistano circostanze aggravanti ad effetto speciale, all'aumento di pena' massimo previsto dall'art. 63, quarto comma, cod. pen. per il concorso di circostanze della stessa specie. Anche la nuova formulazione dell'art. 157 cod. pen. (come riformato dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251), infatti, non prevede alcuna riserva in punto di influenza delle circostanze ad effetto speciale sui termini di prescrizione quando ne sia stata contestata più di una, salvo il necessario coordinamento con la previsione dell'art. 63, quarto comma, cod. pen., nel senso della limitazione dell'aumento di pena («a nulla rilevando, data l'autonomia della disciplina della prescrizione, la facoltatività dell'ulteriore aumento di pena, una volta applicato quella per la circostanza più grave, o, nel caso di pari gravità, per una delle circostanze ad effetto speciale»).
5. L'illustrata ordinanza del Tribunale di Catanzaro è stata impugnata per cassazione dai difensori di **** **** che, con unico articolato motivo di censura, hanno dedotto vizi di erronea applicazione della legge penale, processuale e sostanziale (artt. 278, 303 cod. proc. pen; art. 63 cod. pen.), e di mancanza e manifesta illogicità della motivazione del provvedimento nella parte in cui afferma l'inapplicabilità della regola dettata dall'art. 63, quarto comma, cod. pen., per il calcolo della pena rilevante a fini cautelari ex art. 278 cod. proc. pen.
Al ricorso hanno fatto seguito la presentazione in data 26 maggio 2014 di motivi nuovi di impugnazione e in data 11 novembre 2014 (in vista della odierna udienza di trattazione del ricorso) di note illustrative.
5.1. Riprendendo la tematica censoria esposta con l'iniziale istanza di scarcerazione dell'imputato per decorso dei termini custodiali della fase del giudizio di primo grado e con il successivo appello cautelare, il ricorso sostiene che, in caso di contestazione di un reato aggravato da due o più circostanze ad effetto speciale, va applicato - anche per calcolare la pena prevista per il reato in sede cautelare - il principio fissato dall'art. 63, quarto comma, cod. pen., in base al quale la circostanza aggravante ad effetto speciale concorrente con quella più grave determina un aumento facoltativo della pena fino ad un terzo, «atteggiandosi come circostanza aggravante comune», non suscettibile di valutazione ai sensi dell'art. 278 cod. proc. pen.
A sostegno della delineata interpretazione la difesa del ricorrente ha puntualizzato le seguenti argomentazioni.
5.1.1. Innanzitutto la "volontà del legislatore", desumibile dagli artt. 278 e 303 cod. proc. pen., volta ad evitare «un uso spregiudicato delle misure cautelari», impone che i provvedimenti restrittivi della libertà ante iudicium siano adottati tenendo conto del quantum di pena che il giudice potrà irrogare, ove sia accertata e ritenuta l'ipotesi delittuosa ascritta all'imputato.
5.1.2. In secondo luogo i principi affermati dalla sentenza delle Sezioni Unite del 1998 (Sez. U, n. 16 del 08/04/1998, Vitrano, Rv. 210709), in tema di criteri di calcolo della pena a fini cautelari (art. 278 cod. proc. pen.), debbono ritenersi superati dalla più recente sentenza del 2011 delle stesse Sezioni Unite (Sez. U, n. 20798 del 24/02/2011, Indelicato, Rv. 249664). Con tale decisione le Sezioni Unite hanno chiarito che, in base al meccanismo di calcolo previsto dall'art. 63, quarto comma, cod. pen., la circostanza aggravante ad effetto speciale "ulteriore" (rispetto a quella "più grave" per il più alto incremento di sanzione edittale prodotto) si trasforma in circostanza facoltativa comune, con la conseguenza di non poter influire sulla determinazione del tetto di pena valutabile per designare i termini di custodia cautelare a norma dell'art. 278 cod. proc. pen.
5.1.3. Disposizione, questa, che - in terzo e connesso luogo - deve leggersi e interpretarsi in uno al citato art. 63, quarto comma, cod. pen. Il principio affermato dalle Sezioni Unite nel 2011 assume, infatti, valenze di «carattere generale» e non può essere «arbitrariamente circoscritto» alla sola fase di cognizione, come ritenuto dall'impugnata ordinanza reiettiva dell'appello cautelare, se non dando spazio ad una incongrua differente applicazione della medesima norma, a seconda che la determinazione della pena avvenga all'esito del giudizio di merito ovvero nel corso della fase cautelare, producendo, in questa seconda ipotesi, una ulteriore addizione di pena (in misura di un terzo ulteriore) da reputarsi illogicamente obbligatorio, laddove il giudice del merito può non applicare alcun aumento per ulteriori aggravanti ad effetto speciale.
Nel ricorso si richiamano, a supporto dell'enunciata tesi interpretativa due decisioni di legittimità, l'una precedente e l'altra successiva alla sentenza Indelicato delle Sezioni Unite (cui la seconda espressamente si richiama), che ne confermano i principi statuiti per il calcolo della pena nei casi di coesistenza di una pluralità di circostanze aggravanti ad effetto speciale (Sez. 1, n. 18513 del 17/03/2010, Amantonico, Rv. 247202; Sez. 2, n. 5911 del 22/11/2012, dep. 2013, Bonaccorsi, Rv. 254527: «In tema di concorso di circostanze aggravanti ad effetto speciale è richiesto al giudice uno specifico dovere di motivazione sia ove egli escluda la rilevanza della circostanza concorrente meno grave, sia ove la ritenga, ed in quest'ultimo caso sarà necessario indicare le ragioni che hanno indotto alla quantificazione dell'aumento»).
Principi tratti dal disposto dell'art. 63, quarto comma, cod. pen., validi, si aggiunge nel ricorso, anche nell'ipotesi in cui l'aggravante ulteriore coincida con una aggravante ad effetto speciale per la quale siano normativamente previste l'esclusione del giudizio di comparazione ex art. 69 cod. pen. e l'obbligatorietà dell'aumento di pena, come accade per l'aggravante della mafiosità dell'azione di cui all'art. 7 d.l. n. 152 del 1991 (cfr. comma 2 art. 7 cit.) contestata al **** (ricorso, p. 5: «In tal caso neanche l'evidente distonia esistente tra la citata legge speciale e la facoltatività rimessa al giudicante dall'art. 63, quarto comma, cod. pen. ha influenzato la sentenza delle Sezioni Unite [sentenza Indelicato, ndr], che hanno ribadito il principio della totale discrezionalità in capo al giudice della possibilità di disporre un aumento di pena in forza della circostanza aggravante ad effetto speciale concorrente con altra di natura omogenea ritenuta più grave»). Se in sede di determinazione del trattamento punitivo all'esito del giudizio di merito si riconosce al giudice la "facoltà" di aumentare la pena fino ad un terzo per la concorrenza di una aggravante (ad effetto) speciale con altra aggravante omogenea, non si comprende perché siffatta facoltà (di aumento) divenga un "obbligo" nel momento in cui occorra stabilire la pena ex art. 278 cod. proc. pen. per il computo dei termini di durata massima delle misure cautelari. Diversamente si assegnerebbe a tali circostanze natura di circostanze comuni ai fini del giudizio e ad effetto speciale ai fini cautelari.
5.2. Sviluppando una disamina comparativa delle due decisioni, i motivi nuovi di ricorso rimarcano che l'orientamento espresso dalla pronuncia delle Sezioni Unite Vitrano del 1998, per il quale le aggravanti speciali c.d. soccombenti (per minore gravità) mantengono la loro natura di aggravanti ad effetto speciale, pur se sottoposte ai limiti di computo fissati dagli artt. 63 e 64 cod. pen., deve ritenersi senz'altro superato dal principio posto dalla pronuncia delle Sezioni Unite Indelicato del 2011, laddove si precisa che «le aggravanti soccombenti si trasformano da circostanze ad effetto speciale in circostanze facoltative comuni, atteso che il legislatore non ha predeterminato l'entità della variazione di pena che il giudice può apportare».
Ripresi, quindi, i rilievi formulati con l'originario ricorso, i motivi nuovi pongono l'accento sulla necessità di una esegesi costituzionalmente orientata (ex multis, Corte cost. sentenza n. 299 del 2005 sulla esigenza di assicurare nelle varie fasi processuali un «ragionevole limite della custodia cautelare», in conformità ai parametri di proporzionalità e adeguatezza, interni allo stesso precetto di cui all'ultimo comma dell'art. 13 Cost.) del combinato disposto degli artt. 275, 278 e 303 cod. proc. pen., che uniformi il trattamento sanzionatorio ai fini del computo della durata della custodia cautelare ai medesimi criteri che ex lege guidano il giudice nell'irrogazione della pena in caso di condanna. Rappresentando la custodia "preventiva" una anticipazione della pena, scomputabile dalla successiva determinazione effettuata in sentenza, la stessa non potrà essere ontologicamente superiore alla futura finale irrogazione della pena in caso di condanna. Sul punto si evoca la pronuncia delle Sezioni Unite, n. 36267 del 30/05/2006, Spennato, Rv. 234598 (in tema di chiamata in correità), in cui si postula un progressivo accostamento tra i criteri valutativi di cui all'art. 273 cod. proc. pen. (riferito alla materia cautelare) e l'art. 192, commi 3 e 4, cod. proc. pen. (riferito al giudizio di responsabilità).
Del resto il principio del favor libertatis impone, anche alla luce della giurisprudenza comunitaria (art. 5, comma 3, CEDU), che in presenza di più interpretazioni astrattamente possibili di una stessa disposizione di legge «deve comunque essere scelta la soluzione che comporta il minor sacrificio della libertà personale». Sicché non sarebbe accettabile che, in un ordinamento votato alla massima tutela della persona, una regola di diritto come quella dettata dall'art. 278 cod. proc. pen., in grado di incidere addirittura ante iudicatum sulla libertà personale, rimanga esclusa per via esegetica proprio dallo schema normativo volto a mitigare eventuali limitazioni delle prerogative di libertà individuali.
