Le Sezioni Unite hanno affermato che l’offerta o promessa di denaro o di altra utilità al consulente tecnico del pubblico ministero finalizzata ad influire sul contenuto della consulenza, integra il delitto di intralcio alla giustizia in relazione alle ipotesi di cui agli artt. 371-bis o 372 cod. pen., e che il precisato ausiliario è equiparato alla persona informata sui fatti o al testimone anche quando è chiamato a formulare giudizi di natura tecnico-scientifica 


 RITENUTO IN FATTO
1. L'oggetto del processo è costituito dalla condotta di alcuni soggetti che consegnavano ad un consulente tecnico del Pubblico Ministero una somma di denaro (da quello simulatamente accettata) allo scopo di fargli predisporre una consulenza falsa.
In particolare, la vicenda processuale in esame trae origine da un incidente aereo, avvenuto il 1° giugno 2003, nello spazio sovrastante l'aeroporto di Milano Linate, che causò la caduta di un aeromobile della compagnia Eurojet su un capannone industriale e la morte del pilota e del copilota.
Durante le indagini preliminari che seguirono, il Pubblico Ministero nominò un consulente tecnico, ex art. 359 cod. proc. pen., nella persona del signor ****, funzionario Enac.
Nel corso degli accertamenti tecnici, il consulente citato fu avvicinato da un suo conoscente e collega, tale **** ****, ispettore Enac a Milano ed addetto al controllo operativo di Eurojet, il quale gli prospettò la possibilità di ottenere una grossa somma di denaro in cambio di un elaborato tecnico favorevole alla compagnia aerea.
Il **** finse di accettare ma avvisò immediatamente il Pubblico Ministero, che predispose attività investigativa che consentisse la prosecuzione della trattativa corruttiva, sia pure sotto il controllo della polizia giudiziaria, in modo che venissero individuate tutte le possibili responsabilità.
All'esito dell’indagine, emersero profili di responsabilità nei confronti del citato **** e di **** **** **** ed **** **** (soci della compagnia aerea ed il secondo anche legale rappresentante) nonché dell'aw. **** ****, difensore di questi ultimi, il quale, secondo quanto emerso, avrebbe avuto il compito di indicare quale avrebbe dovuto essere il contenuto della consulenza tecnica per risultare favorevole ai suoi assistiti.
Il Pubblico Ministero, con gli elementi acquisiti a carico dei citati indagati, chiese ed ottenne dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano ordinanza cautelare per il delitto di corruzione in atti giudiziari, di cui all'art. 319- ter cod. pen.
Già in sede di interrogatori di garanzia gli indagati ammisero la materialità dei fatti storici, seppure cercando di giustificare l'offerta corruttiva con la finalità di evitare una consulenza sfavorevole da parte del tecnico nominato dal Pubblico Ministero, ritenuto in qualche modo prevenuto nei confronti della società e dei suoi amministratori.
L'ordinanza venne annullata dal Tribunale del riesame per erronea qualificazione del fatto: non essendosi conclusa la trattativa, il reato prospettabile era quello di Istigazione alla corruzione, di cui all'art. 322 cod. pen.
Avverso il provvedimento del controllo cautelare propose ricorso per cassazione il Pubblico Ministero milanese.
La Corte di cassazione rigettò il ricorso, confermando che la corruzione in atti giudiziari non si era consumata. In motivazione ritenne di poter sussumere il fatto storico nell'ipotesi delittuosa di tentativo di corruzione in atti giudiziari.
A ciò giunse sul presupposto che, in base alla lettera dell'art. 322 cod. pen., l'istigazione non era assolutamente configurabile quando il reato corruttivo finale preordinato era quello di cui all'art. 319-tercod. pen.
In sede di indagini venne successivamente sollevata questione sulla competenza territoriale, rimessa al Procuratore generale presso la Corte di cassazione, ex art. 54-quater cod. proc. pen.
L'incidente venne risolto attribuendo la competenza alla Procura della Repubblica di Roma, sul presupposto che, qualificato come istigazione alla corruzione ex art. 322 cod. pen., il reato si era consumato in Roma.
Il Pubblico Ministero a cui venne trasmesso il fascicolo, all'esito delle indagini, non ritenne però di contestare la fattispecie delittuosa individuata dal Procuratore generale presso la Corte di cassazione ed esercitò l'azione penale nei confronti dei quattro imputati per il delitto di intralcio alla giustizia, ex art. 377 cod. pen., ritenuto commesso a Roma il 2 giugno 2006.
Avendo gli imputati **** e **** optato per il rito abbreviato, il Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Roma, con sentenza del 26 novembre 2008, concordando sulla qualificazione giuridica proposta dal Pubblico Ministero, condannò gli imputati alla pena di anni uno e mesi otto di reclusione ciascuno, con la sospensione condizionale.
Con successiva ordinanza, emessa il 23 gennaio 2009, stesso giorno in cui venne depositata la motivazione, il Giudice dell'udienza preliminare operò una correzione del dispositivo, irrogando la pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici per la stessa durata della pena principale, anch'essa sospesa.
In motivazione, il Giudice evidenziò come la fattispecie di cui all'art. 377 cod. pen. era da considerarsi speciale rispetto a quella dell'art. 322 cod. pen. e che essa andava ritenuta sussistente, nel caso in contestazione, in quanto l'attività allettatrice, svolta nei confronti del collaboratore del Pubblico Ministero, era finalizzata ad ottenere una testimonianza favorevole nel futuro dibattimento; il consulente tecnico, infatti, avrebbe dovuto essere considerato, nella prospettiva del processo, un testimone, giusta il disposto dell'art. 501 cod. proc. pen.
La Corte di appello di Roma, con sentenza del 2 maggio 2012 pronunciata a seguito di impugnazione degli imputati, in riforma della sentenza del primo giudice, riqualificata la condotta contestata ai sensi degli artt. 110 e 322 cod. pen., determinò la pena, tenuto conto della diminuente del rito, in anni uno di reclusione ciascuno e revocò la pena accessoria.
Secondo la Corte di appello non era possibile qualificare il fatto in termini di intralcio alla giustizia, essendo questo delitto prospettabile solo nel caso in cui il soggetto avvicinato rivesta già la qualifica di teste, per essere stato citato con questo ruolo a partecipare al giudizio.
Pur condividendo l'impostazione del primo giudice sul carattere speciale della fattispecie di cui all'art. 377 cod. pen. rispetto a quella punita nel capo dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, la Corte di appello di Roma ritenne, però, per la ragione da ultimo indicata, inapplicabile la norma speciale. Confermò quindi la declaratoria di responsabilità, previa modificazione del titolo del reato.
A sostegno della propria tesi, la Corte distrettuale richiamò anche l'unico arresto edito della Suprema Corte, che aveva qualificato la proposta corruttiva avanzata ad un consulente tecnico di un pubblico ministero proprio come istigazione alla corruzione.
