Le Sezioni Unite hanno affermato che l’astensione dalle udienze da parte del difensore, che aderisca ad una protesta di categoria, non è consentita nei procedimenti “de libertate”, in quanto l’art. 4 del Codice di “Autoregolamentazione delle astensioni dalle udienze degli avvocati”, adottato il 4 aprile 2007 e ritenuto idoneo dalla Commissione di garanzia dell’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi essenziali con delibera del 13 dicembre 2007, avente valore di normativa secondaria, esclude espressamente che l’astensione possa riguardare le udienze penali “afferenti misure cautelari”. 


RITENUTO IN FATTO
1. Il Tribunale di Napoli, con ordinanza del 16 febbraio 2012 - depositata il successivo 23 febbraio 2012 - in funzione di giudice dell'appello cautelare, ha accolto l'impugnazione del Pubblico Ministero nei confronti del provvedimento del maggio 2010 con il quale il Giudice del medesimo Tribunale, all'esito di giudizio celebrato con il rito abbreviato, aveva sostituito con la misura degli arresti domiciliari quella della custodia cautelare in carcere, disposta nei confronti di **** ****, per vari reati di illecita detenzione e porto in luogo pubblico di arma comune da sparo clandestina, di ricettazione e dì estorsione, aggravati dall'uso del metodo mafioso e dalla finalità di agevolazione mafiosa.
Il Tribunale del riesame ha rilevato l'impossibilità di sostituzione della misura cautelare carceraria con altra meno gravosa, ritenendo a ciò ostativo il combinato disposto degli artt. 275, comma 3, e 299, comma 2, cod. proc. pen., e ciò in conseguenza della contestazione all'**** della circostanza aggravante di cui aH'art. 7 d.l. n. 152 del 1991.
2. Avverso tale ordinanza ha proposto ricorso per cassazione **** ****, per mezzo del difensore avv. **** ****, deducendo violazione di legge processuale e difetto di motivazione, con argomentazioni che possono così riassumersi; la disposizione di cui all'art. 275, comma 3, cod. proc. pen., contiene una presunzione soltanto relativa di adeguatezza della custodia cautelare in carcere, tale da poter essere superata dall'apprezzamento discrezionale del giudice, e ciò alla luce dell'evoluzione giurisprudenziale in materia influenzata dalle plurime decisioni della Corte costituzionale che hanno di recente dichiarato la parziale illegittimità, per categorie di reato, della disposizione sopra indicata.
3. Con ordinanza del 10 maggio 2012 la Sesta Sezione penale, alla quale il ricorso era stato assegnato In base ai criteri tabellari, ha rimesso il ricorso alle Sezioni Unite, per la risoluzione della questione, oggetto di contrasto in giurisprudenza, se la presunzione di adeguatezza della custodia cautelare in carcere consenta di sostituire detta misura, successivamente alla sua adozione, con altre meno afflittive, oppure permetta soltanto di revocarla qualora le esigenze cautelari siano del tutte venute meno.
Con l'ordinanza di rimessione sono state indicate le più significative decisioni della Corte di cassazione a sostegno dell'uno e dell'altro indirizzo, e sinteticamente ricordate le considerazioni addotte a sostegno dei due contrapposti orientamenti: a) nelle decisioni favorevoli all'orientamento della presunzione assoluta di inadeguatezza di ogni altra misura diversa da quella della custodia in carcere, anche successivamente all'adozione della misura, vengono valorizzate la lettera della norma ed un argomento sistematico ritenuto desumibile dall'art. 299, comma 2, cod. proc. pen., laddove è consentita la sostituzione della misura con altra meno grave, quando le esigenze cautelari risultano attenuate ovvero quando la misura applicata non appare più proporzionata all'entità del fatto o alla sanzione che si ritiene possa essere irrogata, ma con espressa eccezione proprio delle ipotesi contemplate dall'art. 275, comma 3, del codice di rito: con conseguente irrilevanza, quindi, dell'eventuale affievolimento delle esigenze cautelari, perché solo il venir meno delle stesse potrebbe comportare la revoca della misura; b) per l'orientamento contrario, l'obbligatorietà dell'applicazione della misura della custodia in carcere opererebbe solo in occasione dell'adozione del provvedimento genetico della misura cautelare dovendo essere valutati il decorso del tempo e la concreta sussistenza della prosecuzione della pericolosità sociale del soggetto e, qualora questa risulti attenuata, la possibilità, da ritenersi dunque legittima, di applicare la misura meno afflittiva.