6. Il ricorso proposto nell'interesse di **** **** è stato assegnato rattorte materiae alla Seconda Sezione, che con ordinanza del 27 giugno 2014 lo ha rimesso, ai sensi dell'art. 618 cod. proc. pen., alle Sezioni Unite.
In via preliminare la Sezione rimettente ha illustrato i principi posti a fondamento dell'indirizzo interpretativo dominante, imperniato sulla decisione delle Sezioni Unite dell'8 aprile 1998, ric. Vitrano, indirizzo cui si è richiamata l'impugnata ordinanza del Tribunale di Catanzaro (arricchita da ampi riferimenti a tale giurisprudenza di legittimità), secondo il quale, per i fini di cui all'art. 278 cod. proc. pen., nell'ipotesi di concorso di più circostanze ad effetto speciale, il computo dei termini massimi di custodia cautelare dovrà eseguirsi secondo i criteri indicati dall'art. 63, quarto comma, cod. pen. e, dunque, nella misura massima prevista per la più grave delle aggravanti ad effetto speciale, aumentata di un terzo per le ulteriori circostanze globalmente considerate che, tuttavia, mantengono la loro natura di circostanze ad effetto speciale.
Proprio in relazione alla ritenuta immutabilità della natura delle circostanze ad effetto speciale, concorrente con altra omogenea e più grave circostanza, il Collegio rimettente segnala come il medesimo principio sia stato di recente affermato dalla giurisprudenza di legittimità in relazione al diverso tema del tempo necessario a prescrivere il reato con sentenza della stessa Sez. 2, n. 31065 del 10/05/2012, Lo Bianco, Rv. 253525 (non a caso richiamata, insieme a riferimenti ad altre decisioni in termini successive alla sentenza Sez. U, Vitrano, dall'ordinanza del Tribunale di Catanzaro oggetto di ricorso). Tale sentenza ha precisato che nel computo da effettuare ai fini dell'art. 157 cod. pen. deve aversi riguardo all'aumento di pena massimo previsto dall'art. 63, quarto comma, cod. pen. (cioè comprensivo dell'ulteriore aumento di un terzo per le circostanze giudicate di pari o minore gravità), nulla rilevando, stante l'autonomia della disciplina della prescrizione, la natura facoltativa dell'aumento ulteriore nel giudizio di merito.
Nondimeno la Seconda Sezione ricorda che sul punto, a fronte della giurisprudenza di legittimità saldamente orientata negli ultimi decenni nel senso di negare il mutamento della natura ad effetto speciale dell'aggravante soccombente nel sistema di calcolo previsto dalla norma sostanziale di cui all'art. 63, quarto comma, cod. pen., le Sezioni Unite con la recente pronuncia n. 20798 del 24/02/2011, Indelicato, sulle cui conclusioni è imperniata la tesi interpretativa sostenuta nel ricorso, paiono esprimere un indirizzo di segno contrario. Con l'affermare espressamente, cioè, che l'aumento di pena che il legislatore affida alla discrezionale valutazione del giudice di merito (art. 63, quarto comma, cod. pen.) è, a differenza di quanto accade nella disciplina del cumulo giuridico in tema di concorso di reati e di reato continuato, facoltativo e, «in tali ipotesi la circostanza aggravante soccombente si trasforma da circostanza ad effetto speciale in circostanza facoltativa comune, atteso che il legislatore non ha predeterminato l'entità della variazione di pena che il giudice, in ragione di essa, può apportare».
I giudici rimettenti sottolineano, quindi, l'opportunità di investire le Sezioni Unite della problematica interpretativa sollevata dalla difesa del ricorrente, quando si tenga conto che la pronuncia delle Sezioni Unite Indelicato investe una fattispecie o situazione processuale diversa da quella considerata dalla risalente e stratificata giurisprudenza di legittimità ex art. 278 cod. proc. pen, e dalla stessa fattispecie posta a base dell'odierno ricorso, poiché inerisce, in particolare, al piano sanzionatorio di applicazione dell'art. 63, quarto comma, cod. pen., e non a quello della definizione della durata dei termini della custodia cautelare e delle relative procedure incidentali. Di guisa che è legittimo interrogarsi sul se, ed eventualmente in quale misura, detta più recente sentenza possa dispiegare una concreta incidenza anche sui criteri di calcolo della pena ai fini della adozione di una misura cautelare restrittiva della libertà personale dell'indagato e soprattutto della durata dei corrispondenti termini massimi per ciascuna fase endoprocessuale.
7. Con decreto del 30 luglio 2014 il Primo Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione l'odierna udienza.
8. Con le "note illustrative" depositate per tale udienza i difensori del ricorrente ritornano sulla tesi del superamento, ad opera della sentenza Sez. U Indelicato, del meccanismo di individuazione dell'aumento edittale della pena ai fini della durata dei termini custodiali di fase. La sentenza Indelicato ha chiarito che la circostanza aggravante ad effetto speciale soccombente modifica le proprie valenze («si trasforma»), divenendo una circostanza aggravante comune che, in quanto tale, non potrà incidere sulla pena da valutare ai fini della definizione temporale della custodia cautelare di fase. Le ridette aggravanti, come ritenuto anche in dottrina, perderebbero la loro originaria "qualifica" (di aggravanti ad effetto speciale) e con essa il loro rilievo per gli effetti di cui all'art. 278 cod. proc. pen.
Le note difensive riprendono, poi, la tesi della osmotica permeabilità tra i termini massimi di custodia cautelare dell'applicanda e applicata misura restrittiva e la pena applicabile per il reato ascritto all'imputato, se giudicato colpevole. Al riguardo si ricorda che, sotto il profilo della proporzionalità delle misure cautelari, l'art. 275, comma 2, cod. proc. pen. impone che ogni misura sia proporzionata all'entità del fatto reato e alla «sanzione che sia stata o si ritiene possa essere irrogata». La stessa Corte costituzionale, del resto, con la citata sentenza n. 299 del 2005 ha specificato: «Le limitazioni della libertà connesse alle vicende processuali devono rispettare il principio di proporzionalità [...]; unitamente al principio di adeguatezza, il criterio di proporzionalità tra la gravità della pena prevista per il reato e la durata della custodia ispira l'esigenza di assicurare un ragionevole limite di durata della custodia cautelare [...]. Processo e fatto di reato sono termini inscindibili del binomio al quale va sempre parametrata la disciplina della custodia cautelare e ad entrambi deve sempre essere ancorata la problematica dei termini entro i quali la durata delle misure limitative della libertà personale può dirsi proporzionata e, quindi, ragionevole».

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. La questione di diritto sottoposta all'esame delle Sezioni Unite è stata così formulata: "Se, ai fini della determinazione della pena agli effetti dell'applicazione delle misure cautelari e, in particolare, della individuazione dei relativi termini di durata massima, nel caso di concorso di più circostanze aggravanti ad effetto speciale, si debba tenere conto, oltre che della pena stabilita per la circostanza più grave, anche dell'ulteriore aumento complessivo di un terzo ai sensi dell'art. 63, quarto comma, cod. pen.".
Su tale questione non si registrano specifiche divergenze o interpretazioni dissonanti nelle decisioni di legittimità.
Il "contrasto giurisprudenziale" che giustifica l'intervento delle Sezioni Unite si configura, infatti, in termini soltanto potenziali con riferimento, per le condivisibili ragioni di opportunità segnalate dalla Sezione rimettente, alla indubbia delicatezza della questione e alle significative implicazioni della relativa soluzione su un tema sensibile quale quello della libertà personale: rilevanza della questione e necessità di una univoca interpretazione della corrispondente disciplina normativa vieppiù accresciute dal fatto che la stessa si prefigura rispetto a casistiche giudiziarie attinenti in prevalente misura (alla luce delle uniformi decisioni di legittimità in cui è venuta in discussione la latitudine applicativa dell'art. 278 cod. proc. pen.) a procedimenti penali per gravi fatti di criminalità, organizzata o non, scanditi da più concorrenti aggravanti ad effetto speciale influenti sul computo della pena a fini cautelari e sui termini di fase.
In vero il contrasto interpretativo assume connotazioni precipuamente virtuali, perché sulla problematica del computo della pena ai fini cautelari e della individuazione dei termini della custodia cautelare inframurale, in base al combinato disposto degli artt. 278 e 303 cod. proc. pen., non constano decisioni di legittimità che si siano discostate dallo stabile pluriennale indirizzo interpretativo imperniato sui principi fissati dalla sentenza Vitrano delle Sezioni Unite del 1998, secondo cui per definire la durata massima dei termini di custodia cautelare per la fase delle indagini e in particolare per quella del giudizio di primo grado deve aversi riguardo alla pena edittale risultante dal cumulo delle sanzioni derivanti anche dalla compresenza di più circostanze aggravanti ad effetto speciale e non alla pena che in concreto potrà essere irrogata all'esito del giudizio di primo grado con la sentenza che chiude tale fase processuale. Cumulo delle sanzioni, nei valori massimi previsti per le singole fattispecie criminose e le eventuali connesse aggravanti speciali (arg. ex art. 280, comma 2, cod. proc. pen.), unicamente temperato dalla regola di calcolo (cumulo giuridico), ispirata dal favor rei, dettata dagli artt. 63, quarto comma, e 64 cod. pen. per il caso in cui coesistano più aggravanti ad effetto speciale: pena determinata in base all'aggravante più afflittiva (per incremento sanzionatorio) aumentata, per le altre aggravanti, in misura di un terzo secondo l'ordinario criterio di computo delle aggravanti comuni.
