Le Sezioni Unite hanno affermato che in ipotesi di assoluzione perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato, sussiste l’interesse dell’imputato ad impugnare con ricorso per cassazione la statuizione concernente l’ordine di trasmissione degli atti all’autorità amministrativa. Ha, peraltro, precisato che tale ultimo ordine non va disposto laddove la normativa depenalizzatrice non contenga disposizioni transitorie analoghe a quelle di cui agli artt. 40 e 41 della legge n. 689 del 1981. 


RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di appello di Genova, con sentenza del 17 novembre 2010, ha riformato la sentenza del 22 gennaio 2007 con la quale il Tribunale di Genova aveva affermato la responsabilità penale di Rudle Adrien Jules Campagne in ordine al delitto tentato di vendita di prodotti industriali con segni mendaci di cui agli artt. 56 e 517 cod. pen., in relazione all'art. 4 della legge 24 dicembre 2003, n. 350, perché, quale legale rappresentante pro tempore della "Vittoria" s.p.a. con sede in Madone (BG), importando da Taiwan n. 20 cartoni di nastro paranippies ad alta pressione per ciclismo, per un totale di 100 scatole da 2 pezzi sulle quali era stampigliata la dicitura "Vittoria S.p.a. Via Papa Giovanni XXIII-1, 24040 Madone (BG) Italy", compiva atti idonei diretti in modo non equivoco a porre in vendita o comunque in circolazione prodotti con nomi, marchi o segni distintivi nazionali atti ad indurre in inganno il compratore sul l'origine e sulla provenienza della merce (reato contestato come commesso in Genova, area doganale, il 26 gennaio 2006).
La Corte territoriale in particolare - riconoscendo come provati i fatti oggetto di accertamento da parte del primo giudice - ha ritenuto che gli stessi fossero riconducibili alla fattispecie attualmente configurata dall’art. 4, comma 49-bis, legge n. 350 del 2003 (introdotto dall’art. 16, comma 5, d.l. n. 135 del 2009, convertito con modificazioni dalla legge n. 166 del 2009) e sanzionata solo amministrativamente.
Ha applicato, quindi, all'imputato tale disposizione, perché più favorevole ex art. 2, comma quarto, cod. pen., e lo ha assolto con la formula "perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato", ordinando, nel contempo, la trasmissione degli atti all'autorità doganale per l'ulteriore corso in via amministrativa.
In data 17 gennaio 2011 la cancelleria della Corte di appello ha trasmesso all'Agenzia delle Dogane di Genova copia degli atti per l'irrogazione della sanzione amministrativa.
2. Avverso la suddetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell'imputato e ne ha chiesto l'annullamento per vizi di legittimità e per carenza assoluta di motivazione, facendo precedere la formulazione dei motivi di gravame da una premessa rivolta a prospettare la sussistenza dell'interesse a ricorrere del proprio assistito in relazione al capo della decisione con cui è stata disposta la trasmissione degli atti all'autorità amministrativa ai fini dell'irrogazione della sanzione pecuniaria applicabile al fatto depenalizzato.
Evidenzia al riguardo il difensore come rappresenti un principio giurisprudenziale consolidato quello secondo il quale la valutazione circa la sussistenza dell'interesse ad impugnare deve essere effettuata tenendo conto degli effetti primari e diretti dell'atto da impugnare ed è presente qualora il gravame sia idoneo ad eliminare una decisione pregiudizievole, determinando per l’impugnante una situazione pratica più vantaggiosa di quella esistente. Cita, a tal fine, una nutrita serie di decisioni della giurisprudenza di legittimità, le quali hanno affermato che la valutazione dell'esistenza dell'interesse ad impugnare deve avvenire avendo riguardo al complesso delle situazioni soggettive facenti capo al ricorrente e che occorre considerare, quindi, anche gli eventuali effetti giuridici extrapenali, stante il principio di unitarietà dell'ordinamento giuridico.
In relazione specifica, poi, alla sussistenza dell'interesse dell'imputato ex art. 568, comma 4, cod. proc. pen. - nell’ipotesi di assoluzione perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato - ad impugnare con ricorso per cassazione la statuizione concernente l’ordine di trasmissione all'autorità amministrativa per l’applicazione delle sanzioni in ordine all'illecito depenalizzato, richiama una decisione della Corte di cassazione (Sez. 5, n. 21064 del 05/03/2004, De Mattei), ove tale interesse è stato configurato «in quanto l’avvio dell’accertamento, da parte della competente autorità, circa la configurabilità di una violazione amministrativa nel fatto estromesso dall’area della illiceità penale, integra ex se un pregiudizio prodotto dall’effetto gravato, per la concreta possibilità che l'accertamento si traduca nell'applicazione delle sanzioni, una volta che il giudice penale, trasmettendo gli atti, abbia espresso un giudizio di applicabilità delle medesime», facendosene conseguire, dunque, «sia l'idoneità del provvedimento a produrre l'effetto pregiudizievole, sia la possibilità di un vantaggio connesso alla rimozione del provvedimento medesimo».
3. Dopo avere prospettato con le argomentazioni anzidette l'interesse al conseguimento di una decisione più favorevole, il difensore eccepisce in ricorso:
a) Violazione di legge per inosservanza del combinato disposto degli artt. 547 e 130 cod. proc. pen., in relazione alla difformità tra il dispositivo pronunciato in udienza e quello trascritto nella sentenza impugnata ed errore di diritto ex art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., in relazione all'art. 295-bis d.P.R. n. 43 del 1973.
La doglianza viene specificata nel senso che nel dispositivo della Corte di appello di cui è stata data lettura in udienza si legge: «visto l'art. 295-bis d.P.R. 43/1973 dispone la trasmissione degli atti all'autorità doganale perché proceda in ordine all'illecito amministrativo». Nel dispositivo trascritto nella sentenza impugnata si legge invece: «dispone la trasmissione degli atti all'autorità doganale perché proceda in ordine all'illecito amministrativo».
È stato omesso dunque, nella sentenza, ogni riferimento normativo che giustifichi la trasmissione degli atti all'autorità doganale.
Il dispositivo letto in udienza, però, acquista rilevanza esterna prima della motivazione ed indipendentemente da essa e non può essere modificato con la motivazione con la conseguenza che, in caso di difformità, il primo prevale sulla seconda.
Con riferimento al dispositivo letto in udienza, pertanto, il difensore prospetta che il richiamo all'art. 295-bis d.P.R. n. 43 del 1973 è del tutto privo di pertinenza, atteso che quella norma disciplina la diversa ipotesi di sanzioni amministrative per le violazioni di lieve entità, che nulla hanno a che fare con i profili attinenti alla depenalizzazione della condotta. Nel d.P.R. n. 43 del 1973, in particolare, non si rinviene alcuna disposizione che disciplini l'ipotesi attualmente in esame, e, dunque, il richiamo all'art. 295-bis neppure potrebbe intendersi quale mero errore materiale emendabile con la procedura di cui all'art. 130 cod. proc. pen.