2. Contro la decisione della Corte di appello gli imputati hanno presentato, a mezzo del medesimo difensore, ricorso per cassazione, articolato in un unico motivo, con cui denunciano sia la violazione dell'art. 322 cod. pen. sia il vizio di motivazione.
Dopo una lunga premessa in cui viene ricostruito il fatto ed operata una alquanto esaustiva rassegna della giurisprudenza in argomento, evidenziano come, alla luce dell'impostazione sistematica del codice, il reato commesso dal consulente tecnico non possa che essere inquadrato, in astratto, fra le ipotesi dei reati contro l'amministrazione della giustizia.
Il legislatore, infatti, ha dimostrato, con le sue scelte, una volontà inequivoca: concentrare in un'apposita sezione tutte le condotte relative a reati contro l'amministrazione della giustizia.
In concreto, però, non sarebbe ipotizzabile il delitto di cui all'art. 377 cod. pen. perché mancherebbe il requisito soggettivo; nel caso di specie, infatti, il consulente tecnico, non avendo ancora assunto la veste di testimone, non poteva essere annoverato fra i soggetti nei cui confronti ha rilevanza penale una attività subornatrice.
Ravvisare, d'altro canto, nel fatto un'ipotesi di reato contro la pubblica amministrazione (e quindi il delitto di cui all'art. 322 cod. pen.), oltre ad apparire una scelta in contrasto con le indicazioni del legislatore, incontrerebbe un ostacolo insormontabile, rappresentato dalla violazione degli artt. 3 e 25 Cost
Infatti, il tentativo di corruzione di un consulente tecnico di parte verrebbe punito più severamente del tentativo di corruzione nei confronti del perito o del consulente tecnico del giudice civile o del consulente tecnico del pubblico ministero già ammesso a deporre in dibattimento.
Andrebbe, in conclusione, ravvisata, secondo i ricorrenti, la fattispecie di istigazione a commettere falsa consulenza (artt. 115, 380 cod. pen.), che, non essendo stata accolta, sarebbe non punibile ex art. 115 cod. pen.
In subordine, i ricorrenti hanno eccepito la incostituzionalità dell'art. 322, comma secondo, cod. pen. per contrasto con l'art. 3 Cost.
3. Con ordinanza n. 12901 del 14 marzo 2013 la Sesta Sezione penale della Corte di cassazione ha rimesso alle Sezioni Unite, sul presupposto di un potenziale contrasto di giurisprudenza, la questione così di seguito riassumibile: "se sia configurabile il reato di intralcio alla giustizia di cui all'art. 377 cod. pen. nel caso di offerta o di promessa di denaro o di altra utilità al consulente tecnico del pubblico ministero al fine di influire sul contenuto della consulenza, qualora il consulente tecnico non sia stato ancora citato per essere sentito sul contenuto della consulenza”.
Il Collegio ha evidenziato in premessa quali fossero le possibili opzioni ermeneutiche in campo.
Ha ricordato che nell’ambito della stessa vicenda in esame, in sede di valutazione cautelare della posizione del coimputato ****, la Corte di cassazione aveva ritenuto configurabile la fattispecie di tentata corruzione in atti giudiziari; ha, però, ritenuto trattarsi di un orientamento a cui non potesse darsi seguito; in mancanza di un accordo corruttivo, la condotta dell'istigatore, diretta a un soggetto che non l'abbia accolta, andava infatti ricondotta nella fattispecie di cui all'art. 322 cod. pen. Quest'ultima disposizione, in effetti, pur riferendosi formalmente alle ipotesi corruttive di cui agli artt. 318, comma primo, e 319 cod. pen., si attagliava anche a quella di cui all'art. 319-ter cod. pen., posto che quest'ultimo articolo richiamava «i fatti indicati negli articoli 318 e 319».
Di conseguenza, la questione interpretativa si concentrava sull'applicabilità di una delle due fattispecie delittuose già sperimentate nel corso del procedimento di merito, e cioè l'istigazione alla corruzione o l'intralcio alla giustizia.
Nell'ordinanza di rimessione si è ricordato come la lettura ermeneutica fatta propria dalla Corte di appello risultasse supportata dall'unico arresto edito che si era occupato di un caso analogo; con la sentenza n. 4062 del 1999, imp. Pizzicaroli, infatti, la medesima Sesta Sezione aveva ritenuto sussistente il delitto di istigazione alla corruzione, di cui all'art. 322, comma secondo, cod. pen., sul presupposto che il consulente tecnico del Pubblico Ministero, cui era stata offerta un'utilità per "addomesticare" gli esiti del suo accertamento, non aveva ancora assunto il ruolo formale di testimone.
Ha ritenuto, però, che la prospettazione difensiva secondo cui vi sarebbero stati ostacoli formali nel configurare il delitto di istigazione alla corruzione avesse, almeno in parte, fondamento.
La prospettiva patrocinata nel 1999 dalla citata sentenza della Cassazione e nell'odierno processo dal Giudice collegiale di appello, rischiava, in primo luogo, di apparire in contrasto con il dettato degli artt. 3 e 25 Cost.
L'offerta di denaro o di altra utilità al consulente del pubblico ministero (pubblico ufficiale) per il compimento di una falsa consulenza sarebbe stata punita più gravemente dell'analoga condotta diretta a un perito, che rientrava pacificamente, per il principio di specialità, nell'art. 377, comma primo, cod. pen.. Nella prima ipotesi, infatti, per il combinato disposto degli artt. 319 e 322 cod. pen. (nella formulazione vigente prò tempore, prima della riforma della legge n. 190 del 2012), sarebbe stata irrogabile la reclusione da un anno e quattro mesi a tre anni e quattro mesi; nella seconda, invece, per il combinato disposto degli artt. 372, 373 e 377 cod. pen., la reclusione da otto mesi a tre anni.
Ma anche sotto un altro profilo la conclusione proposta sarebbe parsa difficilmente giustificabile sul piano della razionalità complessiva del sistema; solo questa particolare, e neppure più grave, forma di intralcio alla giustizia non sarebbe stata ricompresa nella specifica partizione del codice dedicata ai delitti contro l'amministrazione della giustizia, confluendo in quella dei delitti contro la pubblica amministrazione.
Partendo proprio da quest'ultima considerazione di carattere sistematico, l'ordinanza ha esplorato la possibilità di considerare corretta la conclusione cui era pervenuto il Giudice di primo grado, quando aveva condannato gli imputati per il delitto di intralcio alla giustizia.
Quel Giudice aveva, infatti, individuato il riferimento implicato dall'art. 377 cod. pen. nell'art. 372 (o nell'art. 371 -bis), e non nell'art. 373 cod. pen.
In tal modo aveva superato una delle obiezioni mosse dalla dottrina, e riproposta anche dai ricorrenti, per sostenere l'inapplicabilità dell'art. 377 cod. pen. nel caso di subornazione del consulente tecnico del pubblico ministero; la proposta corruttiva del privato non poteva di certo mirare al confezionamento di una falsa perizia, punita dall'art. 373 cod. pen., perché il consulente tecnico del pubblico ministero non era un perito e non produceva, dunque, alcuna perizia.