4. Con decreto del 6 giugno 2012, il Primo Presidente ha assegnato il ricorso in esame alla Sezioni Unite, fissando l'udienza del 19 luglio 2012 per la trattazione in camera di consiglio.
5. Con ordinanza n. 3447 emessa all'esito dell'udienza del 19 luglio 2012 (dep. 10/09/2012), le Sezioni Unite, ribadendo quanto incidentalmente affermato da Sez. U, n. 27919 del 31/03/2011, Ambrogio, hanno enunciato il seguente principio: «La presunzione di adeguatezza della custodia in carcere ex art, 275, comma 3, cod. proc. pen. opera non solo in occasione dell'adozione del provvedimento genetico della misura coercitiva ma anche nelle vicende successive che attengono alla permanenza delle esigenze cautelari».
6. Risolto il quesito sottoposto al vaglio delle Sezioni Unite, ed essendo stata contestata all'**** l'aggravante prevista dall'art. 7 d.l. n. 152 del 1991 (convertito dalla legge n. 203 del 1991), il Collegio, con la riferita ordinanza del 19 luglio 2012, ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 275, comma 3, secondo periodo, cod. proc. pen., in relazione all'art. 7 del citato decreto-legge, in riferimento agli artt. 3, 13, primo comma, e 27, terzo comma, Cost., rimettendo conseguentemente gli atti, previa sospensione del procedimento, alla Corte cost.
7. La Corte costituzionale, con sentenza n. 57 del 25 marzo 2013, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 275, comma 3, secondo periodo, cod. proc. pen., come modificato dall'art. 2, comma 1, d.l. 23 febbraio 2009, n. 11 (recante "Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori"), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui - nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'articolo 416-bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari - non fa salva, altresì, l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.
8. A seguito della restituzione degli atti alla Corte di cassazione, il Primo Presidente ha quindi fissato l'odierna udienza camerale per la decisione del ricorso proposto dall'****.
9. In data 22 maggio 2013, l'avv. **** ****, difensore dell'****, ha comunicato, a mezzo telefax, la propria intenzione di aderire all'astensione nazionale degli avvocati dalle udienze proclamata per i giorni 29 e 30 maggio dall'Organismo Unitario dell'Avvocatura, ed ha chiesto il rinvio del procedimento.

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Va preliminarmente dato atto che il Collegio ha rigettato la riferita richiesta di rinvio formulata dal difensore del ricorrente, con ordinanza letta in udienza, che qui di seguito si trascrive.