Da ciò si fa discendere la nullità della sentenza impugnata.
b) Violazione del principio generale di irretroattività delle sanzioni amministrative dettato dall'art. 1 della legge 24 novembre 1981, n. 689.
Viene prospettato nel ricorso (con richiami ad alcune decisioni di questa Corte Suprema) che, ove il legislatore avesse voluto derogare al predetto principio, lo avrebbe fatto espressamente, prevedendo una disciplina transitoria in forza della quale alla depenalizzazione della condotta in questione sarebbe stata sostituita, anche per il passato, la sanzionabilità in via amministrativa della medesima. Non essendo ciò accaduto, la Corte di appello avrebbe errato, nel caso in esame, nel disporre la trasmissione degli atti all’autorità doganale, non potendosi applicare in via retroattiva la nuova sanzione amministrativa.
Si chiede, conseguentemente, la declaratoria di nullità della sentenza impugnata nel capo con cui ha disposto la trasmissione degli atti all'autorità amministrativa.
c) Violazione del combinato disposto degli artt. 129, 125 e 546 cod. proc. pen., per totale mancanza della motivazione in merito all'insussistenza dell'evidenza che il fatto non sussiste o che non è stato commesso dall’imputato.
I giudici dell’appello avrebbero dovuto infatti, in via preliminare, valutare la possibilità di addivenire al proscioglimento dell'imputato ai sensi dell'art. 129 cod. proc. pen., attesa l'evidente insussistenza del fatto o l'evidente estraneità dell’imputato al fatto accertato.
4. Il ricorso è stato assegnato alla Terza Sezione penale, la quale, all’udienza del 4 novembre 2011 (con ordinanza depositata il 13 dicembre 2011), in riferimento al secondo motivo di ricorso, ha rilevato - ai sensi dell'art. 618 cod. proc. pen. - l'esistenza di un duplice contrasto giurisprudenziale vertente:
- da un lato, sulla questione della sussistenza o meno dell'interesse a ricorrere dell'imputato contro il capo della sentenza che, pur adottando pronuncia assolutoria per non essere più il fatto previsto dalla legge come reato, ordini la trasmissione degli atti all'autorità amministrativa competente per l'irrogazione della sanzione amministrativa prevista a seguito della depenalizzazione dell'illecito;
- dall'altro, sulla connessa questione relativa alla sussistenza o meno di un obbligo per il giudice, che accerti l'intervenuta depenalizzazione del fatto di reato per essere stato il medesimo trasformato in illecito amministrativo, di disporre la trasmissione degli atti all'autorità competente per l'irrogazione della sanzione amministrativa prevista a seguito della depenalizzazione.
La stessa Terza Sezione, però, si è pronunziata sulle altre doglianze svolte nell'atto difensivo.
Quanto al primo motivo di ricorso (difformità tra il dispositivo pronunciato in udienza e quello trascritto nella sentenza ed errore di diritto in relazione all'art. 295-bis d.P.R. n. 43 del 1973), ha affermato che il richiamo all'art. 295-bis del detto d.P.R. «è chiaramente frutto di un refuso», in quanto tale disposizione si riferisce esclusivamente alle violazioni di lieve entità del testo unico del 1973 ed è quindi «del tutto inconferente rispetto alla fattispecie in esame». La circostanza, però, che il giudice di merito abbia comunque disposto la trasmissione degli atti all'autorità doganale, correttamente individuata, rende «irrilevante la difformità denunciata tra dispositivo di udienza e quello trascritto in calce alla motivazione della sentenza».
Quanto, poi, al terzo motivo di ricorso (totale mancanza della motivazione in merito all'insussistenza dell'evidenza che il fatto non sussiste o che non è stato commesso dall'imputato), ne ha rilevato l'infondatezza, affermando che esso «non considera evidentemente che la valutazione della Corte di appello interviene dopo una sentenza di condanna in primo grado ed, in ogni caso, si appalesa del tutto generico in ordine alle ragioni che avrebbero giustificato una diversa formula assolutoria».
5. Con specifico riferimento, invece, al secondo motivo di ricorso (in relazione al quale, come si è detto dianzi, è stata rilevata l'esistenza di un duplice contrasto giurisprudenziale), la Terza Sezione ha operato una ricognizione della normativa ritenuta applicabile alla vicenda in esame, tenuto conto che il fatto oggetto di contestazione risulta accertato il 26 gennaio 2006 e che detta normativa ha subito nel corso degli anni una profonda trasformazione.
Ha così evidenziato che la disciplina originariamente posta dall'art. 4, comma 49, legge 24 dicembre 2003, n. 350 ("Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato, Legge finanziaria 2004") è stata modificata, da ultimo, dal d.l. 25 settembre 2009, n. 135, convertito con modificazioni dalla legge 20 novembre 2009, n. 166 ("Disposizioni urgenti per l'attuazione di obblighi comunitari e per l'esecuzione di sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee"), che ha introdotto i nuovi commi 49-bis e 49- ter.
Ha ricordato che le violazioni all'art. 4, comma 49-bis, della legge n. 350 del 2003 non sono previste dalla legge come reato ma configurano soltanto illeciti amministrativi, rilevando però che, nella fattispecie in esame, la data di consumazione del reato è antecedente rispetto al d.l. n. 135 del 2009 (introduttivo di tale comma) e che né in tale decreto-legge né nella legge di conversione n. 166 del 2009 sono contenute disposizioni specifiche che prevedano la retroattività delle previsioni di nuova introduzione, ovvero siano comunque rivolte a regolare la sorte dei procedimenti penali in corso aventi ad oggetto fatti accertati in epoca precedente a quella dell'entrata in vigore della nuova normativa.
6. Il duplice contrasto giurisprudenziale evidenziato dalla Terza Sezione si connette alla necessità di accertare, da un lato, se il capo della sentenza che ha disposto la trasmissione degli atti sia ricorribile e, dall'altro, se debba o meno essere disposto l'inoltro degli atti all'autorità amministrativa in caso di depenalizzazione successiva all'epoca di accertamento del fatto, in assenza di deroghe specifiche al principio dell'irretroattività dell'illecito amministrativo.
6.1. Sul primo punto, la Sezione rimettente rileva che si registrano "sensibili contrasti" sulla ricorribilità della sentenza di appello quando sia stata disposta la trasmissione degli atti all'autorità amministrativa.
Al riguardo viene anzitutto in rilievo la controversa questione della sussistenza dell'interesse a ricorrere, sulla quale si riscontrano due divergenti opzioni interpretative:
- Un primo orientamento ritiene inammissibile per carenza dell'interesse ad impugnare, ex art. 568, comma 4, cod. proc. pen., il ricorso per cassazione avverso la statuizione della sentenza che, dichiarando che il fatto non è più previsto dalla legge come reato, dispone la trasmissione di copia degli atti alla pubblica amministrazione per competenza anche in assenza di norme transitorie che impongano detta trasmissione (Sez. 3, n. 16101 del 20/03/2001, Bondi; Sez. 3, n. 1209 del 16/12/1998, dep. 29/1/1999, Ghione; Sez. 6, n. 3987 del'08/11/1995, dep. 24/1/1996, Trabeisi).