Nel concludere per la sostenibilità della costruzione del Giudice di primo grado, l'ordinanza di rimessione ha ritenuto non accogligli i rilievi dei ricorrenti nella parte in cui evidenziavano che non sarebbe stato evocabile nemmeno Kart. 372 cod. pen., pure richiamato dall'art. 377 dello stesso codice.
La difesa degli imputati, in particolare, aveva utilizzato due argomenti a sostegno del suo ragionamento:
a) il consulente tecnico (al pari del perito) non era un testimone, non dovendo riferire su fatti, ma dovendo solo esprimere il suo sapere tecnico;
b) ai fini dell'assunzione da parte di un soggetto della veste di testimone occorreva che il medesimo fosse stato già citato a giudizio per rendere la sua dichiarazione.
Entrambi i rilievi sono stati reputati dalla Sesta Sezione non dirimenti.
Quanto al primo, si é evidenziato che al consulente tecnico (al pari del perito) si estendevano le disposizioni sull'esame dei testimoni, a norma dell'art. 501 cod. proc. pen.; anche se il consulente tecnico non era un testimone (nel senso propriamente indicato dall'art. 194 cod. proc. pen.), e, quindi, non riferiva su "fatti" ma esprimeva valutazioni su materie che richiedevano specifiche competenze (v. art. 220 cod. proc. pen.), nondimeno egli ben poteva "affermare il falso o negare il vero", secondo la previsione dell'art. 372 cod. pen., o "rendere dichiarazioni false", secondo quella dell'art. 371 -bis cod. pen., ad esempio tacendo o alterando determinati esiti obiettivi degli accertamenti espletati, escluso, beninteso, ogni sindacato su aspetti meramente valutativi relativi a detti accertamenti.
Non si sarebbe compreso del resto, ragionando ex adverso, il senso del richiamo fatto dal citato art. 501 alle regole sull'esame del testimone, tra cui vi era quella diretta al soggetto esaminato, per nulla incompatibile con la funzione assegnata al consulente tecnico, di «rispondere secondo verità alle domande che gli sono rivolte» (art. 198 cod. proc. pen.).
Anche l'individuazione della qualificazione soggettiva del consulente tecnico poteva contribuire a dimostrare l'assunto: il consulente tecnico, chiamato a collaborare con una parte privata, era tradizionalmente concepito come un soggetto che esprimeva un ruolo di ausilio alla difesa, donde la sua equiparazione, quanto a funzione e garanzie, al difensore; quello nominato dal pubblico ministero, sia pure prestando un'attività di ausilio a una "parte" del processo, ripeteva dalla funzione pubblica dell'organo che coadiuvava i relativi connotati.
Quest'ultimo soggetto acquistava, quindi, natura di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio nel momento in cui compiva le sue attività incaricate dal pubblico ministero, secondo la distinzione funzionale di cui agli artt. 357 e 358 cod. pen.
Su lui gravava di conseguenza il dovere, connaturato a ogni parte pubblica, di obiettività e Imparzialità, nel senso che la sua funzione era tesa al raggiungimento di interessi pubblici, quale, in primis, l'accertamento della verità, posto che il pubblico ministero doveva svolgere indagini su fatti e circostanze anche a favore della persona sottoposta alle indagini (art. 358 cod. proc. pen.).
Il ruolo e la funzione rivestiti gli imponevano dunque il dovere di verità.
Anche sotto questo profilo, quindi, era del tutto razionale che a lui fossero applicabili le conseguenze penali previste, in caso di false dichiarazioni, dall'art.
372 cod. pen. (o, in sede di indagini, dall'art. 371 -bis cod. pen.), ovviamente limitatamente a quella parte di attività che non conteneva valutazioni tecnico¬scientifiche, ma riportava l'esposizione circa la natura e la consistenza di queste.
Del resto - aggiungeva ancora l'ordinanza - l'applicabilità della fattispecie di intralcio alla giustizia al consulente del pubblico ministero trovava un addentellato letterale nel riferimento al "consulente tecnico", inserito nel testo dell'art. 377 cod. proc. pen., senza ulteriori specificazioni, ad opera del d.l. n. 306 del 1992, che si prestava a essere riferito anche alla figura in esame.
L'opinione contraria espressa in dottrina, secondo cui il riferimento al consulente tecnico inserito dal d.l. n. 306 cit. avrebbe riguardato solo quello nominato dal giudice civile, si scontrava sia con un'obiezione formale (una simile specificazione non era indicata dalla norma) sia soprattutto con una insuperabile considerazione sistematica: l'estensione al consulente tecnico in sede civile delle disposizioni penali relative ai periti discendeva positivamente dalla espressa previsione dell'art. 64, comma primo, cod. proc. civ., dovendosi essa dunque apprezzare, ove questo ne fosse il senso, chiaramente superflua; tanto che si era sempre ritenuto che il riferimento al "perito", contenuto nell'art. 373 cod. pen., dovesse intendersi fatto anche al consulente del giudice civile, proprio in forza del citato art. 64 cod. proc. civ.
Quanto al secondo rilievo, l'ordinanza ha premesso che non poteva negarsi che, nel caso in esame, il consulente del pubblico ministero non era ancora stato citato come testimone o come persona informata sui fatti al momento della realizzazione della condotta subornatrice.
Ha evidenziato, altresì, come, per la giurisprudenza dominante, la qualità di testimone, nel reato di cui all'art. 377 cod. pen., veniva considerata assunta nel momento dell'autorizzazione del giudice alla citazione del soggetto in questa veste, ai sensi dell'art. 468, comma 2, cod. proc. pen.
Quest'ultima affermazione, però, non è sembrata poter valere automaticamente nel caso in cui il soggetto su cui si esercitava l'attività induttiva
o violenta fosse il consulente tecnico del pubblico ministero.
In questa evenienza, infatti, il soggetto in questione rivestiva già una precisa veste processuale, quella, appunto, di consulente tecnico, potenzialmente destinata a rifluire sull'assunzione della qualità "testimoniale" ex artt, 371 -bis o 372 cod. pen. Questa qualità, anche se non ancora formalmente assunta, poteva dunque ritenersi immanente, in quanto prevedibile e necessario sviluppo processuale della funzione assegnata al consulente tecnico.
In questa prospettiva, il reato avrebbe potuto ritenersi configurabile nel caso di specie, essendo stata la condotta contestata esercitata per influire sui risultati di una consulenza tecnica, destinati a essere falsamente rappresentati al pubblico ministero (art. 371 -bis cod. pen.) o successivamente al giudice (art.
372 cod. pen.).