«Ritenuto che la Corte costituzionale con la sentenza n. 171 del 1996 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 2, commi 1 e 5, della legge 12 giugno 1990, n. 146, nella parte in cui non era previsto, nel caso di astensione collettiva dall'attività giudiziaria degli avvocati e procuratori legali, l'obbligo d'un congruo preavviso e di un ragionevole limite temporale dell'astensione e non prevedeva altresì gli strumenti idonei a individuare e assicurare le prestazioni essenziali, nonché le procedure e le misure consequenziali nell'ipotesi di inosservanza; considerato che il Giudice delle leggi ha affermato in particolare che "se l'astensione dalle udienze degli avvocati e procuratori è manifestazione incisiva della dinamica associativa volta alla tutela di questa forma di lavoro autonomo, essa non può essere ricondotta a mera facoltà di rilievo costituzionale", avuto riguardo alle "indubbie peculiarità della avvocatura considerate in più parti della Carta costituzionale"; riconducendo in tal modo l'astensione collettiva dalla attività giudiziaria da parte degli avvocati nel perimetro dei diritti "di libertà dei singoli e dei gruppi che ispira l'intera prima parte della Costituzione": un diritto, quindi, e non semplicemente un legittimo impedimento partecipativo; - considerato che, per soddisfare le esigenze di bilanciamento tra le istanze contrapposte additate dalla richiamata pronuncia della Corte costituzionale, la legge n. 146 del 1990 è stata appositamente novellata ad opera della legge n, 83 del 2000, la quale ha introdotto l'art. 2-bis che ha appunto previsto per l'astensione collettiva da parte di "lavoratori autonomi, professionisti e piccoli imprenditori" l'adozione di appositi codici di autoregolamentazione destinati a realizzare il "contemperamento con i diritti della persona costituzionalmente tutelati di cui all'art. 1" della stessa legge, previa verifica di idoneità da parte della apposita Commissione di garanzia; - considerato che, in base alla richiamata disposizione legislativa è stato adottato da parte degli organismi di categoria, il 4 aprile 2007, il Codice di autoregolamentazione delle astensioni dalle udienze degli avvocati, e che tale codice, con le modifiche apportate nel corso delle successive audizioni, è stato valutato idoneo dalla Commissione di garanzia dell'attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali con deliberazione del 13 dicembre 2007, la quale ha disposto la pubblicazione del codice stesso e della citata delibera sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana e sul sito Internet della stessa Commissione; - considerato, dunque, che il codice di che trattasi assume valore di normativa secondaria alla quale occorre conformarsi; considerato che l'art. 4, lett. a), del codice in questione espressamente prevede che l'astensione non è consentita in materia penale, fra l'altro, in riferimento alle udienze "afferenti misure cautelari"; - rilevato che nella specie non trova applicazione l'ipotesi di cui alla lett. b) dell'art. 4 del Codice di autoregolamentazione, concernendo essa le attività processuali partecipate - che si svolgono in qualsiasi stato e grado del procedimento - diverse dalle "udienze afferenti misure cautelari" - riguardanti imputati sottoposti a custodia cautelare o detenzione; - ritenuto, dunque, che, nel caso in esame, il procedimento cui si riferisce la dichiarazione di astensione dalle udienze è relativo alla trattazione di una procedura incidentale de liberiate ai sensi dell'art. 311 cod. proc. pen., e che dunque per essa, al lume della richiamata disposizione del Codice di autoregolamentazione, non è consentita l'astensione dalla udienza; - P.Q.M. Respinge l'istanza di rinvio presentata dal difensore del ricorrente».
2. Venendo al merito del ricorso, come ricordato nella parte narrativa, con l'ordinanza del 19 luglio 2012 le Sezioni Unite hanno ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 275, comma 3, secondo periodo, cod. proc. pen., come modificato dall'art. 2 d.l. 23 febbraio 2009, n. 11 ("Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori"), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprii* 2009, n. 38, nella parte in cui - nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti commessi al fine di agevolare le attività delle associazioni previste dall’art. 416- bis cod. pen. (aggravante così contestata nella concreta fattispecie), è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari - non fa salva, altresì, l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure; non manifesta infondatezza ritenuta ravvisabile in relazione ai seguenti articoli della Costituzione: art. 3, per l'ingiustificata parificazione dei procedimenti relativi ai delitti aggravati ai sensi dell'art. 7 d.l. n. 152 del 1991 a quelli concernenti i delitti di mafia nonché per l'irrazionale assoggettamento ad un medesimo regime cautelare delle diverse ipotesi concrete riconducibili ai paradigmi punitivi considerati; art. 13, primo comma, quale referente fondamentale del regime ordinario delle misure cautelari privative della libertà personale; art. 27, secondo comma, con riferimento all'attribuzione alla coercizione processuale di tratti funzionali tipici della pena.