- L'orientamento contrapposto - preferito dal Collegio rimettente (come espressamente viene specificato nella motivazione dell'ordinanza di rimessione)
- ritiene invece che sussista l'interesse dell’imputato, ex art. 568, comma 4, cod. proc. pen., nell'ipotesi di assoluzione perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato, ad impugnare con ricorso per cassazione la statuizione concernente l’ordine di trasmissione all'autorità amministrativa per l'applicazione delle sanzioni in ordine all'illecito depenalizzato, in quanto l'avvio dell’accertamento, da parte della competente autorità, circa la configurabilità di una violazione amministrativa nel fatto estromesso dall'area della illiceità penale, integra ex se un pregiudizio prodotto dall'effetto gravato, per la concreta possibilità che l’accertamento si traduca nell'applicazione delle sanzioni, una volta che il giudice penale, trasmettendo gli atti, abbia espresso un giudizio di applicabilità delle medesime (Sez. 5, n. 21064 del 05/03/2004, De Mattei).
6.2. Il secondo contrasto giurisprudenziale riguarda la questione della sussistenza o meno dell'obbligo per il giudice di merito, in caso di depenalizzazione successiva del fatto ed in assenza di norme transitorie ad hoc che sanzionino retroattivamente i fatti pregressi, di disporre la trasmissione degli atti all'autorità amministrativa.
La questione, ricorda l'ordinanza di rimessione, venne affrontata dalle Sezioni Unite con una decisione ormai remota (Sez. U, n. 7394 del 16/03/1994, Mazza), che affermò l'insussistenza di un obbligo siffatto fondandosi essenzialmente su due punti:
a) l'inapplicabilità del comma terzo (attualmente quarto) dell'art. 2 cod. pen., sul rilievo che si devono intendere per disposizioni "più favorevoli al reo" solo quelle che fanno rientrare il fatto reato sotto un precetto che configura diversamente il reato stesso o lo assoggetta a una sanzione più mite, ma pur sempre penale, anche sotto il solo aspetto degli effetti penali;
b) la natura di eccezioni degli artt. 40 e 41 della legge n. 689 del 1981 al divieto di retroattività e, quindi, nel caso di violazioni non ricomprese nella legge n. 689 del 1981, la necessità di altri sussidi normativi per attribuire alla condotta depenalizzata rilevanza retroattiva sotto il profilo amministrativo.
L'orientamento espresso dalle Sezioni Unite nella sentenza Mazza è stato seguito da una nutrita serie di decisioni successive delle Sezioni semplici.
Il contrasto giurisprudenziale, però, è sorto in seguito ad una ulteriore decisione delle Sezioni Unite (Sez. U, n. 1327 del 27/10/2004, dep. 19/01/2005, Li Calzi), che ha affermato l'opposto principio secondo il quale «In caso di annullamento senza rinvio della sentenza impugnata per non essere il fatto previsto dalla legge come reato, ma solo come illecito amministrativo, la Corte di Cassazione dispone sempre la trasmissione degli atti all'autorità amministrativa competente, in forza della disposizione di carattere generale di cui all'art. 41 della legge 24 novembre 1981, n. 689».
L'ordinanza di rimessione ricorda che la sentenza Li Calzi contiene un passaggio motivazionale che appare in contrasto con il decisum delle Sezioni Unite del 1994 nella parte in cui afferma il carattere generale delle disposizioni di cui agli artt. 40 e 41 della legge n. 689 del 1981 «con la conseguenza che, a prescindere dall’esistenza di una disposizione specifica, vale comunque il principio di retroattività dell'illecito amministrativo contenuto negli artt. 40 e 41 della legge 689/81».
Anche l'orientamento della sentenza Li Calzi è stato seguito da decisioni successive delle Sezioni semplici.
7. A fronte del contrasti giurisprudenziali dianzi delineati, per i quali il Collegio della Terza Sezione ha rimesso il ricorso alle Sezioni Unite ex art. 618 cod. proc. pen., il Primo Presidente, con decreto in data 22 dicembre 2011, ha disposto l'assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite, fissandone per la trattazione la odierna pubblica udienza.
Il difensore ha depositato memoria illustrativa in data 15 marzo 2012.

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. L'ordine logico delle questioni prospettate nel ricorso impone la trattazione prioritaria del terzo motivo di gravame, con il quale la difesa chiede l'annullamento integrale della sentenza argomentando che i giudici dell'appello avrebbero dovuto, in via preliminare, valutare la possibilità di addivenire al proscioglimento dell'imputato ai sensi dell'art. 129 cod. proc. pen., attesa l'evidente insussistenza del fatto o l'evidente estraneità al fatto accertato e considerato che, nel concorso processuale tra una causa di estinzione del reato e una formula di assoluzione nel merito, deve prevalere la seconda ogni volta che sia assistita dall'evidenza della prova.
Quando il fatto non è più preveduto dalla legge come reato, sia in seguito a una pura e semplice aboiitio criminis, sia in seguito alla trasformazione dell'illecito penate in illecito amministrativo, il giudice è tenuto a verificare se allo stato degli atti non risulti già evidente che il fatto non sussiste, che l'imputato non l'ha commesso o che il fatto non costituisce reato (Sez. 3, n. 9096 del 23/06/1993, Steinhauslin).
Di tale valutazione il giudice d'appello non avrebbe dato conto e, essendo stato così violato il combinato disposto degli artt. 125 e 546 cod. proc. pen., dovrebbe riscontrarsi la nullità della sentenza in quanto del tutto priva della motivazione.
La doglianza deve essere rigettata, perché infondata.
La Sezione rimettente ne ha ritenuto la manifesta infondatezza, argomentando che il motivo di gravame «non considera che la valutazione della Corte di appello interviene dopo una sentenza di condanna in primo grado ed, in ogni caso, si appalesa del tutto generico in ordine alle ragioni che avrebbero giustificato una diversa formula assolutoria».
La medesima Sezione, tuttavia, ha affermato il principio secondo cui «la formula assolutoria "il fatto non è previsto dalla legge come reato" determina, a differenza delle altre formule indicate nell'art. 530 cod. proc. pen., l'assoluzione dell'imputato in iure rendendo superflua l'istruzione del processo e, pertanto, dev'essere logicamente anteposta a qualsiasi altra formula risolutiva del medesimo».
Tale ultima motivazione non può essere condivisa, in quanto nella giurisprudenza di questa Corte è invece pacifico che, nel caso in cui il fatto storico, così come ricostruito, non è idoneo ad essere assunto nella fattispecie astratta, l’assoluzione dell’imputato va deliberata con la formula "il fatto non sussiste" (Sez. U, n. 37954 del 25/05/2011, Orlando) e che, «nel concorso tra diverse cause di proscioglimento, poiché l'indicazione che si trae dalla sequenza delle formule contenuta nell'art. 129 cod. proc. pen. è quella di un ordine ispirato a un'ampiezza di effetti liberatori per l'imputato progressivamente più ridotta, la formula perché il fatto non sussiste prevale su quella perché il fatto non è previsto dalla legge come reato» (Sez. U, n. 2451 del 27/09/2007, dep. 16/01/2008, Magera).