Stante il contrasto tra tale prospettiva e il principio affermato dalla citata sentenza n. 4062 del 1999, la Corte ha ritenuto, pertanto, di rimettere il ricorso alle Sezioni Unite, a norma dell'art. 618 cod. proc. pen., sul quesito interpretativo già esposto sopra, aggiungendo in conclusione che ove si fosse ritenuto non configurabile nella fattispecie concreta il reato di cui all'art. 377 cod. pen., in relazione all'art. 371-bis o all'art. 372 cod. pen., sulla base dell'assunto per cui a tale soggetto non potessero estendersi le dette fattispecie penali, sarebbe venuta ovviamente in questione l'applicabilità nel caso in esame dell'art. 322, comma secondo, cod. pen., soluzione (privilegiata dal Procuratore Generale della Cassazione in sede di risoluzione di contrasto ex artt. 54 e segg. cod. proc. pen.) che però avrebbe implicato la valutazione dei profili di incostituzionalità già all'inizio delineati.
4. Con decreto in data 25 marzo 2013 il Primo Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite penali, fissando per la trattazione l'udienza pubblica del 27 giugno 2013.
5. In prossimità di detta udienza la difesa di **** **** e **** **** **** ha depositato una memoria ex art. 121 cod. proc. pen., con la quale ha insistito per l'accoglimento del ricorso.
In primo luogo, nella memoria si è sottolineato che l'art. 501 cod. proc. pen. estendeva ai consulenti tecnici le regole per l'esame testimoniale "in quanto applicabili", con ciò evidenziando le precise differenze che intercorrevano tra la posizione del consulente tecnico e quella del testimone. In altre parole, se si poteva (e si doveva) legittimamente pretendere che il consulente rispondesse secondo verità sulla natura e sulla consistenza dei fatti che egli aveva accertato e che erano posti a fondamento delle sue valutazioni tecniche (in quanto in relazione alla descrizione di meri fatti la sua posizione in nulla differiva da quella del testimone), la stessa pretesa non poteva, invece, esercitarsi con riferimento alle valutazioni tecniche vere e proprie (in quanto il consulente, allorquando formulava un proprio personale giudizio, esprimeva una opinione, che, come tale, era incompatibile con un apprezzamento in termini di verità-falsità). Ne derivava che il consulente, allorquando riferiva i propri giudizi, non poteva mai rendersi responsabile del reato di falsa testimonianza. E ciò era quanto, a detta dei ricorrenti, era avvenuto nel caso di specie ove l'oggetto della consulenza affidata dal Pubblico Ministero al Comandante **** era di tipo squisitamente valutativo (riferire se l'addestramento del copilota Alex Lai, morto insieme al Comandante Cavalieri nell'incidente aereo del giugno 2003, poteva considerarsi idoneo).
In secondo luogo, nella memoria si sono contestati alcuni passi dell'ordinanza di rimessione. In particolare si é segnalato che là dove si è sostenuto che il consulente tecnico del pubblico ministero rivestiva già una precisa veste processuale "potenzialmente" destinata a rifluire sulla assunzione della qualità testimoniale ex artt. 371 -bis o 372 cod. pen., in realtà non si è fatto che ammettere che la qualità di testimone in capo al consulente tecnico (nella particolare fase del procedimento in cui si è consumata la condotta contestata) non era attuale, e si è denunciato che, contrariamente a quanto affermato dalla Sesta Sezione, la qualità di consulente tecnico di parte nel nostro sistema era tutt'altro che immanente, ben potendo la persona fisica del consulente tecnico essere cambiata nel corso del giudizio un numero indeterminato di volte, poiché (a differenza del testimone) il suo contributo si traduceva in una valutazione tecnica che poteva essere replicata all'infinito anche da soggetti diversi, purché dotati della necessaria competenza, e ben potendo la parte rinunciare al consulente tecnico ovvero divenire inutile la assunzione del consulente (ad esempio in caso di archiviazione, di proscioglimento in udienza preliminare, di applicazione "patteggiata" della pena).
Inoltre il richiamo della Sesta Sezione (anche) all'art. 371 -bis cod. pen. sarebbe stato del tutto fuori luogo, in quanto i reati di cui agli artt. 371 -bis e 372 cod. pen. erano tra loro perfettamente simmetrici e omogenei nel contenuto, colpendo le falsità e le reticenze di coloro che erano chiamati a riferire su fatti, rispettivamente nella fase delle indagini preliminari e in dibattimento.
In definitiva, si è ribadito che i soggetti passivi del delitto di intralcio alla giustizia potevano essere soltanto i potenziali soggetti attivi dei reati-fine richiamati dalla norma incriminatrice (371 -bis, 371 -ter, 372 e 373 cod. pen.) e che, essendo pacifico che il consulente tecnico del pubblico ministero non poteva commettere né il reato di falsa perizia, non essendo perito, né quelli di cui agli artt. 371-bis, 371-ter e 372 cod. pen., trattandosi di soggetto il cui contributo processuale era quello di fornire opinioni a supporto di una tesi di parte (anche quando si tratta di parte pubblica), la fattispecie in esame non era inquadrabile nelle previsioni di cui all’art. 377 cod. pen.
Ribadita la impossibilità di ricondurre il caso in questione alla fattispecie di cui all’art. 322 cod. pen, per i motivi esposti in ricorso, i ricorrenti, sul presupposto che anche l'attività svolta dal consulente del pubblico ministero poteva essere definita a tutti gli effetti come attività di parte, hanno inquadrato il reato che ****, ove avesse accolto la promessa, avrebbe commesso nella consulenza infedele, previsto dall’art. 380 cod. pen. e hanno ritenuto che la condotta degli imputati, essendosi concretata in una istigazione non accolta ex art. 115 cod. pen., non era penalmente rilevante.
La clausola di riserva contenuta nell’art. 115 cod. pen. («salvo che la legge disponga altrimenti») si riferiva, infatti, ad avviso dei ricorrenti, alle sole ipotesi in cui la legge aveva espressamente elevato raccordo o l'istigazione ad autonome figure di reato (come ad es. in materia di corruzione).
Qualora quest'ultima ricostruzione non fosse stata ritenuta condivisibile, l'unico sbocco processuale possibile, secondo i ricorrenti, sarebbe stato rappresentato dalla sottoposizione dell'art. 322 cod. pen. (fattispecie ritenuta dalla Corte di appello) al vaglio della Corte costituzionale in relazione ai profili di illegittimità costituzionale già illustrati nel ricorso e nella stessa ordinanza di rimessione della Sesta Sezione penale.
6. Con ordinanza n. 43384 del 27 giugno 2013 le Sezioni Unite hanno sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 322, secondo comma, del codice penale, «nella parte in cui per l’offerta o la promessa di denaro o altra utilità al consulente tecnico del pubblico ministero per il compimento di una falsa consulenza prevede una pena superiore a quella di cui all’art. 377, comma primo, cod. pen., in relazione all’art. 373 cod. pen.».