Del pari mette conto chiarire, in limine, che la quaestio Iuris proposta dalla Sezione rimettente, in base agli enunciati del ricorrente imputato ****, si prospetta ovviamente soltanto in rapporto al tema della determinazione della pena funzionale alla durata della custodia cautelare per le prime due fasi cautelari delle quattro autonome fasi in cui il legislatore ha suddiviso la diacronica sequenza della vicenda cautelare correlata agli sviluppi del procedimento penale: indagini preliminari; giudizio di primo grado anteriormente alla decisione (di condanna) che definisce il grado; giudizio di appello; fase definitoria di legittimità e della irrevocabilità della decisione di condanna. La tematica dei criteri di calcolo della pena, cui rapportare la durata dei termini di tali fasi, rimessa a queste Sezioni Unite si pone unicamente per la fase delle indagini preliminari e per quella del giudizio di merito di primo grado (incluso il subprocedimento relativo al giudizio che si svolga nelle forme del rito abbreviato), nessun problema potendo sorgere, infatti, per le fasi successive all'intervenuta decisione (di condanna) di primo grado, per le quali deve ex lege (art. 303, comma 1, lett. c, cod. proc. pen.) aversi riguardo all'entità della pena in concreto inflitta all'imputato in primo e in secondo grado e, dunque, in sostanza al reato "ritenuto in sentenza" (per evocare la formula già contenuta nell'art. 275 cod. proc. pen. 1930) e come da questa giuridicamente qualificato, la cui nozione sostituisce quella del "delitto per cui si procede" propria della casistica processuale considerata dalle lettere a), b) e b-bis) del comma 1 dell'art. 303 cod. proc. pen. (ex plurimis: Sez. U, n. 29556 del 29/05/2014, Gallo, non massimata sul punto; Sez. 6, n. 7199 del 08/02/2013, Lusha, Rv. 254504; Sez. 2, n. 41180 del 26/09/2013, Guarro, Rv. 257070; Sez. 4, n. 31338 del 22/02/2005, Abada, Rv. 231732).
Tutto ciò premesso, può subito anticiparsi che all'esito dell'analisi della prospettata questione interpretativa, come di seguito esposta, le Sezioni Unite ritengono di dover decidere per la perdurante stabilità e correttezza giuridica, sotto il profilo logico, sistematico e storico-processuale, dei principi già enunciati dalla sentenza Sez. U, Vitrano del 1998, cui non possono far velo i soli in apparenza distonici esiti valutativi della più recente sentenza Sez. U, Indelicato del 2011. La diversa scelta interpretativa postulata dai difensori del ricorrente ****, con il pur suggestivo assunto dell'estensione dei principi fissati, in punto di definizione del trattamento punitivo, da quest'ultima sentenza alle fasi incidentali cautelari anteriori alla prima sentenza di condanna, non è sorretta da valido fondamento.
2. L'esigenza di stabilire la durata massima della custodia cautelare, quale garanzia per i soggetti privati della libertà personale, discende dalla fondamentale norma costituzionale sulla libertà individuale. L'art. 13 Cost., oltre a qualificare come eccezionali i casi in cui è consentito ricorrere alla privazione della libertà, contiene anche una specifica riserva di legge in tema di durata massima della custodia cautelare (art. 13, quinto comma, Cost.: «La legge stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva»).
Il primo intervento legislativo volto a dare attuazione al dettato costituzionale è rappresentato dalla legge 18 giugno 1955, n. 517, il cui art. 9 stabiliva (modificando l'art. 272 cod. proc. pen. 1930) i termini di durata massima della custodia preventiva nella sola fase istruttoria. Con la determinante sentenza n. 64 del 1970, con cui dichiarava incostituzionale tal disposizione, la Corte costituzionale forniva al legislatore precise indicazioni per una nuova disciplina della materia, differenziata «non solo in relazione ai vari tipi di reato, ma anche alle varie fasi del procedimento», ed orientata, comunque, alla predeterminazione di un «ragionevole limite di durata della detenzione preventiva». Al tema della predefinizione della durata dei termini di custodia cautelare risulta, quindi, inscindibilmente connessa la problematica, rilevante rispetto all'attuale questione di diritto rimessa alle Sezioni Unite, della individuazione dei criteri di computo della pena a fini cautelari. Nella materia, come è noto, il legislatore è ripetutamente intervenuto sia sotto il vigore del codice di rito previgente, sia in relazione all'attuale codice di procedura penale, spesso mutando i criteri di calcolo della pena a tali fini, anche sotto la spinta dell'esigenza di fronteggiare contingenti e gravi emergenze criminali.
La norma cardine nell'articolato sistema regolato dal codice di procedura penale (artt. 303, 304) è l'art. 278, che fissa i criteri per determinare l'entità della pena ai fini dell'applicazione delle misure cautelari (coercitive e interdittive). Determinazione che, dovendo aversi riguardo alla pena nella misura massima edittale per ciascun reato (cfr.: Sez. U, n. 26350 del 24/04/2002, Fiorenti, Rv. 221657; Sez. 1, n. 3470 del 21/05/1996, Aligi, Rv. 205419), mentre definisce la gravità del fatto-reato quale elemento essenziale dell'applicazione delle misure coercitive, offre un simultaneo limite oggettivo di garanzia per l'indagato o imputato nel quadro di una razionalizzazione di tutte le situazioni processuali di rilievo penale atte a produrre una privazione o limitazione della libertà personale. Non a caso i criteri dettati dall'art. 278 cod. proc. pen. valgono, in un'ottica di uniformità sistemica sancita dall'art. 379 cod. proc. pen. (norma di rinvio: «Agli effetti delle disposizioni di questo titolo, la pena è determinata a norma dell'art. 278»), anche ai fini della determinazione della pena funzionale all'arresto in flagranza di reato (obbligatorio o facoltativo) e al fermo di indiziato di un delitto (artt. 380, 381, 384 cod. proc. pen.). Deve convenirsi, dunque, sulla valenza di "norma di carattere generale", cui nel sistema cautelare codicistico occorre fare esclusivo riferimento per l'applicazione delle misure cautelari, riconoscibile all'art. 278 cod. proc. pen., per le fasi cautelari precedenti l'eventuale prima sentenza di condanna (Sez. U, n. 19 del 01/10/1991, Simioli, Rv. 188582).
Nella sua attuale formulazione l'art. 278 cod. proc. pen. prevede che, agli effetti dell'applicazione delle misure cautelari, si abbia riguardo alla «pena stabilita dalla legge per ciascun reato consumato o tentato», non tenendosi conto della continuazione, della recidiva e delle circostanze del reato, «ad eccezione» dell'aggravante di cui all'art. 61, n. 5, cod. pen. e dell'attenuante di cui all'art. 62, quarto comma, cod. pen. «nonché delle circostanze per le quali legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciale». Dalla lettera della norma è agevole desumere che, da un lato, la stessa individua, quale regola fondante per l'adozione di una misura cautelare, il coefficiente di gravità attestato dal fatto-reato principale e non dai suoi eventuali connotati accessori (circostanziali), fatta coerente eccezione per le circostanze, aggravanti o attenuanti, che modifichino in modo significativo l'indice del disvalore complessivo della condotta criminosa. Tanto da derogare in modo specifico ai criteri generali di calcolo delle circostanze comuni del reato (artt. 64, 65 cod. pen.: aumento o diminuzione della pena base in misura di un terzo), dando luogo ad incrementi o decrementi della sanzione in misure frazionarie maggiori di quelle ordinarie, sì da meritare la denominazione di «circostanze ad effetto speciale» o indipendenti (art. 63, terzo comma, ultima parte, cod. pen.: «quelle che importano un aumento o una diminuzione della pena superiore ad un terzo»). Da un altro lato l'esclusione delle circostanze aggravanti comuni dal calcolo della pena finalizzato all'applicazione di misure cautelari ne riduce in modo sensibile l'area di applicabilità in funzione di maggior garanzia per le ragioni di tutela della libertà personale.
3. Con l'art. 278 cod. proc. pen. si coniugano gli artt. 303 cod. proc. pen. e 63 cod. pen.
3.1. L'art. 303 cod. proc. pen. disciplina l'estensione temporale delle misure coercitive, prevedendo soglie predeterminate di durata della limitazione della libertà personale per ogni fase processuale e per la durata complessiva della misura, differenziate per tipologia di reati per i quali si procede (sanzione edittale) o per entità della pena inflitta, superati i quali la misura cautelare perde effetto ex lege e impone l'immediata liberazione della persona sottoposta a misura cautelare (art. 306 cod. proc. pen.). La fattispecie oggetto del ricorso rimesso alle Sezioni Unite riguarda, come già precisato, i termini di durata della misura cautelare nella fase del giudizio di primo grado. Secondo il disposto dell'art. 303, comma 1, lett. b) e b-bis), cod. proc. pen. il termine per tale fase, come per quella precedente delle indagini preliminari, è determinato in ragione del delitto per cui si procede, cioè della imputazione contestata con il provvedimento coercitivo genetico ovvero di quella eventualmente modificata, per diversa qualificazione giuridica del fatto reato (in termini di minore o maggiore gravità), dal tribunale del riesame che accolga una richiesta, ex artt. 309 e 310 cod. proc. pen., deM'indagato o del pubblico ministero (Sez. U, n. 24 del 05/07/2000, Monforte, Rv. 216706). Il termine custodíale così individuato è esteso dall'art. 303, comma 1, lett. b) n. 3-bis), cod. proc. pen., per un periodo non superiore a sei mesi quando si proceda per taluno dei gravi reati elenca" nell'art. 407, comma 2, lett. a), cod. proc. pen. Aumento imputabile al termine della fase precedente, se non completamente utilizzato, ovvero ai termini di cui alla lett. d) dell'art. 303 cod. proc. pen., relativi al giudizio di merito di secondo grado, per la parte eventualmente residua, con riduzione proporzionale di questi ultimi termini.
3.2. L'art. 63 cod. pen. detta le regole per il computo delle circostanze del reato nel corso del giudizio di merito, quando sia affermata la responsabilità dell'imputato. Il secondo comma disciplina l'ipotesi della coesistenza di più circostanze aggravanti comuni ovvero di più circostanze attenuanti comuni (fatti salvi ovviamente i criteri di bilanciamento previsti dall'art. 69 cod. pen. quando concorrano circostanze aggravanti e attenuanti comuni), prevedendo cumulativi incrementi o decrementi della pena per ciascuna circostanza di cui il giudice di merito riconosca la sussistenza (cumulo materiale). Il quarto e il quinto comma disciplinano le ipotesi della coesistenza, rispettivamente, di circostanze aggravanti o di circostanze attenuanti ad effetto speciale, prevedendo (fermo, anche in questi casi, l'eventuale bilanciamento ex art. 69 cod. pen. tra aggravanti e attenuanti concorrenti) che la pena sia aumentata in relazione alla circostanza aggravante speciale più grave ovvero diminuita in relazione alla «pena meno grave» risultante dalle attenuanti (id est dall'attenuante che preveda una maggiore riduzione della pena), con "facoltà" per il giudice di merito di apportare un aumento o una diminuzione ulteriori della pena per l'altra o le altre circostanze ad effetto speciale (aggravanti o attenuanti) una sola volta, quale che sia il numero delle altre circostanze siffatte, e in misura non eccedente un terzo dell'individuata pena base, come statuisce l'art. 64, primo comma, cod. pen.