Facendo coerente applicazione alla questione oggetto di esame dei ricordati pronunciati delle Sezioni Unite, risulta comunque assorbente rilevare che le doglianze del ricorrente (del tutto generiche nell'affermare «l'evidente insussistenza del fatto o l'evidente estraneità dell'imputato al fatto accertato») non specificano perché il fatto storico, così come ricostruito dai giudici del merito, non sarebbe idoneo ad essere assunto nella fattispecie astratta oggetto di intervenuta depenalizzazione ed in particolare non contestano che vi sia stata una maliziosa omissione della indicazione dell'origine estera dei prodotti accompagnata dall'utilizzazione di segni distintivi naturalmente riconducibili a prodotti italiani.
Non vi è alcun motivo, conseguentemente, per dubitare della corretta l'adozione della formula “il fatto non è previsto dalla legge come reato".
2. Infondato è anche il primo motivo di gravame, con il quale la difesa denuncia «inosservanza del combinato disposto degli artt. 547 e 130 cod. proc. pen., in relazione alla difformità tra il dispositivo pronunciato in udienza e quello trascritto nella sentenza impugnata ed errore di diritto ex art. 606, lett. b), in relazione all'art. 295-bis d.P.R. n. 43 del 1973)».
Evidenzia al riguardo che: nel dispositivo della decisione della Corte di appello di cui è stata data lettura in udienza si legge: «visto l'art. 295-bis d.P.R. 43/1973 dispone la trasmissione degli atti all’autorità doganale perché proceda in ordine all'illecito amministrativo»; nel dispositivo ritrascritto nella sentenza impugnata si legge invece: «dispone la trasmissione degli atti ali'autorità doganale perché proceda in ordine all'illecito amministrativo».
Manca, cioè, nel dispositivo "ritrascritto" il riferimento alla norma che legittimerebbe la trasmissione degli atti, presente invece in quello di cui è stata data lettura in udienza.
Il dispositivo letto in udienza, però, acquista la propria autorità a seguito della lettura e non può essere modificato nella stesura della motivazione della sentenza, che ha una funzione strumentale, con la conseguenza che, in caso di difformità, il primo prevale sulla seconda.
Con riferimento al dispositivo letto in udienza, pertanto, il difensore prospetta che il richiamo all'art 295-bis d.P.R. n. 43 del 1973 è del tutto privo di pertinenza, atteso che quella norma disciplina la diversa ipotesi di sanzioni amministrative per le violazioni di lieve entità, che nulla hanno a che fare con i profili attinenti alla depenalizzazione della condotta. Nel d.P.R. n. 43 del 1973, in particolare, non si rinviene alcuna disposizione che disciplini l'ipotesi attualmente in esame, e, dunque, il richiamo all'art. 295-bis comporterebbe la nullità della sentenza impugnata non potendo configurarsi quale mero errore materiale emendabile con la procedura di cui all'art. 130 cod. proc. pen.
La Sezione rimettente - come già si è detto al n. 4 della parte descrittiva della vicenda processuale - ha disatteso la censura affermando che il richiamo all'art. 295-bis d.P.R. n. 43 del 1973 «è chiaramente frutto di un refuso ed è, quindi, del tutto inconferente rispetto alla fattispecie in esame». In tal senso, pertanto, la circostanza che il giudice di merito abbia comunque disposto la trasmissione degli atti all'autorità doganale, a giudizio della Sezione rimettente, rende «irrilevante la difformità denunciata tra dispositivo di udienza e quello trascritto in calce alla motivazione della sentenza».
Trattasi di argomentazioni che il Collegio condivide, in quanto - secondo giurisprudenza costante - l’omessa o incompleta trascrizione nell’originale della sentenza del dispositivo letto in pubblica udienza non integra la nullità di cui all’art. 546, comma 3, cod. proc. pen., trattandosi di una mera assenza grafica sanabile con la procedura di correzione degli errori materiali di cui all’art. 130 cod. proc. pen. (vedi Sez. 6, n. 12308 del 03/03/2008, Bolognini; Sez. 4, n. 49485 del 28/10/2003, Rossi; Sez. 3, n. 2150 del 27/01/1998, Pagliaro).
Nella specie, però, non deve procedersi ad alcuna correzione della sentenza tenuto conto delle conclusioni alle quali si perverrà in seguito all'esame della questione controversa oggetto del secondo motivo di ricorso.
3. Vanno esaminate, quindi, le seguenti questioni di diritto per le quali il ricorso è stato rimesso alle Sezioni Unite: «Se l'imputato assolto per non essere il fatto più previsto come reato abbia interesse al ricorso per cassazione contro la statuizione della sentenza concernente l'ordine di trasmissione degli atti all’autorità amministrativa per l'applicazione delle sanzioni per l’illecito depenalizzato; e se gli atti debbano essere trasmessi nel caso in cui la depenalizzazione sia successiva alla data di commissione del fatto».
4. Sulla questione riguardante la configurabilità della sussistenza dell'interesse dell'imputato a ricorrere si rinviene effettivamente un contrasto nella giurisprudenza di questa Corte.
4.1. Un primo orientamento afferma l'inammissibilità - per carenza dell’interesse ad impugnare, ex art. 568, comma 4, cod. proc. pen. - del ricorso per cassazione avverso la statuizione della sentenza che, dichiarando che il fatto non è più previsto dalla legge come reato, dispone la trasmissione di copia degli atti alla pubblica amministrazione per competenza anche in assenza di norme transitorie che impongano detta trasmissione (Sez. 6, ord. n. 884 del 27/10/2004, dep. 18/01/2005, Serra; Sez. 6, n. 6486 del 13/11/2003, dep. 17/02/2004, Arcoleo; Sez. 3, n. 16101 del 20/03/2001, Bondi; Sez. 3, n. 1209 del 16/12/1998, dep. 29/01/1999, Ghione; Sez. 5, n. 14718 del 18/11/1999, Simionato; Sez. 6, n. 3987 del 08/11/1995, dep. 24/01/1996, Trabeisi).