Le Sezioni Unite hanno escluso anzitutto che nella fattispecie in esame potesse ravvisarsi una ipotesi di tentativo di corruzione in atti giudiziari (artt. 56 e 319-fer cod. pen.), come ritenuto dalla stessa Sesta Sezione in sede di valutazione cautelare della posizione di uno degli imputati. In mancanza di un accordo corruttivo, infatti, l'istigazione non accolta alla corruzione poteva essere ricondotta solo alla previsione punitiva dell'art. 322 cod. pen. (la quale, pur riferendosi formalmente alle ipotesi corruttive di cui agli artt. 318 e 319 cod. pen., si attagliava anche a quella di cui all'art. 319-ter cod. pen., posto che quest’ultimo richiamava «i fatti indicati negli articoli 318 e 319 cod. pen.»), ovvero, quando si trattasse di proposta rivolta a soggetti destinati ad assumere una veste processuale, alle figure criminose delineate dagli artt. 377 o 377-bis cod. pen.
Il fatto per cui si procede non poteva essere neppure qualificato, contrariamente a quanto sostenuto dagli imputati ricorrenti, come istigazione non accolta a commettere una consulenza infedele (art. 380 cod. pen.), con conseguente sua irrilevanza penale (art. 115 cod. pen.). L’attività svolta dal consulente tecnico del pubblico ministero non poteva essere, infatti, definita come attività di parte, alla quale soltanto si riferiva il citato art. 380 cod. pen., discutendosi di soggetto che esercitava una funzione pubblica e che contribuiva non già a tutelare gli interessi di una parte processuale, «ma ad accertare la verità».
Il problema ermeneutico si concentrava, di conseguenza, sull’applicabilità di una delle due ipotesi delittuose, dianzi indicate, dell'istigazione alla corruzione o dell'intralcio alla giustizia.
Quanto a quest'ultima, si è preliminarmente ricordato che l'art. 377 cod. pen., nel testo attualmente in vigore, frutto di una serie di modifiche legislative, stabilisce, al primo comma, che «Chiunque offre o promette denaro o altra utilità alla persona chiamata a rendere dichiarazioni davanti all’autorità giudiziaria o alla Corte penale internazionale ovvero alla persona richiesta di rilasciare dichiarazioni dal difensore nel corso dell'attività investigativa, o alla persona chiamata a svolgere attività di perito, consulente tecnico o interprete, per indurla a commettere i reati previsti dagli articoli 371 -bis, 371 -ter, 372 e 373, soggiace, qualora l'offerta o la promessa non sia accettata, alle pene stabilite negli articoli medesimi, ridotte dalla metà ai due terzi».
Per quel che concerne, in particolare, il riferimento al "consulente tecnico", introdotto nel testo della norma dal decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa), convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, le Sezioni Unite hanno osservato come, nel caso del consulente tecnico del pubblico ministero, l’offerta o la promessa di denaro o di altra utilità non poteva essere finalizzata alla commissione del delitto di falsa perizia, di cui al richiamato art. 373 cod. pen., in quanto l’ausiliario tecnico dell'accusa non era un perito (nominato invece dal giudice). Pur essendo verosimile che la discrasia dipendesse da un difetto di coordinamento, non era, d'altra parte, possibile estendere in via interpretativa il concetto di "perizia" alla "consulenza tecnica" senza violare il principio di tassatività del precetto penale.
Conformemente a quanto ritenuto dalla Sesta Sezione nel rimettere la questione alle Sezioni Unite, la subornazione del consulente tecnico del pubblico ministero poteva, nondimeno, egualmente configurare il reato di intralcio alla giustizia, in quanto finalizzata alla commissione dei delitti di false informazioni al pubblico ministero (art. 371 -bis cod. pen.) e di falsa testimonianza (art. 372 cod. pen.).
La parificazione del consulente tecnico al testimone trovava, in effetti, un solido appiglio ermeneutico nell’'art. 501 cod. proc. pen., che estende al consulente tecnico le disposizioni sull’esame dibattimentale dei testimoni. Pur non essendo un testimone in senso proprio, in quanto non chiamato a riferire su "fatti", ma ad esprimere valutazioni su materie che richiedono specifiche competenze, il consulente tecnico ben poteva, d'altra parte, «affermare il falso o negare il vero», conformemente alla previsione dell’art. 372 cod. pen., o «rendere dichiarazioni false», secondo quella dell'art. 371 -bis cod. pen., ad esempio tacendo o alterando determinati esiti obiettivi degli accertamenti espletati, ferma restando l'esclusione di «ogni sindacato sugli aspetti meramente valutativi relativi a detti accertamenti».
La conseguente configurabilità, sotto questo profilo, del delitto di intralcio alla giustizia, risultava confermata anche dalla lettera della norma incriminatrice, posto che il riferimento al "consulente tecnico", contenuto nell'art. 377 cod. pen., si prestava senz'altro a ricomprendere anche l'ausiliario tecnico dell'organo dell'accusa. Non poteva, infatti, essere condivisa la tesi, espressa in dottrina, secondo la quale la predetta formula riguardava il solo consulente tecnico d'ufficio nominato dal giudice civile: tesi che rendeva superfluo il riferimento in questione, posto che l'estensione al consulente tecnico nominato in sede civile delle disposizioni penali relative ai periti discendeva già dall'espressa previsione dell'art. 64, primo comma, del codice di procedura civile.
La configurabilità del delitto di intralcio alla giustizia non era, per altro verso, preclusa dalla circostanza che, nel caso oggetto di giudizio, il consulente tecnico del pubblico ministero non era stato ancora citato come testimone o come persona informata sui fatti al momento dell'offerta di denaro.
Era ben vero che, secondo l'indirizzo prevalente in giurisprudenza, perché possa configurarsi il delitto di cui all'art. 377 cod. pen. è necessario che i destinatari della condotta subornatrice abbiano già formalmente assunto, nel momento in cui la condotta stessa è posta in essere, le qualifiche processuali indicate dalla norma: il che si verifica, nel caso del testimone, solo allorché il giudice abbia autorizzato la citazione del soggetto in tale veste, ai sensi dell'art. 468, comma 2, cod. proc. pen.
Ad avviso delle Sezioni Unite, tuttavia, le peculiarità della figura del consulente tecnico del pubblico ministero faceva propendere per una diversa soluzione.
A differenza dei consulenti tecnici nominati dalle parti private, chiamati a svolgere un ruolo di ausilio alla difesa, donde la loro equiparazione al difensore, quanto a funzioni e garanzie, il consulente tecnico del pubblico ministero ripete, infatti, «dalla funzione pubblica dell'organo che coadiuvava i relativi connotati». Nel compimento delle sue attività, egli assume, dunque, la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio; ha, in quanto tale, «il dovere [...] di obiettività e imparzialità»; non può, altresì, esimersi dal dire la verità. Si doveva, di conseguenza, ritenere che il consulente tecnico, con la nomina ad opera del pubblico ministero, rivesta già «una precisa veste processuale, potenzialmente destinata a refluire sull'assunzione della qualità "testimoniale” ex artt. 371 -bis o 372 cod. pen.»: qualità che, dunque, anche se non ancora formalmente assunta, è «immanente» alla figura, «in quanto prevedibile e necessario sviluppo processuale della funzione assegnata».