3.3. La parte dell'art. 278 cod. proc. pen. che assume immediato interesse per la soluzione della questione di diritto rimessa alle Sezioni Unite è, come anticipato, quella che investe la disciplina del concorso di più circostanze aggravanti omogenee, di cui almeno due ad effetto speciale, nella dinamica della determinazione della pena a fini cautelari, onde stabilire la durata dei termini massimi di custodia cautelare per le fasi anteriori alla emissione della sentenza di primo grado. Di tal che il problema che si pone è quello di individuare la disciplina del calcolo. Vuoi in rapporto all'evidenziata necessità di «tenere conto» delle circostanze aggravanti ad effetto speciale, come prescrive l'art. 278 cod. proc. pen., in quanto incidenti sulla gravità del reato; vuoi in rapporto ai descritti "limitanti" criteri di computo della pena per fatti reato scanditi da più aggravanti fissati, dall'art. 63, quarto comma, cod. pen. e ispirati a un'ottica di favor rei (cumulo giuridico in luogo della somma degli aumenti di pena indotti dalle singole aggravanti).
4. La corrispondente ricostruzione interpretativa della disciplina applicabile per individuare la pena incidente sulla durata dei termini cautelari massimi della fase anteriore al giudizio di primo grado ha dato luogo, nel primo decennio di vigenza dell'attuale codice di procedura penale, a taluni contrasti in seno alla giurisprudenza di legittimità che sono stati risolti con la menzionata decisione delle Sezioni Unite n. 16 del 1998, Vitrano.
4.1. In ordine al quesito posto all'esame delle Sezioni Unite nel 1998 sulla applicabilità o non alle ipotesi di concorso di aggravanti ad effetto speciale, per il calcolo della pena rilevante a fini cautelari, del disposto di cui all'art. 63, quarto comma, cod. pen., relativo alla definizione della pena in sede di cognizione di merito (applicabile la sola circostanza speciale più grave, salva la "facoltà" per il giudice di operare un ulteriore aumento, fino a un terzo, per le altre circostanze "soccombenti" globalmente considerate), si delineavano tre linee interpretative.
Per un primo orientamento per calcolare la pena a fini cautelari in caso di concorso di circostanze aggravanti ad effetto speciale non potevano trovare applicazione i criteri enunciati dall'art. 63, quarto comma, cod. pen., tale disposizione integrando una norma sostanziale attinente in modo esclusivo alla concreta entità del trattamento punitivo irrogabile all'esito del giudizio di merito. Per tale orientamento il computo della pena edittale funzionale alla durata della custodia cautelare della fase ante iudicium (art. 303 cod. proc. pen.) andava effettuato calcolando tutte le eventuali circostanze ad effetto speciale, in modo autonomo, alla stregua di un ordinario criterio di cumulo materiale dei vari segmenti di pena circostanziale (Sez. 1, n. 3470 del 21/05/1996, Aligi, Rv. 205419; Sez. 6, n. 824 del 06/03/1995, Orefice, Rv. 201885).
Per un secondo speculare orientamento, rappresentato dalla pronuncia Sez.
1, n. 1301 del 27/02/1996, Nicastro, Rv. 204179 (motivata in consapevole contrasto con la citata sentenza Orefice del 1995), invece, anche per determinare la pena ex art. 278 cod. proc. pen., dovevano applicarsi per intero i criteri indicati dal quarto comma dell'art. 63 cod. pen. Ciò sul presupposto che, concorrendo più aggravanti ad effetto speciale, l'ulteriore circostanza di minore o pari gravità, soccombente nel calcolo, acquisterebbe i caratteri di una aggravante comune, implicante (ex art. 63, quarto comma, cod. pen.) un aumento di pena fino ad un terzo; aumento per di più facoltativo, la relativa applicazione essendo rimessa al potere discrezionale del giudice di merito. Con la conseguenza, allora, che di detta aggravante ulteriore non possa tenersi conto per il calcolo cautelare. In altre parole, per tale indirizzo, la qualificazione speciale (ad effetto speciale) o comune di una aggravante rileva non per la sua ontologica natura o per la sua funzione finalistica, ma unicamente in base alla misura dell'aumento di pena che l'aggravante determina, vale a dire dell'aumento superiore o non ad un terzo della pena in base al disposto dell'art. 63, terzo comma, ultimo periodo, cod. pen.
Un terzo orientamento ermeneutico, per dir così intermedio, condiviso dalla sentenza Sez. U Vitrano, pur muovendo dallo stesso presupposto dell'orientamento minoritario sul necessario ricorso ai criteri di computo delineati dal quarto comma dell'art. 63 cod. pen. anche per stabilire l'entità della pena funzionale alle misure cautelari, giungeva alla diversa conclusione che, nel configurato concorso di aggravanti speciali, il giudice debba individuare la pena applicando l'aumento derivante dalla più grave di tali aggravanti ed operando tuttavia, "obbligatoriamente", un ulteriore aumento di un terzo per le altre aggravanti, che "ontologicamente" non perdono la loro natura di circostanze ad effetto speciale. La regola dettata dall'art. 63, quarto comma, cod. pen., afferisce al momento applicativo della pena nel caso concreto e non può incidere su natura e struttura della circostanza, convertendola in una aggravante comune (Sez. 1, n. 291 del 22/01/1992, Brusca, Rv. 189498; Sez. 2, n. 2036 del 09/05/1996, Argenti, Rv. 206308; Sez. 1, n. 2125 del 02/04/1996, Mendola, Rv. 204404; Sez. 5, n. 1240 del 13/03/1997, Casile, Rv. 208099).
4.2. L'esposta pluralità di discordanti indirizzi è stata composta dalle Sezioni Unite con la sentenza Vitrano del 18 aprile 1998 in relazione a una fattispecie assimilabile a quella ascritta all'odierno ricorrente **** (il caso esaminato dalle Sezioni Unite riguardava un reato di rapina aggravata ai sensi degli artt. 628, terzo comma, n. 1, cod. pen. e 7 d.l. n. 152 del 1991).
Le Sezioni Unite hanno giudicato condivisibile l'interpretazione articolata dal terzo intermedio orientamento, espresso - tra le varie decisioni - dalla sentenza della Quinta Sezione, ric. Casile, del 13 marzo 1997 (tra le ultime sul tema precedenti l'intervento delle Sezioni Unite). Conclusione cui le Sezioni Unite sono giunte all'esito di un'analisi critica degli altri due diversi indirizzi ermeneutici.
Quanto all'indirizzo che nega in radice l'applicabilità dell'art. 63, quarto comma, cod. pen. per stabilire ex art. 278 cod. proc. pen. la pena corrispondente al termine di custodia cautelare per la fase del giudizio di primo grado, le Sezioni Unite hanno rilevato che lo stesso confligge con i principi di legalità e tassatività dei casi di limitazione della libertà personale, espressi negli artt. 13 Cost. e 272 cod. proc. pen. In assenza di apposite regole del codice per il computo delle circostanze aggravanti speciali concorrenti di cui occorre tener conto secondo l'art. 278 cod. proc. pen., tale orientamento non indica in qual modo debba operarsi la "sommatoria" di tali circostanze, stante la loro "autonomia sanzionatoria" che impedisce di identificare una "base" di pena su cui apportare gli aumenti successivi per le ulteriori aggravanti speciali. Di tal che non può che soccorrere, a tal fine, il disposto dell'art. 63, quarto comma, cod. pen.
Quanto al secondo indirizzo (Sez. 1, n. 1301 del 27/02/1996, Nicastro), per il quale ai fini della determinazione della pena ex art. 278 cod. proc. pen. trova piena e assorbente applicazione il disposto dell'art. 63, quarto comma, cod. pen. e deve, quindi, considerarsi la sola pena stabilita per la circostanza speciale più grave, le residue aggravanti speciali venendo "degradate" al rango di circostanze comuni non valutabili a fini cautelari per l'espressa esclusione sancitane dall'art. 278 cod. proc. pen., le Sezioni Unite hanno criticamente rilevato che «ogni circostanza conserva la sua natura» e che è affatto irragionevole che una circostanza muti tale sua natura «a seconda della sua collocazione nell'ordine di gravità delle altre che con essa concorrono». Ad avviso delle Sezioni Unite la regola dell'aumento fino ad un terzo (art. 63, quarto comma, cod. pen.), oltre a costituire cumulo giuridico (figurato) delle pene per le ulteriori aggravanti, costituisce "limite legale" della pena nella specifica ipotesi considerata, in luogo del limite ordinario previsto per il concorso delle circostanze comuni dagli artt. 66 e 67 cod. pen.
Per le Sezioni Unite del 1998, dunque, la natura ad effetto speciale della circostanza non muta a seconda delle diverse situazioni, ma la stessa, come tutti i dati normativi sostanziali, rileva in due momenti diversi e sequenziali: quello edittale e quello discrezionale. Nel primo ambito, che è quello interessato dall'art. 278 cod. proc. pen., la pena deve essere "stabilita" in modo vincolato dalla legge, prescindendo dalle valutazioni discrezionali dell'autorità giudiziaria, a differenza del secondo momento, quello giudiziale, qualificato dalla discrezionalità nella "applicazione" della pena nel caso concreto all'esito del giudizio. Ciò che si verifica proprio con il metodo di calcolo previsto dal quarto comma dell'art. 64 cod. pen. Norma nella quale, «convergono il momento applicativo della pena e quello edittale, come reso evidente dall'adozione, in correlazione tra loro, delle espressioni "si applica" e "pena stabilita"». In questa prospettiva le Sezioni Unite hanno formulato il principio di diritto così sintetizzabile: "Ai fini della determinazione dei termini di durata massima della custodia cautelare, nel caso concorrano più circostanze aggravanti ad effetto speciale, si deve tener conto, ai sensi dell'art. 63, quarto comma, cod. pen., della pena stabilita per la circostanza più grave, aumentata di un terzo, e tale aumento costituisce cumulo giuridico delle ulteriori pene e limite legale dei relativi aumenti per le circostanze meno gravi del detto tipo che mantengono la loro natura".