Le ragioni poste a sostegno delle decisioni dianzi citate possono sinteticamente riassumersi come segue:
a) l’unico effetto che la denunciata statuizione di trasmissione determina è quello dell’avvio di un accertamento da parte dell'organo competente circa la sussistenza o meno di una violazione amministrativa, per cui la decisione impugnata non crea alcuna situazione di concreto pregiudizio, dovendo questo risiedere e rinvenirsi non già in una mera eventualità, ma unicamente nell'attualità degli effetti direttamente prodotti dallo stesso provvedimento gravato;
b) nessun pregiudizio attuale, immediato e concreto deriva al ricorrente, con riguardo al thema decidendum, in ordine al quale dovrà pronunciarsi la autorità amministrativa, le cui valutazioni non sono condizionate da quelle effettuate in sede penale;
c) l'imputato non potrebbe trarre alcun vantaggio, neanche sul piano morale, dall'applicazione della diversa formula, atteso che il fatto addebitatogli, anche se sussistente ed a lui ascrivibile, rientra ormai nell'ambito di un comportamento penalmente non rilevante;
d) infine, l'ordine di trasmissione degli atti sarebbe inoppugnabile perché trattasi di disposizione non direttamente applicativa di sanzione, bensì finalizzata semplicemente a consentire l'adozione di eventuale provvedimento amministrativo suscettibile di impugnazione nella competente sede.
4.2. Un opposto orientamento ritiene invece che sussiste l’interesse ad impugnare dell’imputato, ex art, 568, comma 4, cod. proc. pen., in quanto l’avvio dell'accertamento, da parte della competente autorità, circa la configurabilità di una violazione amministrativa nel fatto estromesso dall'area della illiceità penale, integra ex se un pregiudizio prodotto dall'effetto gravato, per la concreta possibilità che l'accertamento si traduca nell'applicazione delle sanzioni, una volta che il giudice penale, trasmettendo gli atti, abbia espresso un giudizio di applicabilità delle medesime (Sez. 1, n. 28846 del 19/05/2009, Presciutti; Sez. 5, n. 21064 del 05/03/2004, De Mattei; Sez. 6, n. 624 del 14/02/1997, Capozzi; Sez. 6, n. 6989 del 30/03/1995, Stella).
A sostegno di tale indirizzo giurisprudenziale viene rilevato che, stante il principio di unitarietà dell'ordinamento giuridico, se una sentenza penale produce effetti giuridicamente rilevanti in altri campi dell'ordinamento, con pregiudizio delle situazioni giuridiche soggettive facenti capo all'imputato, questi ha interesse ad impugnare la sentenza penale qualora dalla revisione di essa possa derivare in suo favore, in modo diretto e concreto, l'eliminazione di qualsiasi effetto giuridico extrapenale per lui pregiudizievole.
5. A fronte del contrastante quadro interpretativo dianzi delineato, rileva il Collegio che l'art. 568 cod. proc, pen., nel delineare le regole generali in tema di impugnazione, dopo avere fissato al primo comma il principio di tassatività, stabilisce che la legittimazione a impugnare spetta soltanto a coloro ai quali la legge la conferisce espressamente (comma 3) e subordina l'attivazione dello strumento di controllo all'esistenza in capo al soggetto astrattamente legittimato di un concreto interesse ad impugnare (comma 4).
La giurisprudenza di questa Corte ha elaborato una nozione di "interesse" sostanzialmente utilitaristica, che si incentra sui requisiti della concretezza e dell’attualità, e le Sezioni Unite hanno puntualizzato, in proposito, che la facoltà di attivare i procedimenti di gravame non è assoluta e indiscriminata, ma è subordinata alla presenza di una situazione in forza della quale il provvedimento del giudice risulti idoneo a produrre la lesione della sfera giuridica dell'impugnante e l'eliminazione o la riforma della decisione gravata renda possibile il conseguimento di un risultato vantaggioso.
In sintesi, secondo un'interpretazione consolidata, l'interesse richiesto dall’art. 568, comma 4, cod. proc. pen. quale condizione di ammissibilità di qualsiasi impugnazione deve essere correlato agli effetti primari e diretti del provvedimento da impugnare e sussiste solo se il gravame sia idoneo a costituire, attraverso l'eliminazione di un provvedimento pregiudizievole, una situazione pratica più vantaggiosa per l'impugnante, tenendo conto, non solo dell'entità della pena e degli altri benefici accordati con il provvedimento impugnato, ma del complesso delle conseguenze vantaggiose che possono derivare dal giudizio di impugnazione (Sez. U: n. 12234 dei 23/11/1985, Di Trapani; n. 6563 del 16/03/1994, Rusconi; n. 42 del 13/12/1995, Timpani; n. 10372 del 27/09/1995, Serafino; n. 40049 del 29/05/2008, Guerra; n. 29529 del 25/06/2009, De Marino; n. 7931 del 16/12/2010, dep. 01/03/2011, Testini).
Per quel che concerne l'interesse dell’imputato a impugnare una sentenza di assoluzione, si ritiene pacificamente che questo manchi ogni qualvolta il proscioglimento sia adottato "perché il fatto non sussiste" o "perché l'imputato non lo ha commesso", poiché in questi casi, ogni epilogo diverso gli sarebbe meno utile.
E' stata riconosciuta, invece, la sussistenza dell'interesse dell'imputato ad impugnare il proscioglimento quando l'impugnazione è diretta ad assicurarsi effetti extrapenali più favorevoli o ad evitare conseguenze extrapenali pregiudizievoli (si veda, ad esempio, Sez. 5, n. 45091 del 24/10/2008, Burini; Sez. 3, n. 1187 del 06/11/2007, dep. 11/1/2008, Petrelli; Sez. 6, n. 87 del 26/11/2002, dep. 08/01/2003, Schiano; Sez. 6, n. 624 del 14/02/1997, Capozzi; Sez. 6, n. 6989 del 30/03/1995, Stella).
5.1. Questo Collegio ribadisce tale interpretazione e ritiene di dovere affermare il principio secondo il quale:
«Nell'ipotesi di assoluzione perché il fatto non è più previsto dalia legge come reato sussiste l'interesse dell'imputato, ex art. 568, comma 4, cod. proc. pen.f ad impugnare con ricorso per cassazione la statuizione concernente l'ordine di trasmissione all'autorità amministrativa per l'applicazione delle sanzioni previste per l'illecito depenalizzato».
5.2. In relazione a tale statuizione infatti - condividendosi le argomentazioni svolte dalla Sez. 5, con la sentenza n. 21064 del 05/03/2004, De Mattei - vanno ravvisate sia l'idoneità del provvedimento a produrre l'effetto pregiudizievole, sia la possibilità di un vantaggio connesso alla rimozione del provvedimento medesimo e l'interesse a ricorrere deve configurarsi in quanto l'avvio dell'accertamento, da parte della competente autorità, circa la configurabilità di una violazione amministrativa nel fatto estromesso dall’area della illiceità penale, integra ex se un pregiudizio prodotto dall'effetto gravato, per la concreta possibilità che l’accertamento si traduca nell'applicazione delle sanzioni, una volta che il giudice penale, trasmettendo gli atti, abbia espresso un giudizio di applicabilità delle medesime.
L'esercizio del diritto di impugnazione, dunque, è rivolto a soddisfare una posizione oggettiva giuridicamente rilevante e non un mero interesse di fatto, e da esso può derivare un risultato giuridico pratico favorevole al soggetto impugnante.