In concreto, tuttavia, alla configurabilità del delitto di intralcio alla giustizia ostava la natura dell'indagine affidata nel caso di specie al consulente.
Il consulente tecnico del pubblico ministero è, infatti, equiparabile al testimone solo in rapporto alle dichiarazioni che investono gli esiti obiettivi degli accertamenti espletati; non, invece, in relazione alle valutazioni tecnico¬scientifiche, le quali, in quanto espressive di personali opinioni, non sono qualificabili in termini di verità o di falsità: sicché, con riguardo ad esse, il consulente non può rispondere del reato di falsa testimonianza o di false informazioni al pubblico ministero.
Nella specie, al consulente era stata affidata una indagine «di tipo squisitamente valutativo», essendogli stato chiesto di riferire se l'addestramento del copilota, deceduto insieme al pilota nell'incidente aereo, potesse considerarsi idoneo.
Esclusa, di conseguenza, la possibilità di ricondurre il fatto al paradigma dell'intralcio alla giustizia, Tunica disposizione applicabile nel caso in esame era quella dell'art. 322, secondo comma, cod. pen., che punisce l'offerta o la promessa di denaro o altra utilità non dovuti per indurre un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio a compiere un atto contrario ai suoi doveri. Tra il reato di intralcio alla giustizia e quello di istigazione alla corruzione propria intercorre un rapporto di species a genus: la prima figura criminosa è, infatti, speciale rispetto alla seconda, in ragione della specificità sia del soggetto destinatario dell’offerta o della promessa, sia dell'atto contrario ai doveri di ufficio cui essa è preordinata. Mancando i presupposti di operatività della previsione punitiva speciale, altrimenti applicabile in via esclusiva, diviene quindi operante la norma generale.
La conclusione raggiunta faceva emergere, tuttavia, «innegabili profili di incostituzionalità».
Alla luce di essa, l’offerta o la promessa di denaro o di altra utilità al consulente tecnico del pubblico ministero per il compimento di una falsa consulenza risulta punita più gravemente dell'analoga offerta o promessa rivolta ad un perito, che rientra pacificamente, per il principio di specialità, nell'ambito applicativo dell'art. 377, primo comma, cod. pen. Nella prima ipotesi, infatti, in base alla disposizione combinata degli artt. 319 e 322 cod. pen., nella formulazione vigente all'epoca del fatto, antecedente alla riforma operata dalla legge 6 novembre 2012, n. 190 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell'illegalità nella pubblica amministrazione), è irrogabile la reclusione da un anno e quattro mesi a tre anni e quattro mesi; nella seconda, invece, per la disposizione combinata degli artt. 372, 373 e 377 cod. pen., la reclusione da otto mesi a tre anni.
Inoltre, la medesima offerta corruttiva fatta al consulente tecnico del pubblico ministero nell'ambito di un procedimento penale è punita più gravemente dell'analoga offerta rivolta al consulente tecnico del giudice civile, parimenti inquadrabile nel paradigma dell'intralcio alla giustizia.
Irragionevole era anche la sperequazione sanzionatoria riscontrabile a seconda che il consulente tecnico del pubblico ministero, destinatario dell'offerta corruttiva, sia chiamato ad esprimere valutazioni tecnico-scientifiche (con conseguente configurabilità dell'istigazione alla corruzione) o semplicemente a descrivere i fatti accertati (donde la configurabilità del delitto di intralcio alla giustizia, meno gravemente punito).
Si trattava, sotto ognuno degli evidenziati profili, di conseguenze lesive del principio di eguaglianza, posto che situazioni del tutto analoghe venivano disciplinate in termini differenti sul piano della risposta punitiva. In aggiunta a ciò, vi era il "paradosso" per cui solo la particolare e neppure giù grave forma di intralcio alla giustizia oggetto del giudizio a quo rimaneva estranea alla specifica partizione del codice penale dedicata ai delitti contro l'amministrazione della giustizia, restando "confinata” tra i delitti contro la pubblica amministrazione.
Sulla base di tali considerazioni, le Sezioni Unite hanno ritenuto, quindi, che l'art. 322, secondo comma, cod. pen. fosse in contrasto con l'art. 3 Cost., nella parte in cui assoggetta la subornazione del consulente tecnico del pubblico ministero ad una pena superiore a quella prevista dall'art. 377, primo comma, in relazione all'art. 373 cod. pen., per la subornazione del perito.
7. Con sentenza n. 163 del 2014 la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 322, secondo comma, del codice penale, sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dalla Corte di cassazione, Sezioni Unite penali, con l'ordinanza sopra indicata.
Il Giudice delle Leggi, dopo avere ricordato che il problema traeva origine dal difetto di coordinamento tra le norme incriminatrici relative ai delitti contro l'amministrazione della giustizia, contenute nel codice penale del 1930, e il nuovo assetto processuale introdotto dal codice di procedura penale del 1988, e dopo avere illustrato la "soluzione innovativa" adottata nell'ordinanza di rimessione, ha ritenuto di non poter condividere le conclusioni delle Sezioni Unite, là dove non si è ritenuto applicabile nel caso in esame l'art. 377 cod. pen. con riferimento all'art. 372 cod. pen. per essere il contenuto degli accertamenti eseguiti nel caso di specie dal consulente del pubblico ministero di natura valutativa. Infatti tali accertamenti riguardavano nella specie l'idoneità dell'addestramento del pilota dell'aereo schiantatosi nell'aeroporto di Linate, e una simile indagine, secondo la Corte costituzionale, non poteva prescindere da un'analisi di natura oggettiva, relativa al tipo di addestramento ricevuto dal pilota ovvero del complesso di attività di apprendimento, teoriche e pratiche, da lui realizzate. Trattandosi dunque di un accertamento di carattere oggettivo e non valutativo, non vi erano ragioni per non applicare l'art. 377 cod. pen. con riferimento all'art. 372 cod. pen. o, eventualmente, all'art. 371-bis cod. pen.