4.3. Mutuando l'impostazione concettuale espressa nella già ricordata sentenza Casile del 1997 (Sez. 1, n. 1240 del 30/03/1997, Rv. 208099), le Sezioni Unite escludono, insomma, che la medesimezza del criterio contabile dell'aumento per la ulteriore o le ulteriori aggravanti speciali (rispetto a quella più grave) previsto ai fini della individuazione della pena in concreto inflitta dal giudice di merito ex art. 133 cod. pen. e applicabile, in ossequio al principio del favor rei (oltre che per il segnalato rispetto dei principi di legalità e tassatività dei casi di limitazione della libertà personale), anche ai fini della determinazione della pena funzionale all'adozione di una misura cautelare coercitiva (con la sola rispettiva differenza della facoltatività nel giudizio di merito e dell'obbligatorietà in sede cautelare dell'aumento della pena astrattamente irrogabile), possa condurre ad omologare l'aggravante speciale "soccombente" ad una aggravante comune (di cui espressamente «non deve tenersi conto» ai fini dell'art. 278 cod. proc. pen.). Per la semplice ragione che i criteri di calcolo dettati dall'art. 278 cod. proc. pen., non consentono di discriminare le aggravanti sulla base di un semplice criterio aritmetico, calibrato sulla mera consistenza degli aumenti, ma secondo un criterio di incidenza sulla maggiore gravità del fatto reato per cui si procede, quale astrattamente configurabile in virtù dell'ipotesi criminosa contestata all'indagato/imputato, tale da «comprendere nel calcolo quelle circostanze che denotano una massima gravità ed escludere quelle che, invece, non vengono stimate di pari livello, tra le quali quelle comuni».
4.4. Dopo la pronuncia delle Sezioni Unite la giurisprudenza di legittimità si è stabilmente uniformata ai principi fissati dalla sentenza Vitrano senza oscillazioni di sorta (ex piurimis\ Sez. 1, n. 4271 del 13/07/1998, Licai, Rv. 211334; Sez. 2, n. 44389 del 12/07/2004, Fanizza Rv. 231008; Sez. 1, n. 19841 del 31/03/2005, Panaro, Rv. 233262, riguardante un caso identico a quello del ricorrente ****: «Ai fini della determinazione dei termini di durata massima della custodia cautelare, nel caso concorrano più circostanze aggravanti [...] ad effetto speciale, si deve tener conto, ai sensi dell'art. 63, quarto comma, cod. pen., della pena stabilita per la circostanza più grave e dell'aumento complessivo di un terzo per tutte le altre circostanze globalmente considerate, le quali mantengono la natura di circostanze ad effetto speciale»). Tanto che la tesi esposta dal secondo orientamento interpretativo prima illustrato (circostanze aggravanti speciali soccombenti degradate ad aggravanti comuni e non valutabili per stabilire la pena edittale massima a fini cautelari) risulta, a ben considerare, sostenuta unicamente dalla sentenza Nicastro della Sezione 1 del 1996 (n. 1301/1996).
4.5. Le sole varianti ermeneutiche rispetto al decisum delle Sezioni Unite Vitrano concernono i casi in cui la questione dell'entità della pena derivante dal concorso di circostanze aggravanti ad effetto speciale sia autonomamente risolta dallo stesso legislatore nella tipizzazione della fattispecie criminosa connotata da una o più di tali circostanze aggravanti, per le quali siano in modo autonomo predeterminati gli aumenti di pena applicabili, sia per finalità cautelari, sia per la concreta definizione della pena da infliggere nel giudizio di merito. E' il caso, in significativa misura, della fattispecie associativa mafiosa, per la quale il disposto dell'art. 416-6/s cod. pen. prevede, con le aggravanti ad effetto speciale di cui ai commi 2, 4 e 6, puntuali e definite soglie sanzionatorie (nel minimo e nel massimo edittali: commi secondo e quarto) ovvero specifiche misure dell'aumento di pena applicabile (comma sesto). E' di tutta evidenza, come rilevato da una delle prime decisioni occupatesi della questione (Sez. 6, n. 41233 del 24/10/2007, Attardo, Rv. 237671) che, la "portata generale" pur riconoscibile al principio statuito dalle sentenza Vitrano delle Sezioni Unite (pena a fini cautelari calcolata in presenza di più aggravanti speciali alla stregua del cumulo giuridico obbligatorio di cui all'art. 63, quarto comma, cod. pen.) non assume carattere assoluto, per il semplice motivo che nelle ipotesi assimilabili a quelle delle aggravanti speciali contemplate dall'art. 416-bis cod. pen. dette aggravanti non interrompono il collegamento con la pena stabilita per il reato (base) cui accedono, indicando esse stesse ex lege la cornice degli incrementi sanzionatori. Incrementi applicabili, per tanto, a fini cautelari in modo cumulativo ai sensi dell'art. 278, comma 1, cod. proc. pen. (pena «stabilita dalla legge» per ciascun reato), essendo in simili casi «individuata una base [di pena] sulla quale apportare gli aumenti successivi» in ragione dell'autonomia e peculiare autosufficienza sanzionatoria delle aggravanti ad effetto speciale normativamente tipizzate (negli stessi termini in tempi più recenti, ex plurimis: Sez. 1, n. 29770 del 24/03/2009, Vernengo, Rv. 244460; Sez. 6, n. 7916 del 13/12/2011, dep. 2012, La Franca, Rv. 252069; Sez. 1, n. 33438 del 02/04/2012, Mannino, n.m.; Sez. 1, n. 37465 del 29/05/2012, Strano, n.m.).
Considerazioni del tutto simili possono formularsi per le aggravanti ad effetto speciale qualificanti, a norma dell'art. 80 d.P.R. 309/1990, il reato di illecita detenzione di sostanze stupefacenti ex art. 73 d.P.R. 309/1990 nonché per l'aggravante del carattere "armato" di una associazione criminale dedita al narcotraffico (art. 74, comma 4, d.P.R. 309/1990).
5. Come si è visto, il nucleo fondante della decisione delle Sezioni Unite Vitrano è costituito dal rilievo concettuale per cui le circostanze aggravanti ad affetto speciale, anche quando concorrano in più d'una nel "circostanziare" il reato, non vedono mutare la loro natura da speciale in comune, mantenendo inalterata la loro specificità ontologica, indicativa di un più elevato e particolare coefficiente di gravità del reato cui sono connesse. Tali aggravanti, la cui "specialità", espressione di disvalore e offensività più elevati del fatto reato, è data appunto dalla previsione di incrementi della pena prevista per il reato-base cui accedono in misura superiore a quella ordinaria di un terzo (artt. 64, 66 cod. pen.), impongono, in caso di loro pluralità, l'applicazione - per emettere una misura cautelare restrittiva - del criterio temperato di computo («limite legale») indicato dall'art. 63, quarto comma, cod. pen. (cumulo giuridico: le altre aggravanti speciali meno gravi determinano, considerate nel loro insieme come un'unica altra aggravante, un additivo aumento della pena non superiore ad un terzo). Ma non per questo subiscono sul piano strutturale, se soccombenti rispetto alla aggravante speciale più grave, una "degradazione", che ne alteri la natura, trasformandola in quella di aggravanti comuni e così vanificando le ragioni stesse della loro genetica previsione e della loro sussistenza.
6. Tale fondamento sarebbe venuto meno o posto in discussione, ad avviso della difesa del ricorrente (e come, in termini dubitativi, ipotizzato dalla Sezione rimettente), alla luce della più recente decisione con cui le Sezioni Unite (Sez. U, n. 20798 del 24/02/2011, Indelicato, Rv. 249664) hanno statuito, il seguente principio di diritto: "La recidiva, che può determinare un aumento di pena superiore ad un terzo, è una circostanza aggravante ad effetto speciale e pertanto soggiace, ove ricorrano altre circostanze aggravanti ad effetto speciale, alla regola dell'applicazione della pena stabilita per la circostanza più grave, con possibilità per il giudice di un ulteriore aumento", conformemente a quanto previsto dall'art. 63, quarto comma, cod. pen.
6.1. Investite dal quesito sulla individuazione della natura della recidiva, diversa da quella semplice (art. 99, primo comma, cod. pen.), implicante un aumento di pena superiore ad un terzo, nella configurazione di cui ai commi secondo, terzo, quarto e quinto dell'art. 99 cod. pen., quale circostanza aggravante ad effetto speciale ovvero quale circostanza inerente alla persona del colpevole ex art. 70, secondo comma, cod. pen., tale in questo secondo caso da determinare comunque un aumento della pena pur in presenza di una o più circostanze aggravanti ad effetto speciale, le Sezioni Unite hanno risolto il contrasto formatosi in seno alle sezioni semplici della Corte, privilegiando l'indirizzo interpretativo che ravvisa nelle indicate quattro ipotesi di recidiva altrettante circostanze aggravanti ad effetto speciale (integrando in tali casi la recidiva una «circostanza pertinente al reato», che richiede l'accertamento di un rapporto qualificato tra lo status di recidivo dell'agente e il suo specifico contegno delittuoso; rapporto che si renda in concreto sintomatico di più elevati livelli della colpevolezza dell'agente e della sua pericolosità sociale). In questa prospettiva le Sezioni Unite, ai fini della definizione del trattamento punitivo, che rappresentava specifico oggetto del ricorso rimesso al loro vaglio, hanno ritenuto applicabile, nell'ipotesi di concorso della recidiva qualificata con altra o altre aggravanti ad effetto speciale, il criterio di calcolo del cumulo giuridico dettato dall'art. 63, quarto comma, cod. pen.