6. Il secondo contrasto giurisprudenziale evidenziato nell'ordinanza di rimessione concerne la questione della sussistenza o meno, in caso di depenalizzazione successiva del fatto, dell'obbligo per il giudice di merito - in assenza di norme transitorie ad hoc che dispongano retroattivamente circa l'illecito amministrativo - di trasmettere gli atti all'autorità amministrativa.
6.1. Un primo orientamento si pone in senso negativo.
La questione venne affrontata dalle Sezioni Unite con una non recente decisione pronunziata con riferimento alla contravvenzione già prevista dall'art. 11 dell’abrogato codice stradale ma costituente soltanto illecito amministrativo a norma dell’art. 153 del codice entrato successivamente in vigore (Sez. U, n. 7394 del 16/03/1994, Mazza).
Le Sezioni Unite, con quella decisione, hanno affermato che l'autorità giudiziaria, nel dichiarare che il fatto non è più previsto dalla legge come reato, non deve rimettere gli atti all'autorità amministrativa competente, «e ciò sia in vista del principio di legalità dell'illecito amministrativo consacrato nell’art. 1 della legge n. 689 del 1981 - applicabile in forza dell'art. 194 del nuovo codice stradale - sia per l'assenza, in quest'ultimo, di norme transitorie analoghe a quelle di cui agli artt. 40 e 41 della citata legge n. 689, la cui operatività è limitata agli illeciti da essa depenalizzati e non riguarda, pertanto, gli altri casi di depenalizzazione».
La sentenza n. 7394 del 1994 ha effettuato un diffuso esame delle norme di cui agli artt. 2, comma quarto, cod. pen., 40 e 41 della legge n. 689 del 1981, in esito al quale:
a) Ha escluso la possibilità di applicare la prescrizione dell'attuale quarto comma (all'epoca terzo) dell'art. 2 del codice penale alla c.d. "successione impropria" (qualificazione come illecito amministrativo di un fatto previsto come reato al tempo della sua commissione) per le seguenti essenziali considerazioni:
aa) l'art. 2, comma quarto, facendo riferimento alle "disposizioni più favorevoli al reo", postula che colui nei cui confronti deve applicarsi la disciplina più favorevole "continui, appunto, ad essere reo, ad essere considerato come autore di un reato”;
ab) il comma quarto è strettamente e logicamente legato al comma secondo, nel senso che la riconduzione del fenomeno successorio all'abolizione del reato implica la non pertinenza della regola dell'applicazione della legge più favorevole al reo, la quale presuppone l'antitetico fenomeno della successione meramente modificativa;
ac) la retroazione delle norme più vantaggiose per l'autore dell'illecito, inoltre, è «disciplina a carattere eccezionale, peculiare del diritto penale positivo», in nessun modo estensibile alla sfera degli illeciti amministrativi.
Tutti gli illeciti amministrativi, infatti, sono dotati di «piena autonomia normativa» rispetto agli illeciti penali, ed una conclusione siffatta è imposta dalla legge fondamentale della materia delle violazioni amministrative (la legge n. 689 del 1981), la quale ha stabilito norme e principi che forniscono una regolamentazione esaustiva dell'intero ordinamento punitivo amministrativo, «proprio per fissare precisi confini tra le due aree sanzionatone [penale e amministrativa], affini, ma diverse, ed evitare, così, operazioni ermeneutiche in chiave di analogia» (c.d. "teoria della diversità" che, secondo una interpretazione dottrinaria, «impedisce qualunque rapporto di continuità tra l'illecito penale e l'illecito amministrativo».
b) Ha escluso anche la possibilità di applicazione generalizzata degli artt. 40 e 41 della legge n. 689/1981, rilevando che, nella formazione della legge n. 689 del 1981, il contenuto di tali articoli era inizialmente collocato tra i principi generali (comma quarto dell'art. 1) mentre è stato poi definitivamente trasferito nella sezione IV del Capo I, «sotto l'anodina rubrica disposizioni transitorie e finali». Ciò testimonia la precisa volontà del legislatore di conferire alle disposizioni medesime «un carattere del tutto eccezionale e transitorio», ossia di limitarle alle sole depenalizzazioni operate dalla legge n. 689 del 1981, ed ha trovato pieno riscontro nel definitivo enunciato normativo, che, nell'individuare gli illeciti oggetto della disciplina transitoria, si riferisce esclusivamente a quelli depenalizzati dalla «presente legge».
La sentenza Mazza ha esercitato una forte influenza sulla giurisprudenza che ha affrontato successivamente la questione sia in materia di circolazione stradale sia in settori diversi, come quello della tutela delle acque dall'inquinamento (Sez.
3, n. 2724 del 21/06/1996, Taidelli; Sez. 3, n. 5617 del 03/05/1996, Nejrotti), quello societario (Sez. 5, n. 21064 del 05/03/2004, De Mattei) e quello ambientale.
L'unico elemento di novità scaturito dalle varie decisioni conformi è Yargumentum a contrario, desunto dallo scrupolo con cui il legislatore, nella quasi totalità dei provvedimenti di depenalizzazione, ha provveduto a riprodurre nella sostanza le disposizioni degli artt. 40 e 41 della legge n. 689 del 1981 (si vedano, ad esempio: l'art. 14 d.lgs. 13 luglio 1994, n, 480; l'art. 55, comma terzo, d.lgs. 5 febbraio 1997, n. 22; l'art. 56, comma terzo, d.lgs. 11 maggio comma terzo, d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152).
Si tratterebbe di uno sforzo inutile e superfluo se le disposizioni degli artt. 40 e 41 della legge n. 689 del 1981 avessero davvero carattere generale.
Le pronunzie che hanno aderito all'orientamento in esame ritengono pacifica la sussistenza di un'abolitio criminis nelle ipotesi di trasformazione di un fatto costituente reato in illecito amministrativo ed affermano che - dato il principio di irretroattività dell'illecito amministrativo, sancito dall'art. 1 della legge n. 689 del 1981 - al venir meno della sanzione penale si accompagna di regola la impossibilità di applicare la nuova sanzione amministrativa.
In assenza di una espressa disposizione transitoria, pertanto, non può farsi riferimento all'art. 40 della legge n. 689 del 1981, in quanto non configurabile quale norma generale di inquadramento, valida per tutti i futuri casi di depenalizzazione.