Per altro, la Corte costituzionale ha osservato come la pronuncia di incostituzionalità dell'art. 322, secondo comma, cod, pen. non avrebbe comunque garantito il ripristino del principio di eguaglianza richiesto dalle Sezioni Unite. Infatti bisognava ricordare come le pene previste per il delitto di false informazioni al pubblico ministero (reclusione fino a quattro anni) sono sensibilmente inferiori a quelle previste per la falsa testimonianza (reclusione da due a sei anni): tale divario sanzionatorio si ripercuote inevitabilmente anche sull'art. 377 cod. pen., che prevede, nel caso di subornazione, la riduzione di entrambe le pena dalla metà ai due terzi. Il legislatore, dunque, coerentemente con l'impianto accusatorio in vigore, ha considerato meno grave la mendacità di una dichiarazione resa all'organo dell'accusa rispetto a quella resa al giudice del dibattimento e ciò perché il pubblico ministero è una parte del processo e, di regola, gli elementi dallo stesso raccolti fuori dal contraddittorio non hanno dignità di prova nel processo. La stessa logica imponeva, allora, che le pene previste per subornazione del consulente tecnico del pubblico ministero, in ipotesi punita dall'art. 322, secondo comma, cod. pen., fossero sensibilmente inferiori rispetto a quelle stabilite per la medesima condotta posta in essere nei confronti del perito e punita a norma degli artt. 377 e 373 cod. pen., posto che il perito è un ausiliario del giudice e pertanto portatore di un sapere tecnico acquisito dal giudice in dibattimento. In caso contrario si sarebbe ritornati ad un modello Inquisitorio, nel quale gli elementi raccolti in fase di indagine e quelli raccolti nel dibattimento avevano il medesimo valore.
Inoltre la Corte costituzionale ha rilevato come nel caso in cui il consulente tecnico ponga in essere una attività di accertamento che postuli sia il riscontro di dati oggettivi sia profili valutativi, il soggetto che offra o prometta denaro al consulente dovrebbe essere chiamato a rispondere di due reati in concorso formale: del delitto di cui all’art. 377 cod. pen., per la parte che ha ad oggetto elementi oggettivi, e del delitto di cui all'art. 322, secondo comma, cod. pen., per la parte che ha ad oggetto elementi valutativi; un esito questo che, oltre ad apparire incongruo, non poteva essere rimosso dall'ipotetico accoglimento della questione di costituzionalità, che mirava ad incidere unicamente sul trattamento sanzionatorio dell'art. 322, secondo comma, cod. pen. e non già sulla duplicazione della risposta punitiva per il medesimo fatto.
8. A seguito della sentenza della Corte costituzionale, il Primo Presidente, con decreto in data 30 giugno 2014, ha fissato per la trattazione del ricorso l'odierna udienza pubblica, nella quale il Procuratore generale ed i difensori degli imputati hanno concluso come indicato in intestazione.

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. La questione devoluta alle Sezioni Unite può essere così enunciata: "Se sia configurabile il reato di intralcio alla giustizia di cui all'art. 377 cod. pen. nel caso di offerta o di promessa di denaro o di altra utilità al consulente tecnico del pubblico ministero al fine di influire sul contenuto della consulenza».
2. E' utile preliminarmente ricordare che il delitto di intralcio alla giustizia esiste, con questa rubrica, nel nostro ordinamento dal marzo del 2006.
Tale reato, infatti, è stato introdotto dalla legge 16 marzo 2006, n. 46, di ratifica ed esecuzione della Convenzione dell'ONU contro il crimine organizzato transnazionale (c.d. Convenzione di Palermo o Toc Convention), che, all'art. 23, invita gli Stati aderenti a punire, con sanzione penale, la c.d. obstruction of justice, e cioè le condotte di violenza, minaccia, intimidazione, promessa, offerta di vantaggi considerevoli per indurre alla falsa testimonianza o comunque interferire nella produzione di prove anche testimoniali, nel corso di processi relativi ai reati oggetto della Convenzione, ovvero consistenti nell'uso di violenza, minaccia, intimidazione per interferire con l'esercizio di doveri d'ufficio da parte di un magistrato o di un appartenente alle forze di polizia, in relazione agli stessi reati.
Per adeguarsi a tale indicazione, il legislatore, preso atto che nel sistema italiano esisteva già una norma, l'art. 377 cod. pen., che puniva l'offerta o la promessa di vantaggi nei confronti del testimone e che era rubricata come "subornazione", con l’art. 14 della citata legge n. 146 è intervenuto sulla disposizione vigente, rinominando il già esistente delitto, appellandolo con il termine richiesto dalla convenzione internazionale (e cioè come "intralcio alla giustizia") e aggiungendo al testo vigente due ulteriori commi (gli attuali terzo e quarto) per punire le condotte di violenza e minaccia.
I primi due commi della nuova disposizione, quindi, continuano a punire le medesime condotte del delitto di subornazione secondo il testo che, rispetto alla stesura originaria del codice, era già stato due volte interpolato; una prima volta con l’art. 11, comma 6, d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356; una seconda con l'art. 22 legge 7 dicembre 2000, n. 397.
In particolare nel 1992 era stato completamente riscritto il primo comma dell’art. 377 cod. pen.; il testo licenziato dal codice del 1930 stabiliva «chiunque offre o promette denaro o altra utilità a un testimone, perito o interprete, per indurlo ad una falsa testimonianza perizia o interpretazione, soggiace, qualora l'offerta o la promessa non sia accettata alle pene stabilite negli art. 372 e 373 ridotte dalla metà a due terzi»; quello modificato, invece, stabilisce che «chiunque offre o promette denaro o altra utilità alla persona chiamata a rendere dichiarazioni davanti all'autorità giudiziaria ovvero a svolgere attività di perito, consulente tecnico o interprete, per indurla a commettere i reati previsti dagli articoli 371 -bis, 372 e 373, soggiace, qualora l'offerta e la promessa non sia accettata, alle pene stabilite negli articoli medesimi, ridotte dalla metà ai due terzi».
L'innovazione, introdotta in un decreto-legge destinato al contrasto della criminalità mafiosa, aveva l'obiettivo di adeguare la precedente norma della subornazione all'introduzione, ad opera del medesimo provvedimento d'urgenza, di una nuova fattispecie di parte speciale, quale il delitto di false informazioni al pubblico ministero, di cui all'art. 371-bis cod. pen. Vi era cioè l'esigenza di inglobare nella fattispecie delittuosa il riferimento al nuovo delitto da ultimo indicato, e ciò avvenne sostituendo la indicazione della figura del testimone - soggetto che, con il nuovo codice di rito, assumeva questo ruolo solo in dibattimento o nell'incidente probatorio - con la più elastica dizione di persona chiamata a rendere dichiarazioni davanti all’autorità giudiziaria. Si è inoltre aggiunto, senza che i lavori preparatori ne spiegassero la ragione, ne! novero dei possibili soggetti passivi la figura del consulente tecnico.
Con la successiva legge n. 397 del 2000, recante la disciplina delle c.d. indagini difensive, ci si è limitati, invece, ad una mera interpolazione raccordata alla introduzione nel codice penale dell'art. 371-ter cod. pen., relativo alle false informazioni al difensore.
Per completezza, è opportuno ricordare che con la legge 20 dicembre 2012, n. 237 (di ratifica dello Statuto di Roma, istitutivo della Corte penale internazionale permanente competente a conoscere del crimine di genocidio, c.d. dell'Aja) si è ulteriormente interpolato l'art. 377: con l'art. 10, comma 8, della novella si è estesa la portata della fattispecie penale in commento all'ipotesi in cui l'offerta o la promessa di denaro o altra utilità sia rivolta a persona chiamata a rendere dichiarazioni innanzi alla Corte dell'Aja.