Il passaggio della decisione Sez. U Indelicato potenzialmente rilevante per la soluzione della questione di diritto sottoposta all'odierno collegio è integrato dal duplice assunto secondo il quale: per un verso, allorché il giudice di merito individui la pena ex art. 63, quarto comma, cod. pen. tenendo conto della circostanza speciale "più grave" ed eventualmente applicando un aumento di pena non superiore ad un terzo per le ulteriori aggravanti speciali globalmente apprezzate, l'ulteriore o le ulteriori aggravanti ad effetto speciale restano «assorbite» nell'omologa aggravante più grave; per altro e congiunto verso in questo caso la circostanza aggravante soccombente, che consente al giudice, nella sua discrezionalità sanzionatoria ("può"), di applicare un ulteriore aumento di pena, «si trasforma da circostanza ad effetto speciale in circostanza facoltativa comune», non avendo il legislatore predefinito l'entità della variazione di pena che il giudice può apportare.
6.2. Pur non obliterandosi che l'intervento delle Sezioni Unite del 2011 ha riguardato la problematica della determinazione della pena nel corso del giudizio di merito e non i profili afferenti all'incidente cautelare (peculiare oggetto della decisione Sez. U Vitrano del 1998), palesi si delineano le possibili incidenze delle argomentazioni della sentenza Indelicato sul piano della determinazione della pena a fini cautelari ex art. 278 cod. proc. pen. Ciò segnatamente quando si osservi che la qualifica di circostanza comune assegnata - per "trasformazione" endoprocessuale - alla circostanza aggravante ad effetto speciale recessiva o "soccombente" indurrebbe ad espungere la stessa dal computo della pena per motivi cautelari, escludendo espressamente l'art. 278 cod. proc. pen. la rilevanza a tal fine delle circostanze aggravanti c.d. comuni (implicanti aumenti di pena non superiori ad un terzo). Ne discende, quindi, che la sentenza Indelicato pone il problema della verifica della eventuale implicita, ma gravida di conseguenze sul piano cautelare, reviviscenza della tesi avanzata dall'orientamento minoritario espresso con l'isolata sentenza Nicastro del 1996 (inapprezzabilità a fini cautelari dell'aggravante speciale soccombente, degradata ad aggravante comune), pur motivatamente criticato dalla decisione Sez. U Vitrano del 1998.
7. E' convinzione del Collegio, come anticipato, che i principi fissati dalla sentenza Vitrano delle Sezioni Unite del 1998 in tema di determinazione della pena per fini applicativi di una misura cautelare personale inframurale per tutta la fase processuale ante iudicium (nei suoi due segmenti delle indagini preliminari e del giudizio di primo grado fino alla sentenza di merito che lo concluda) vadano mantenuti fermi e ribaditi. In base al rilievo che non possono ragionevolmente riconoscersi, per palesi ragioni logiche, concettuali e sistematiche, alle statuizioni enunciate dalla più recente decisione Indelicato delle Sezioni Unite del 2011 valenze analogiche od estensive dell'individuata disciplina applicativa in punto di pena concreta da infliggere al colpevole per le ipotesi di concorso di contestate (e ovviamente ritenute dal giudice di merito) aggravanti ad effetto speciale. Sì da farla assurgere a regola generale incidente anche sulla determinazione della pena agli effetti della applicazione di misure cautelari ex art. 278 cod. proc. pen. Conclusioni reiettive, dunque, della tesi prospettata con il ricorso oggetto di esame, cui queste Sezioni Unite giudicano di dover pervenire attraverso una concatenata serie di argomenti.
8. Innanzitutto è ben significativo che la stessa sentenza Indelicato mantenga un assoluto silenzio sulla questione delle plausibili ricadute del criterio di calcolo operativo per il "cumulo giuridico" degli incrementi sanzionatori di cui all'art. 63, quarto comma, cod. pen. (facoltatività per il giudice di merito, ferma la possibile pregiudiziale applicazione di criteri di bilanciamento degli elementi circostanziali del reato ex art. 69 cod. pen., di apportare un aumento di pena non superiore ad un terzo per le aggravanti speciali meno gravi o soccombenti) anche nella dinamica funzionale dell'incidente o subprocedimento cautelare. Il dato assume un peso particolare soprattutto quando si consideri la stabilità del pluriennale uniforme orientamento di legittimità sul tema del calcolo della pena a fini cautelari formatosi dopo la sentenza Sez. U Vitrano del 1998 ("obbligatorietà" dell'aumento ex art. 63, quarto comma, cod. pen.). Orientamento che si suppone, con il ricorso del ****, radicalmente sovvertito dalla sentenza Indelicato.
Il vero è che su tale indirizzo la sentenza Indelicato non ha inteso in alcun modo interferire, avendo posto al centro della propria analisi unicamente la questione, in rapporto alla natura sostanziale dell'art. 63, quarto comma, cod. pen., del percorso di precisazione del trattamento punitivo da applicarsi in concreto nel giudizio di cognizione di merito della regiudicanda all'imputato ritenuto colpevole per reati qualificati da una pluralità di omogenee aggravanti ad effetto speciale. Come ricordato, la questione di diritto affrontata dalle Sezioni Unite con la sentenza Indelicato ha investito la definizione della natura giuridica della recidiva diversa da quella c.d. semplice, che è stata per l'appunto qualificata come una circostanza aggravante ad effetto speciale e non come una aggravante soggettiva (anch'essa speciale per le inferenze quantitative fissate dall'art. 63, terzo comma, cod. pen.) inerente alla persona del colpevole (art. 70 cod. pen.).
Tale essendo stato l'oggetto della questione affrontata dalla sentenza Indelicato (natura giuridica della recidiva qualificata di cui ai commi secondo, terzo e quarto dell'art. 99 cod. pen.), è agevole - d'altra parte - rilevare che le Sezioni Unite neppure avrebbero avuto ragione di farsi carico delle possibili incidenze della decisione Indelicato sui criteri di calcolo della pena edittale massima «stabilita dalla legge» a fini cautelari (come recita l'art. 278 cod. proc. pen. e come non manca di sottolineare la sentenza Sez. U Vitrano del 1998) e, quindi, di un possibile superamento della risalente impostazione ermeneutica fatta propria dalla sentenza Vitrano, quando si rilevi che la recidiva (quale che ne sia la natura; e quali che ne siano gli effetti: recidiva semplice, casi di recidiva qualificata) è espressamente esclusa dall'art. 278 cod. proc. pen. dal novero degli elementi accessori del reato («non si tiene conto [...] della recidiva») rilevanti per definire l'entità della pena funzionale all'applicazione di una misura cautelare. La sentenza Indelicato ha necessariamente circoscritto il proprio ambito di indagine al solo aspetto sostanziale della misura della pena applicabile in sede di giudizio. Ad un profilo, cioè, cui rimane affatto estranea la tematica, tutta processuale (recte metaprocessuale), del quantum di pena legittimante l'emissione di una misura cautelare, con le connesse implicazioni nel delimitare i termini massimi della custodia di fase ex art. 303 cod. proc. pen., negli stadi processuali antecedenti all'eventuale pronuncia di condanna di primo grado (per le fasi processuali seguenti l'art. 303 cod. proc. pen. valorizza l'entità della pena in concreto inflitta all'imputato e, per ciò stesso, il reato "ritenuto" in sentenza).
9. Nemmeno, in secondo luogo, può ignorarsi che, pur dopo la sentenza Indelicato del 2011, nessuna decisione di legittimità ha ritenuto di sollevare il problema della eventuale rilettura o reinterpretazione dell'indirizzo tracciato dalla sentenza Sez. U Vitrano sul modulo di individuazione della pena per fini cautelari in presenza di più aggravanti ad effetto speciale nei termini prospettici prefigurati dall'odierno ricorso del ****. Opportunamente l'ordinanza di rimessione, nel richiamare la "costante" giurisprudenza di legittimità che reputa computabili per i fini di cui all'art. 278 cod. proc. "tutte" le circostanze aggravanti speciali (nei limiti legali del cumulo giuridico ex art. 63, quarto comma, cod. pen.), dovendo valutarsi ai ridetti fini cautelari «il concorso delle aggravanti [speciali, ndr] secondo un criterio concettuale e non formale», segnala come la medesima impostazione ermeneutica sia stata riaffermata con una recente sentenza della stessa sezione rimettente. Sentenza (Sez. 2, n. 31065 del 10/05/2012, Lo Bianco, Rv. 253525) che, pur intervenendo sul diverso profilo del calcolo dei termini di prescrizione ex art. 157, comma 2, cod. pen., h eloquentemente specificato che, in caso di concorso di aggravanti ad effetto speciale, deve aversi riguardo all'aumento di pena massimo previsto dall'art. 63, quarto comma, cod. pen. per il concorso di aggravanti ad effetto speciale. Non è casuale che in motivazione la sentenza ponga l'accento («salvo il necessario coordinamento con la previsione dell'art. 63, quarto comma, cod. pen., nel senso della limitazione dell'aumento di pena») sulla «autonomia della disciplina della prescrizione», rispetto alla quale non può attribuirsi rilievo alla "facoltatività", rimessa al discrezionale vaglio del giudice di merito (che ritenga ovviamente la sussistenza delle aggravanti speciali contestate), dell'ulteriore aumento di pena, dopo aver applicato quella per la circostanza più grave o, in caso di pari gravità, quella per la circostanza selezionata) per l'altra o le altre circostanze ad effetto speciale, come prescrive l'art. 63, quarto comma, cod. pen.