Tale affermazione è stata reiteratamente sostenuta dalla giurisprudenza di legittimità e, tra le decisioni più significative, possono ricordarsi:
- Sez. 3, n. 1401 del 15/12/2011, dep. 17/01/2012, Clerico (relativa alla sopravvenuta depenalizzazione del reato di cui all’art. 22 della legge 15 febbraio 1963, n. 281 [immissione in commercio e distribuzione per il consumo di mangimi non rispondenti alle prescrizioni di legge o non conformi alle dichiarazioni, indicazione e denominazioni], operata dalla legge 3 febbraio 2011, n. 4);
- Sez. 3, n. 1400 del 15/12/2011, dep. 17/01/2012, Zhang (relativa alla sopravvenuta depenalizzazione del reato di cui all'art. 11, comma primo, d.lgs. n. 313 del 1991 [immissione in commercio di giocattoli privi della certificazione di conformità CE], operata dal d.lgs. n. 54 del 2011);
- Sez. 4, n. 41564 del 26/10/2010, Osseo, e n. 38692 dei 28/09/2010, La Mantia (relative alla sopravvenuta depenalizzazione, limitatamente all’ipotesi prevista dall’art. 186, comma 1, lett. a), cod. strad., del reato di guida sotto l'influenza dell'alcol ad opera della legge n. 120 del 2010 [disposizioni in materia di sicurezza stradale]);
- Sez. 5, n. 21064 del 05/03/2004, De Mattei (relativa all’abolitio criminis del reato di impedito controllo della gestione sociale, originariamente previsto dall'art. 2623, n. 3, cod. civ., ad opera dell'art. 2625 cod. civ., introdotto dal d.lgs. n. 61 del 2002, il quale prevede che la condotta di impedito controllo,
1999, n. 152; l'art. 135, comma terzo, d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152; l'art. 262, quando non abbia cagionato danno ai soci, sia punita con sanzione pecuniaria amministrativa);
- Sez. 3, n. 2640 del 15/12/1997, dep. 28/02/1998, Brandimarte (relativa alla depenalizzazione attuata, in materia di tutela delle acque dall'inquinamento, dalla legge n. 172 del 1995);
- Sez. 1, n. 4678 del 23/09/1996, Giordanengo (relativa alla sopravvenuta trasformazione nell'illecito amministrativo previsto dall'art. 180, comma 8, cod. strad. [inottemperanza all’ordine di presentarsi all'autorità di polizia per esibire documenti o per fornire informazioni in merito alla disponibilità di un veicolo], prima integrante il reato previsto dall'art. 650 cod. pen.);
- Sez. 3, n. 2724 del 21/06/1996, Taidelli (relativa all'intervenuta depenalizzazione della condotta di rilascio di scarichi civili e fognari in epoca anteriore al 17 marzo 1995 [d.l. 17 marzo 1995, n. 79, convertito con modificazioni dalla legge 17 maggio 1995, n. 172]);
- Sez. 4, n. 9814 del 19/05/1994, Urbinati (relativa alla violazione, sanzionata dal previgente codice della strada del 1953, di sorpasso di un veicolo in corrispondenza di un dosso, oggi sanzionata solo amministrativamente a seguito dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 285 del 1992 [nuovo codice della strada]);
- Sez. 3, n. 4135 del 19/01/1994, Antoci (relativa alla depenalizzazione di reati finanziari disposta con l’art. 2 della legge 28 dicembre 1993, n. 562, di modifica dell’art. 39 della legge 24 novembre 1981, n. 689).
6.2. In contrasto con l'orientamento giurisprudenziale negativo di cui si è dato conto dianzi, si pone una ulteriore decisione delle Sezioni Unite (n. 1327 del 27/10/2004, dep. 19/01/2005, Li Calzi) che - in una fattispecie concernente l'omesso versamento di somme trattenute dal datore di lavoro sulla retribuzione del dipendente e da destinare alla Cassa edile, integrante infrazione amministrativa a norma dell'art. 13 d.lgs. 19 dicembre 1994, n. 758 - hanno affermato l'opposto principio secondo il quale «in caso di annullamento senza rinvio della sentenza impugnata per non essere il fatto previsto dalla legge come reato, ma solo come illecito amministrativo, la Corte di cassazione dispone sempre la trasmissione degli atti all'autorità amministrativa competente, in forza della disposizione di carattere generale di cui all’art. 41 della legge 24 novembre 1981, n. 689».
La motivazione di tale sentenza si pone in contrasto con il decisum delle Sezioni Unite del 1994 nella parte in cui afferma il carattere generale delle disposizioni di cui agli artt. 40 e 41 della legge n. 689 del 1981 con la conseguenza che, a prescindere dall'esistenza di una disposizione specifica, varrebbe comunque il principio di retroattività dell'illecito amministrativo contenuto negli stessi articoli.
Successivamente la Seconda Sezione penale, con la sentenza n. 7180 del 25/01/2006, Seye (relativa alla trasformazione in illecito amministrativo del reato di cui all’art. 171-ter legge 22 aprile 1941, n. 633 e succ. modif. [acquisto, anche se finalizzato al commercio, di supporti audiovisivi, fonografici o informatici o multimediali, non conformi alle prescrizioni legali], posto in essere prima dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 68 del 2003) - discostandosi consapevolmente dall'interpretazione fornita dalla sentenza Mazza delle Sezioni Unite e tenendo conto dell'enunciato della sentenza Li Calzi - ha affermato che la Corte di cassazione, nel pronunziare l’annullamento senza rinvio della sentenza di condanna per non essere il fatto previsto come reato, deve disporre la trasmissione degli atti all’autorità amministrativa competente, in forza della disposizione di carattere generale di cui all'art. 41 della legge 24 novembre 1981, n. 689.
Ciò anche in difetto di apposite norme transitorie, perché gli illeciti penali trasformati in illeciti amministrativi non possono restare sottratti a qualsiasi sanzione, ma - in considerazione della ratio iegis, che è quella di attenuare, non già di eliminare, la sanzione per un fatto che rimane illecito - deve trovare comunque applicazione quella amministrativa.
Viene argomentato, in tale sentenza, che: a) per un verso, il principio dell’applicazione della norma sopravvenuta più favorevole al reo (art. 2, comma quarto, cod. pen.) si riferisce anche al caso di trasformazione dell'illecito penale in Illecito amministrativo; b) per altro verso, la legge 24 novembre 1981, n. 689, all'art. 40, esprime un principio di carattere generale, non limitato alle violazioni contemplate nella legge stessa, ma applicabile a tutti i provvedimenti di depenalizzazione, anche successivi, in difetto di apposita disciplina transitoria.
Detto principio appare «l'unico applicabile, in fattispecie analoghe, senza incorrere in una violazione dell'articolo 3 Cost.»: contrasterebbe, infatti, con il principio di uguaglianza «una disciplina giuridica che preveda la totale impunità di coloro che hanno commesso un illecito penale, successivamente depenalizzato, e la responsabilità - sia pure sul piano dell'illecito amministrativo - di coloro che hanno commesso la stessa violazione dopo la depenalizzazione; e la differenza di trattamento, anche tenendo conto della diversità delle situazione, appare del tutto irragionevole».
Quanto all'argomento utilizzato nella sentenza Mazza, secondo il quale l'art. 2 cod. pen. si riferisce solo alla successione meramente modificativa di fattispecie che restano penalmente rilevanti, la decisione della Seconda Sezione ritiene che esso «possa essere agevolmente superato, ove si consideri che allorquando venne compilato il codice penale, il fenomeno della depenalizzazione era un fatto assolutamente straordinario, che il Legislatore - per quanto accorto - non avrebbe potuto prevedere nella sua reale portata».