E' stata evocata l'evoluzione della giurisprudenza costituzionale - avente ad oggetto la portata della presunzione di cui all'art. 275, comma 3, cod. proc. pen. - sviluppatasi attraverso plurime pronunce di declaratoria di parziale incostituzionalità di tale norma (tutte specificamente ed analiticamente ricordate nell'ordinanza di rimessione).
3. La Corte Costituzionale, con la citata sentenza n. 57 del 25 marzo 2013 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 275, comma 3, secondo periodo, cod. proc. pen., come modificato dall'art. 2, comma 1, d.l. 23 febbraio 2009, n. 11 (recante "Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori"), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui - nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'articolo 416-bis cod. pen. ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari - non fa salva, altresì, l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.
3.1. In parte motiva, la sentenza ricorda che l'irragionevolezza in questione è stata già riscontrata rispetto alla presunzione assoluta dell'art. 275, comma 3, cod. proc.pen., nella parte in cui era riferita ad alcuni delitti a sfondo sessuale (sent. n. 265 del 2010), all'omicidio volontario (sent. n. 164 del 2011), all'associazione finalizzata al traffico di stupefacenti (sent. n. 231 del 2011), all'associazione per delinquere realizzata allo scopo di commettere i delitti previsti dagli artt. 473 e 474 cod. pen. (sent. n. 110 del 2012) e anche rispetto alla presunzione assoluta dell'art. 12, comma 4-bis, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 ("Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero"), relativa ad alcune figure di favoreggiamento delle immigrazioni illegali (sent. n. 331 del 2011).
3.2. Quanto al caso di specie, la Corte osserva in particolare quanto segue: «ciò che vulnera i parametri costituzionali richiamati [artt. 3, 13, primo comma, 27, secondo comma] non è la presunzione in sé, ma il suo carattere assoluto, che implica una indiscriminata e totale negazione di rilevanza al principio del 'minore sacrificio necessario', mentre la previsione di una presunzione solo relativa di adeguatezza della custodia carceraria, superabile da elementi di segno contrario, non eccede i limiti di compatibilità costituzionale, rimanendo per tale verso non censurabile l'apprezzamento legislativo circa la ordinaria configurabilità di esigenze cautelari nel grado più intenso». A tale conclusione la Corte costituzionale perviene attraverso un triplice ordine di considerazioni. In primo luogo, la presunzione assoluta, sulla quale fa leva il regime cautelare speciale, non risponde, con riferimento ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416-bis cod.pen. o al fine di agevolare le attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, a dati di esperienza generalizzati, essendo possibile configurare un'estraneità dell'autore di tali delitti a un'associazione di tipo mafioso, tale da far escludere che si sia sempre in presenza di un reato che implichi o presupponga necessariamente un vincolo di appartenenza permanente a un sodalizio criminoso con accentuate caratteristiche di pericolosità. Sicché «una fattispecie che, anche se collocata in un contesto mafioso, non presupponga necessariamente siffatta 'appartenenza' non assicura alla presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare in carcere un fondamento giustificativo costituzionalmente valido». Per la Corte, quindi, «il semplice impiego del cosiddetto 'metodo mafioso' o la finalizzazione della condotta criminosa all'agevolazione di un'associazione mafiosa [...] non sono necessariamente equiparabili, ai fini della presunzione in questione, alla partecipazione all'associazione». In secondo luogo, la sentenza ricorda che la disciplina censurata è applicabile, con riferimento a qualsiasi delitto, perfino di modesta entità, purché connotato dalla finalità di "agevolazione mafiosa" o dalla realizzazione mediante il "metodo mafioso", il che sta a significare che il regime cautelare speciale è collegato non già a singole fattispecie incriminatrici ma a circostanze aggravanti, riferibili ai più vari reati e correlativamente alle più diverse situazioni oggettive e soggettive. Alla