Le analogie o affinità concettuali esistenti, sul piano sistematico, sulla nozione identificativa della pena edittale massima rilevante a fini cautelari e a fini di prescrizione, con particolare riguardo al meccanismo di computo delle aggravanti ad effetto speciale, non sono estemporanee e non possono ignorarsi, allorché si rifletta sulla permeabilità dei due pur diversi istituti rispettivamente disciplinati dagli artt. 278 cod. proc. pen. e 157, secondo comma, cod. pen. Da un lato non vanno sottaciute le palesi omologie lessicali delle due disposizioni, che si richiamano entrambe alla «pena stabilita dalla legge», in luogo della pena "applicabile" (e in concreto applicata dal giudice di merito) evocata dall'art. 63, quarto comma, cod. pen. (cfr. sul punto sentenza Sez. U Vitrano). Da un altro lato palese è la preliminare riconducibilità di entrambe le norme ad una fase genetica del procedimento penale, suscettibile di trasformarsi nelle loro rispettive implicazioni referenziali soltanto all'esito del giudizio di merito (per le misure cautelari quanto meno dopo la sentenza di primo grado), ed al riferimento alla pena in astratto comminata dal legislatore per il reato contestato nelle sue componenti costitutive e circostanziali. Omologie ancor più pertinenti dopo la riforma, ad opera della legge 5 dicembre 2005, n. 51, della disciplina della prescrizione e segnatamente della espressa esclusione della rilevanza, per individuare i termini di prescrizione del reato, dei criteri di bilanciamento delle circostanze previsti dall'art. 69 cod. pen. (rilevanza invece riconosciuta dall'art. 157, secondo comma, cod. pen. nel testo previgente). Disposizione, questa, elettivamente destinata a trovare applicazione nel giudizio di merito.
Le assonanze e sovrapposizioni tra pena funzionale alla prescrizione e pena funzionale all'adozione di misure cautelari sono, del resto, sancite dalla stessa giurisprudenza di legittimità. L'appena menzionata sentenza Sez. 2, Lo Bianco, del 2012 cita, a sostegno dell'esposta tesi (obbligatorietà dell'aumento di pena ex art. 63, quarto comma, cod. pen., per le circostanze aggravanti speciali soccombenti), la sentenza Sez. 4, n. 27748 del 10/05/2007, Fazio, Rv. 236834, che aveva già affermato il ridetto principio sull'obbligatorio computo (ai fini della prescrizione) dell'aumento di pena per le aggravanti speciali recessive. Ed è indicativo il dato per cui tale sentenza Fazio menzioni, a sua volta, la risalente sentenza Sez. 1, n. 3433 del 20/05/1996, Celona, Rv. 205307, che si è espressa sui termini di durata massima di custodia cautelare, inscrivendosi nell'indirizzo di legittimità condiviso e definitivamente affermato dalle Sezioni Unite con la decisione Vitrano del 1998 (sentenza Celona: «devesi tener conto di tutte le eventuali circostanze ad effetto speciale, e non soltanto della più grave di esse, valutando i relativi aumenti di pena secondo la regola fissata dall'art. 63, quarto comma, cod. pen., e cioè determinando la pena edittale derivante dall'applicazione della circostanza più grave e aggiungendo quindi l'aumento complessivo di un terzo per tutte le altre circostanze meno gravi o di pari gravità, globalmente considerate»).
Né, ancora, può ignorarsi che la citata decisione Lo Bianco del 2012, pur successiva alla sentenza Sez. U Indelicato, rimarca esplicitamente il "consolidarsi" dell'indirizzo per cui le circostanze aggravanti ad effetto speciale «mantengono tale loro natura», anche se, concorrendo con altra o altre analoghe circostanze speciali, non possono comportare un aumento di pena superiore ad un terzo a norma dell'art. 63, quarto comma, cod. pen.; notazione suffragata dal puntuale richiamo proprio alla sentenza Sez. U Vitrano del 1998 e ad una delle più incisive, tra le molte, delle successive conformi decisioni (Sez. 1, n. 19841 del 31/03/2005, Panaro, Rv. 233262), con cui si riafferma l'assunto che, per stabilire i termini di durata massima della custodia cautelare, ove concorrano più circostanze aggravanti ad effetto speciale, si deve tener conto, ai sensi dell'art. 63, quarto comma, cod. pen., della pena stabilita per la circostanza più grave e dell'aumento complessivo di un terzo per tutte le altre circostanze globalmente considerate, «le quali mantengono peraltro la natura di circostanze ad effetto speciale».
Né, infine, va trascurato che alla sentenza Lo Bianco (menzionata dall'ordinanza di rimessione dell'odierno ricorso ****) si sovrappongono, nella medesima linea interpretativa, almeno altre due decisioni di questa Corte concernenti i criteri determinativi del tempo necessario a prescrivere, ma caratterizzate anch'esse da diretti o indiretti riferimenti alle omologhe decisioni in tema di calcolo della pena a fini cautelari e dei corrispondenti termini di fase (Sez. 2, n. 47028 del 03/10/2013, Farinella, Rv. 257520; Sez. 2, n. 32656 del 15/07/2014, Bovio, Rv. 259833).
Di tal che deve fondatamente escludersi che le indicate decisioni di legittimità posteriori alla sentenza Sez. U Indelicato siano incorse inconsapevoli contrasti ermeneutici con i principi da quest'ultima fissati nel 2011.
Per la semplice ragione, anche alla luce di quanto fin qui chiarito, della indiscutibile separatezza e autonomia dei criteri di calcolo della pena per finalità cautelari (e, nei limiti segnalati, per fini di prescrizione del reato) e dei criteri di computo della pena nel giudizio di merito, non potendo questi ultimi, come ricomposti dalla sentenza Sez. U Indelicato, condurre ad una sostanziale vanificazione delle circostanze aggravanti ad effetto speciale soccombenti che pure scandiscono, nella fase cautelare e del corso del giudizio di primo grado, il reato ascritto all'indagato o imputato e ne costituiscono irrefutabile indice di maggiore offensività.
10. In proposito è necessario chiarire il significato del concetto, più volte evocato non senza enfasi dalla difesa del ricorrente, di «trasformazione» della circostanza aggravante ad effetto speciale concorrente con altra più grave in «circostanza facoltativa comune» per effetto dell'applicazione del "cumulo giuridico" di pene regolato dall'art. 63, quarto comma, cod. pen.; concetto messo a punto dalla sentenza Sez. U Indelicato. In nessun passaggio di detta decisione, in vero, si afferma che siffatta trasformazione produrrebbe un mutamento della natura giuridica della aggravante speciale soccombente. Nel quadro prospettico della questione di diritto sottoposta al loro esame, focalizzato sui principi informatori della determinazione della pena concreta da infliggersi all'esito del giudizio di merito per un reato scandito da aggravanti ad effetto speciale concorrenti, le Sezioni Unite del 2011 hanno unicamente individuato gli effetti sanzionatori (eventuali, siccome rimessi al discrezionale apprezzamento del decidente ex art. 63, quarto comma, cod. pen.: «il giudice può aumentare la pena», al pari specularmente della facoltativa diminuzione della pena per il caso di concorrenti attenuanti ad effetto speciale) del "limite legale" dell'incremento di sanzione consentito dalla norma sostanziale. Senza che tali effetti producano, per impropria eterogenesi dei fini, un mutamento della struttura ontologica dell'aggravante speciale soccombente e del fondamento (più elevato indice di offensività del fatto circostanziato) che ne ha ispirato la previsione normativa a possibile corredo dell'assonometria di una determinata fattispecie incriminatrice. In altre parole la sentenza Indelicato non fa che sottolineare con efficace immagine plastica ("trasformazione") i soli effetti applicativi quoad poenam dell'aggravante speciale meno grave, cioè della sua incidenza nel processo di determinazione e calcolo della pena inflitta ("applicata"), senza che ciò produca una postuma modificazione della genetica specificità strutturale della circostanza aggravante speciale meno grave.
Diversamente ragionando, dovrebbe giungersi - come è stato evidenziato dalla sentenza Sez. U Vitrano del 1998 sulla individuazione della pena a'fini cautelari - alla irragionevole se non paradossale conclusione che una circostanza aggravante ad effetto speciale (e lo stesso dovrebbe arguirsi per una omologa attenuante ad effetto speciale) finirebbe per rivestire una singolare duplice natura: di aggravante ad effetto speciale, se contestata da sola; di denaturata o "degradata" aggravante comune, se contestata unitamente ad altra aggravante ad effetto speciale più grave (sent. Sez. U Vitrano: «ogni circostanza [aggravante ad effetto speciale] mantiene la sua natura, perché è irragionevole ritenere che la muti a seconda della sua collocazione nell'ordine di gravità delle circostanze che concorrono [...] la natura della circostanza è sempre la stessa e perché ciò sia evidente è sufficiente considerare che i dati normativi sostanziali, sia costitutivi di reato sia di circostanze, rilevano sempre in due momenti, quello "edittale" in cui si considera a certi effetti la pena stabilita in modo vincolato dalla legge e quello "giudiziale" in cui quella stessa pena è valutata nella sua discrezionale applicazione da parte del giudice»). D'altro canto, come puntualmente affermato anche dalla dottrina adesiva all'opzione ermeneutica sviluppata dalla sentenza Sez. U Vitrano, la "doppia valenza" (o c.d. natura ancipite) riconoscibile alla circostanza aggravante speciale soccombente (facoltatività nella dosimetria della pena nel giudizio di merito; rilevanza obbligatoria, nella misura legale di cui all'art. 63, quarto comma, cod. pen., per l'adozione di misure cautelari personali con connessa selezione dei termini massimi della custodia cautelare) non vale ad alterare le già indicate connotazioni strutturali dell'aggravante speciale, quali oggettive manifestazioni sintomatiche dell'indice di maggiore gravità del reato cui essa aggravante comunque acceda. Aggravante ad effetto speciale sulla cui autonomia referenziale non può influire, declassandola ad aggravante comune, la peculiare disciplina dettata dall'art. 63, quarto comma, cod. pen., incidente sul solo sistema di calcolo destinato, per fictio iuris (cumulo giuridico delle sanzioni additive per le aggravanti speciali) ispirata dal principio del favor rei, alla tecnica di aumento della pena (in luogo del cumulo materiale degli incrementi sanzionatori).
E' perfino superfluo rilevare, del resto, che i termini di durata massima della custodia cautelare sono calibrati (art. 303 cod. proc. pen.) sulla oggettiva gravità del reato, desunta dall'entità quantitativa della sanzione prevista ("stabilita") in astratto dal legislatore per le fasi delle indagini preliminari e del giudizio di primo grado fino alla pronuncia della sentenza di condanna di primo grado ovvero in concreto "applicata" dal giudice di merito per le fasi processuali successive.