Anteriormente alla sentenza Li Calzi un'unica decisione aveva affermato la sussistenza dell'obbligo di trasmettere gli atti all'autorità amministrativa in caso di depenalizzazione, in assenza di una disposizione transitoria ad hoc che preveda tale obbligo per il giudice, fondandosi sulla tesi della c.d. ultrattività della previsione dell’art. 41 della legge n. 689 del 1981.
Si tratta della sentenza della Sez. 1, n. 12659 del 15/06/1990, Daversa, che - in relazione ad una fattispecie di porto di arma per uso caccia da parte di persone munite di licenza nel caso di omesso pagamento della tassa di concessione governativa, depenalizzata dall'art. 6 della legge 21 febbraio 1990, n. 36 - aveva affermato che, pur non prevedendo espressamente la legge n. 36 del 1990 la trasmissione degli atti all'autorità amministrativa competente, quest'ultima «tuttavia, deve essere disposta in applicazione degli artt. 40 e 41 della legge 24 novembre 1981, n. 689, che in relazione ai procedimenti penali per le violazioni non costituenti più reati, espressamente la impone all'autorità giudiziaria procedente. La disposizione, è dettata esplicitamente per i procedimenti pendenti all'entrata in vigore della legge suddetta, ma essa costituisce una norma generale di inquadramento valida per tutti i futuri casi di trasformazione del reato in illecito amministrativo per effetto della depenalizzazione».
7. A fronte del contrasto interpretativo dianzi delineato, ritiene il Collegio di dovere affermare il seguente principio di diritto: «Nei caso in cui l'autorità giudiziaria pronunzi sentenza assolutoria perché il fatto non è più previsto dalia legge come reato non ha l'obbligo di rimettere gli atti all'autorità amministrativa competente a sanzionare l'illecito amministrativo allorquando la normativa depenalizzatrice non contenga norme transitorie analoghe a quelle di cui agli artt. 40 e 41 della legge n. 689 dei 1981, la cui operatività è limitata agli illeciti da essa depenalizzati e non riguarda gli altri casi di depenalizzazione».
Conservano piena valenza, in proposito, le diffuse argomentazioni svolte dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 7394 del 1994, Mazza, che non risultano convincentemente contrastate nella successiva sentenza n. 1327 del 2005, Li Calzi.
Deve conseguentemente ribadirsi che:
a) Vi è piena autonomia dei connotati e dei principi delle violazioni amministrative rispetto a quelle penali, sicché non può ritenersi consentita l'applicazione analogica al regime sanzionatolo amministrativo di categorie generali desunte dal diritto penale, anche se si tratta di categorie o principi favorevoli all'agente.
Il principio di cui all'art. 2, quarto comma, cod. pen. (retroattività della legge più favorevole al reo), in particolare, non è stato recepito nell'art. 1 della legge n. 689 del 1981 e non è estensibile alla disciplina della "successione" dell'illecito amministrativo rispetto all'illecito penale, essendo, invece, necessarie apposite norme, affidate alla discrezionalità del legislatore ordinario (pur sempre nel rispetto del principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost.), per poter superare l'autonomo principio d'irretroattività, vigente per il primo tipo d'illecito ai sensi dell’art. 1, legge n. 689 del 1981, peraltro estraneo alla costituzionalizzazione ex art. 25, comma secondo, Cost., che riguarda solo quello penale.
b) In assenza di disposizioni transitorie espresse, va escluso che si possa fare riferimento agli artt. 40 e 41 della legge n. 689 del 1981 intesi quali norme generali di inquadramento valide per tutti i futuri casi di depenalizzazione.
Tenuto conto del contenuto dei lavori preparatori della legge di depenalizzazione dei 1981, va rilevato che una deroga all'irretroattività era stata inizialmente prevista nel comma terzo dell'art. 1, evidentemente come correttivo di fondo parallelo al principio generale dell'irretroattività sancito nei primi due commi.
E' stato proprio il legislatore dell'epoca, però, per il dichiarato scopo di non creare equivoci, ad eliminare dall'art. 1 quella disposizione che ricollegava un "effetto retroattivo" alla "depenalizzazione" (sebbene si trattasse di una norma contra reum e non a suo favore) ed a darle invece un'autonoma collocazione, ben lontana da quella riservata ai principi generali e divergente rispetto al generale principio di irretroattività, nell'art. 40 sotto l'anodina rubrica «Disposizioni transitorie e finali». Si è voluto così sottolineare il carattere del tutto eccezionale della norma transitoria, derivante dal collegamento con il fenomeno della "depenalizzazione", che veniva all'epoca considerato come destinato storicamente ad esaurirsi.
La soluzione della non retroattività, dunque, è stata ritenuta e deve ritenersi ragionevole alla luce della riconosciuta applicabilità al sistema amministrativo dei principi di legalità e di irretroattività, e ciò a salvaguardia di esigenze di fondo della regolamentazione dei rapporti tra autorità dello Stato e libertà del cittadino.
A giudizio del Collegio non può condividersi la c.d. "teoria della persistenza dell'illecito", configurata da una parte della dottrina, in quanto deve considerarsi che, nel passaggio dall'illecito penale a quello amministrativo, non viene modificata solo la natura della sanzione ma viene disconosciuta rilevanza penale al precetto in seguito ad una diversa valutazione del disvalore sociale del fatto: ciò comporta la introduzione ex novo dell'illecito amministrativo, non compatibile con una lettura estensiva dell’art. 2, comma quarto, cod. pen. che allarghi il suo oggetto sino alla successione tra legge penale e legge punitiva amministrativa.
Né, a fronte della genesi della norma (quale deducibile dai lavori preparatori), sembra corretto affermare che l'art. 1 della legge n. 689 del 1981, nella parte statuente il divieto di retroattività, andrebbe interpretato come limitato alle sole previsioni amministrative sanzionatone di fatti prima del tutto leciti.
Il cittadino, infatti, non deve trovarsi esposto a sanzioni amministrative (che, come nel caso in esame, potrebbero comportare esborsi pecuniari ben più gravosi rispetto alle precedenti pene pecuniarie) per atti o fatti compiuti quando, non essendovi ancora una legge che tali sanzioni prevedesse, non aveva avuto la possibilità di autodeterminarsi responsabilmente in riferimento ad esse.
In seguito ad una nuova e diversa valutazione discrezionale del legislatore - che implica soluzione di continuità nella risposta sanzionatoria alla trasgressione di un determinato precetto - non sembra possa aprioristicamente profilarsi, infine, una non giustificabile disparità di trattamento violatrice dell'art. 3 della Costituzione per il solo fatto che coloro che hanno trasgredito un determinato precetto rimangono esenti da qualsiasi sanzione allorché tale trasgressione abbiano commesso quando essa costituiva reato.
8. Per le considerazioni dianzi svolte la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio, limitatamente all'ordine di trasmissione degli atti all'autorità doganale, mentre il ricorso deve essere rigettato nel resto.

                                                                                                       P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, limitatamente all'ordine di trasmissione degli atti all'autorità doganale.
Rigetta il ricorso nel resto.
Così deciso il 29/03/2012