luce di tale rilievo oggettivo, la Corte osserva che «l'ampio numero dei reati-base suscettibili di rientrare nell'ambito di applicazione del regime cautelare speciale segnala la possibile diversità del 'significato' dì ciascuno di essi sul piano dei pericula libertatis, il che offre un'ulteriore conferma dell'insussistenza di una congrua 'base statistica' a sostegno della presunzione censurata»; la qual cosa accentua la differenza di situazioni tra la posizione dell'autore dei delitti commessi avvalendosi del cosiddetto "metodo mafioso" o al fine di agevolare le attività delle associazioni di tipo mafioso, delle quali egli non faccia parte, e quella dell'associato o del concorrente nella fattispecie associativa, per la quale soltanto la presunzione delineata dall'art. 275, comma 3, cod. proc. pen. risponde a dati di esperienza generalizzati. In terzo ed ultimo luogo, la Corte esclude che «l'inserimento dei delitti commessi avvalendosi del cosiddetto 'metodo mafioso', o al fine di agevolare le attività delle associazioni previste dall'art. 416-b/s cod. pen., tra i reati indicati dall'art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen. sia idoneo, di per sé solo, a offrire legittimazione costituzionale alla norma in esame... posto che la disciplina stabilita da tale disposizione risponde a 'una logica distinta ed eccentrica' rispetto a quella sottesa alle disposizioni sottoposte a scrutinio, trattandosi di una normativa ispirata da ragioni di opportunità organizzativa degli uffici del pubblico ministero, anche in relazione alla tipicità e alla qualità delle tecniche di indagine richieste da taluni reati, ma che non consentono inferenze in materia di esigenze cautelari, tantomeno al fine di omologare quelle relative a tutti procedimenti per i quali quella deroga è stabilita».
3.3. Nel dichiarare quindi l'illegittimità costituzionale dell'art. 275, comma 3, secondo periodo, cod. proc. pen., nella parte in cui non fa salva l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure, la Corte costituzionale ha compiuto un'affermazione che risulta rilevante nel giudizio in corso, laddove ha osservato che «nell'apprezzamento di queste ultime risultanze, il giudice dovrà valutare gli elementi specifici del caso concreto, tra i quali l'appartenenza dell'agente ad associazioni di tipo mafioso ovvero la sua estraneità ad esse». In uno dei primi commenti alla sentenza, si è messo in rilievo che «la trasformazione della presunzione da assoluta a relativa implica pur sempre che il giudice, nell’applicare nel caso concreto una misura diversa dalla custodia in carcere, veda elementi di positiva e concreta attenuazione del valore sintomatico del fatto».
4. Passando ora ad esaminare te censure dedotte dall'****, quali sopra riassunte nella parte narrativa, appare evidente la fondatezza delle stesse alla luce del dictum della Corte costituzionale appena illustrato.
Il Tribunale del riesame, invero, ha disposto nei confronti dell'**** la misura della custodia in carcere - in accoglimento dell'appello del P.m. avverso il provvedimento con il quale all'**** stesso erano stati concessi gli arresti domiciliari - muovendo esplicitamente dal rilievo della ritenuta presunzione assoluta di adeguatezza della più severa misura coercitiva, ex art. 275, comma
3, secondo periodo, cod. proc. pen., in presenza della contestata aggravante dell'uso del metodo mafioso e dalla finalità di agevolazione mafiosa di cui all'art.
6 d.l. n. 152 del 1991.
Orbene, sulla scorta della declaratoria di incostituzionalità pronunciata con la sentenza n. 57 del 2013, si impone l'annullamento dell'ordinanza impugnata dall'****, con rinvio al Tribunale di Napoli che, in applicazione dei canoni Interpretativi indicati dal Giudice delle leggi, dovrà valutare se tuttora sussistano esigenze cautelari da tutelare in relazione alla contestazione mossa all'****, e se tali esigenze, ove ritenute persistenti, siano tali da poter essere adeguatamente salvaguardate con misura diversa da quella della custodia in carcere.

                                                                                        PQM
Annulla la ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame al Tribunale di Napoli.
Così deciso il 30/05/2013