Precisato che la sentenza di legittimità successiva alla decisione S.U. Indelicato richiamata nel ricorso (Sez. 2, n. 5911 del 22/11/2012, dep. 2013, Bonaccorsi, Rv. 254527) applica i principi statuiti dalle Sezioni Unite soltanto per ciò che attiene alla determinazione della pena, mette conto osservare, tra l'altro, per mera completezza del quadro espositivo, che l'assunto interpretativo espresso con la sentenza Sez. U Vitrano ha rinvenuto una indiretta postuma legittimazione normativa.
Traendo verosimilmente spunto, oltre che ovviamente dagli esiti valutativi della decisione delle Sezioni Unite, da un inciso esemplificativo contenuto nella parte motiva in punto di nozione di pena "stabilita" dalla legge riferibile anche alla «competenza per materia quantitativa (artt. 4, 5, 7 cod. proc. pen.)», il legislatore ha ritenuto di intervenire per precisare il perimetro della cognizione della corte di assise, modificando il testo dell'art. 5 cod. proc. pen. ed escludendo dal novero dei reati rimessi alla competenza della corte di assise (reati per i quali la legge "stabilisce" la pena dell'ergastolo o della reclusione non inferiore nel massimo a ventiquattro anni) i reati di tentato omicidio, di rapina e di estorsione «comunque aggravati» e il reato di sequestro di persona a scopo estorsivo di cui all'art. 630, primo comma, cod. pen. (decreto-legge 22 febbraio 1999, n. 29, convertito, con modificazioni, dalla legge 21 aprile 1999, n. 109). Reati, cioè, che sarebbero ricaduti nella competenza della corte di assise, sovraccaricandola, proprio alla stregua di un'eventuale estensione interpretativa del criterio di determinazione della pena postulato, sebbene per soli fini cautelari, dalla sentenza Vitrano. Alla stregua, vale a dire, di un canone giurisprudenziale stimato dal legislatore quale espressione di "diritto vivente" (come si precisa nel preambolo del decreto-legge, una delle finalità della novella normativa è individuata appunto nell'esigenza di «prevenire le difficoltà pratiche conseguenti ai più recenti indirizzi giurisprudenziali in tema di determinazione edittale nel caso di concorso di circostanze aggravanti ad effetto speciale»).
11. Traendo, quindi, le conclusioni della presente analisi ermeneutica debbono confermarsi le statuizioni già espresse dalla sentenza della Sezioni Unite n. 16 del 08/04/1998, Vitrano, enunciandosi, ai sensi dell'art. 618 cod. proc. pen., il seguente principio di diritto:
"Ai fini della determinazione della pena agli effetti dell'applicazione di una misura cautelare personale e segnatamente della individuazione dei corrispondenti termini di durata massima delle fasi processuali precedenti la sentenza di merito di primo grado, deve tenersi conto, nel caso di concorso di più circostanze aggravanti ad effetto speciale, oltre che della pena stabilita dalla legge per la circostanza più grave, anche dell'uiteriore aumento complessivo di un terzo, ai sensi dell'art. 63, quarto comma, cod. pen., per le ulteriori omologhi aggravanti meno gravi".
12. All'indicata doppia valenza delle aggravanti ad effetto speciale recessive (genetica adozione di una misura coercitiva; concreta applicazione della pena) non possono far velo i rilievi con cui nel ricorso si critica l'indirizzo esegetico enunciato dalla sentenza Vitrano, che il Collegio ritiene di dover ribadire, perché confliggerebbe con il principio del favor liberatis discendente dall'art. 13 della Carta fondamentale a più riprese valorizzato dalla Corte costituzionale (sentenze, tra le molte, nn. 64/1970, 299/2005, 265/2010: canone del «minor sacrificio possibile della libertà personale») e con i principi europei di legalità e di «ragionevole durata della custodia cautelare» secondo la costante interpretazione offertane dalla Corte EDU (artt. 5, par. 3, 7 CEDU). Con l'effetto che la corretta interpretazione del combinato disposto degli artt. 275, 278 e 303 cod. proc. pen. non può che ispirarsi ad una uniforme valutazione della pena rilevante per il calcolo della durata della custodia cautelare ai medesimi criteri che guidano il giudice nell'irrogazione della pena in caso di condanna.
Le censure non colgono nel segno poiché non scalfiscono la coerenza logica e la ragionevolezza della esposta divaricazione valutativa tra entità della pena per il reato contestato con una misura cautelare ed entità della pena applicabile all'esito del giudizio di merito.
Non vi è dubbio che l'indicata autonomia e specificità dell'incidente cautelare non equivale a separatezza della subprocedura cautelare rispetto al complessivo procedimento in cui essa si inscrive. Ma l'apparente asimmetrica valutazione della pena trova la propria intrinseca logicità e giustificazione giuridica sol che si osservi che siffatta valutazione si inscrive nella generale dinamica sequenziale del subprocedimento cautelare. Nel senso che, nella ritenuta configurabilità di una prognosi di colpevolezza ex art. 273, comma 1, cod. proc. pen. dell'indagato e del giudicabile non ancora raggiunto dalla sentenza di condanna di primo grado (prognosi che costituisce presupposto applicativo di ogni misura cautelare), la gravità e pericolosità del reato contestato (id est la formazione del titolo cautelare) non può non essere apprezzata, se non valorizzando tutte le componenti costitutive e circostanziali del reato e in modo particolare, ove prefigurate in più di una, delle circostanze aggravanti ad effetto speciale, connotate, proprio in quanto tali, da un coefficiente rappresentativo di maggiore e più allarmante offensività sociale.
Né può diversamente ricomporsi la ratio legis sottesa all'art. 278 cod. proc.pen., quando si rilevi che la disposizione richiede (per effetto della novella introdotta dalla legge 26 marzo 2001, n. 128) di tener conto a fini cautelari anche della particolare aggravante prevista dall'art. 61, n. 5, cod. pen. (circostanza comune o ad effetto ordinario). Laddove, sul piano della concreta adozione della misura cautelare (e della sua persistenza), la descritta determinazione della pena nel suo massimo edittale (imputazione cautelare) rinviene idoneo temperamento, sotto l'egida del favor libertatis, attraverso i complementari canoni normativi, regolanti l'applicazione di ogni misura restrittiva (e la sua "individualizzazione", come puntualizza il Giudice delle leggi con la sentenza n. 265 del 2010, facendo rinvio alla precedente sentenza n. 299 del 2005), della specificità e inderogabilità delle esigenze cautelari e altresì della adeguatezza, proporzionalità e "minor sacrificio necessario" della applicanda misura cautelare ai sensi degli artt. 274 e 275 cod. proc. pen. Canoni o componenti, cioè, in sé estranei alla imputazione o titolo cautelare, che investono il "fatto" di reato nella sua specificità fenomenica, espressa anche dal tempo trascorso dalla commissione del reato e dal vaglio degli eventuali elementi favorevoli al soggetto indagato o imputato (art. 292 cod. proc. pen.).
Nessuna elusione del principio costituzionale del favor libertatis (art. 13 Cost.) è, dunque, ravvisabile nella soluzione ermeneutica dianzi esposta, non essendo consentito confondere concettualmente la natura o struttura ontologica di una aggravante speciale con i semplici effetti di calcolo della stessa (cumulo giuridico ex art. 63, quarto comma, cod. pen.) in sede di concreta determinazione della pena nel giudizio di merito, facendo a posteriori riverberare gli effetti applicativi della pena nel giudizio che si concluda con una condanna sulla natura dell'elemento circostanziale speciale che intrinsecamente aggrava, nella diacronica fluidità conoscitiva propria della fase delle indagini preliminari (fino all'esaurirsi del giudizio di merito di primo grado), il reato contestato ed assume, per ciò stesso, rilievo per il calcolo della pena finalizzato all'applicazione di una misura cautelare personale. Calcolo che l'art. 278 cod. proc. pen. logicamente connette alla pena edittale massima stabilita dalla legge per ciascun reato contestato integrante la regiudicanda cautelare.
13. Sulla base del principio di diritto appena enunciato, che impone - in caso di contestazione di più circostanze aggravanti ad effetto speciale - di tener conto, per stabilire la pena ai fini della custodia cautelare e dei connessi termini di fase, delle aggravanti meno gravi in quanto determinanti un aumento di pena nei limiti di cui all'art. 63, quarto comma, cod. pen., il calcolo della pena elaborato al ridetto fine dal Tribunale distrettuale di Catanzaro nel procedimento cautelare riguardante il ricorrente **** deve valutarsi corretto.
La circostanza aggravante più grave, rappresentata dall'essere stata l'azione criminosa compiuta da più persone riunite (art. 628, terzo comma, n. 1, cod. pen.), consente di individuare una pena edittale massima non inferiore a venti anni di reclusione; tale pena va incrementata in misura di un terzo ai sensi- dell'art. 63, quarto comma, cod. pen. in virtù dell'ulteriore contestata aggravante della natura mafiosa della condotta illecita ex art. 7 d.l. n. 152 del 1991. Ne discende che la pena "stabilita" dalla legge per il reato di estorsione ascritto al ricorrente risulta largamente superiore nel massimo a venti anni, definendo in tal modo in misura di un anno e sei mesi il termine di custodia cautelare per la fase del giudizio di primo grado fino all'emissione della prima sentenza di condanna (art. 303, comma 1, lett. b, n. 3, cod. proc. pen.). Termine che si estende di altri sei mesi, raggiungendo il limite massimo di due anni, in virtù del disposto dell'art. 303, comma 1, lett. b, n. 3-bis, cod. proc. pen., atteso che il reato di estorsione pluriaggravata contestato al **** è compreso tra i reati di particolare gravità elencati dall'art. 407, comma 2, lett. a, cod. proc. pen.
Rettamente, quindi, i giudici dell'appello cautelare hanno individuato in due anni il termine di fase (giudizio di primo grado precedente la sentenza) della custodia cautelare inframurale applicata a **** ****.
Per l'effetto l'impugnazione del ****, che deduce infondatamente l'illegittimità del descritto computo della pena ex art. 278 cod. proc. pen., deve essere rigettata con conseguente condanna del ricorrente alla rifusione delle spese processuali.

                                                                      P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 27/11/2014.