Nessuna modifica è stata, invece, apportata dal legislatore all'art. 373 cod. pen., che, sotto la rubrica «Falsa perizia o interpretazione», punisce unicamente il perito o l'interprete che, nominato dall'autorità giudiziaria, dà parere o interpretazioni mendaci, o afferma fatti non conformi al vero.
3. Così ricostruito il quadro normativo, deve ribadirsi la validità del percorso argomentativo seguito nell'ordinanza di queste Sezioni Unite in data 27 giugno 2013 e sostanzialmente condiviso, quanto meno nei suoi iniziali sviluppi, anche dalla Corte costituzionale nella citata sentenza n. 163 del 2014.
Come ben osservato dal Giudice delle Leggi, la problematica in esame trae origine dal difetto di coordinamento tra le norme incriminatrici relative ai delitti contro l'amministrazione della giustizia, contenute nel codice penale del 1930, e il nuovo assetto processuale introdotto dal codice di procedura penale del 1988.
Le disposizioni del codice penale, in linea con l'impianto inquisitorio delineato dal codice di rito abrogato, presupponevano, infatti, una sostanziale equiparazione tra le prove raccolte in contraddittorio e i risultati delle indagini dell’accusa. Il passaggio ad un sistema di tipo accusatorio operato con il nuovo codice, in assenza di opportuni interventi di adeguamento, ha inevitabilmente messo in crisi il sistema, generando vuoti di tutela.
Risultava evidente, ad esempio, l'impossibilità di applicare la norma incriminatrice della falsa testimonianza (art. 372 cod. pen.) anche alle "persone informate sui fatti" che rendessero dichiarazioni mendaci al pubblico ministero, non essendo queste ultime qualificabili, diversamente che in passato, come "testimoni". Solo l'introduzione, nel 1992, del delitto di false informazioni al pubblico ministero (art. 371 -bis cod. pen., aggiunto dall’art. 11, comma 1, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, recante "Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa", convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356) è valso a colmare la lacuna. Un ulteriore intervento novellistico è stato, altresì, necessario per evitare che rimanessero esenti da pena le false dichiarazioni al difensore nel corso delle indagini difensive (art. 371-ter cod. pen., aggiunto dall'art. 20 della legge 7 dicembre 2000, n. 397, recante "Disposizioni in materia di indagini difensive"). All'opera di riallineamento dei delitti contro l'amministrazione della giustizia al mutato panorama processuale è rimasta, peraltro, estranea la figura del consulente tecnico nominato dal pubblico ministero ai sensi dell'art. 359 del codice di procedura penale.
Come già rilevato da queste Sezioni Unite nell'ordinanza di rimessione della questione di costituzionalità devoluta alla Corte costituzionale, la falsa consulenza redatta dall'ausiliario dell'organo dell'accusa non integra il delitto di falsa perizia (art. 373 cod. pen.), per la dirimente ragione che detto soggetto non è equiparabile, nell’attuale sistema processuale, al perito nominato dal giudice (come invece lo era il perito nominato dal pubblico ministero nel corso dell'istruzione sommaria, ai sensi dell’art. 391, secondo comma, cod. proc. pen. del 1930). In questo caso, tuttavia, il legislatore non si è premurato di introdurre una nuova norma incriminatrice ad hoc che colmasse la lacuna, tanto è vero che, fin dai primi anni '90, il Progetto "Pagliaro" di riforma del codice penale elaborato dalla apposita Commissione ministeriale nella parte relativa ai delitti contro l'amministrazione della giustizia ha previsto espressamente il reato di "falsa perizia, interpretazione o consulenza", includendo tra i soggetti attivi di tale reato anche il consulente tecnico nominato dal pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari.
La rilevata discrasia si riflette anche sul trattamento riservato alle condotte subornatrici. Sotto la rubrica di "intralcio alla giustizia>" l’art. 377 cod. pen. configura, al primo comma, come reato l'offerta o la promessa di denaro o di altra utilità, non accettata, per commettere taluni delitti contro l'amministrazione della giustizia: derogando, con ciò, al generale principio per cui l'istigazione non accolta a commettere un reato non è punibile (art. 115 cod. pen.). Nell'attuale versione della norma (frutto degli interventi di adeguamento indicati al punto che precede), si tratta, in specie, dei delitti di false informazioni al pubblico ministero, false dichiarazioni al difensore, falsa testimonianza, falsa perizia o interpretazione (artt. 371 -bis, 371-ter, 372 e 373 cod. pen.).
Tra i possibili destinatari dell'offerta o della promessa penalmente repressa figura, in verità, grazie alla già menzionata interpolazione operata dall’art. 11 del d.l. n. 306 del 1992, anche la persona chiamata a svolgere attività di "consulente tecnico": formula che, nella sua genericità, si presterebbe a ricomprendere il consulente tecnico del pubblico ministero. La rilevata circostanza che quest’ultimo non possa rendersi responsabile del delitto di cui al richiamato art. 373 cod. pen. impedisce, tuttavia, di ritenere che l'offerta o la promessa a lui indirizzata, allo scopo di orientare gli esiti della consulenza, configuri il delitto di intralcio alla giustizia in quanto finalizzata alla commissione del reato di falsa perizia.
Si è posto, quindi, il problema di verificare se la subornazione del consulente tecnico del pubblico ministero sia punibile a diverso titolo. All'interrogativo, come si è visto, queste Sezioni Unite hanno offerto una soluzione, definita dalla Corte costituzionale "innovativa" rispetto al panorama ermeneutico pregresso, che, come pure osservato dalla Consulta, coniuga, nella sostanza, due delle tesi in precedenza prospettate.
Secondo queste Sezioni Unite, la subornazione del consulente tecnico del pubblico ministero é, in realtà, idonea ad integrare II delitto di intralcio alla giustizia. Giova, a tal fine, non già il richiamo, contenuto nell’art. 377, primo comma, cod. pen., alla falsa perizia, che si è visto non utile, ma quello alla falsa testimonianza e alle false informazioni al pubblico ministero (artt. 372 e 371-bis cod. pen.). Il consulente è sentito, infatti, in dibattimento sul contenuto della consulenza nelle forme dell'esame testimoniale (art. 501 cod. proc. pen.); prima ancora, può essere chiamato a rendere dichiarazioni al pubblico ministero che l'ha nominato. Di conseguenza, l'offerta o la promessa di denaro o di altra utilità per influire sui risultati della consulenza é destinata ad incidere anche sulle dichiarazioni rese dal consulente come teste o come persona informata sui fatti. In definitiva, anche se il consulente non riferisce su fatti, ma esprime valutazioni su materie che richiedono specifiche competenze tecniche, egli può in ogni caso "affermare il falso e negare il vero".
D'altra parte è pur vero che il consulente tecnico chiamato a collaborare con una parte privata, è tradizionalmente concepito come un ruolo di ausilio alla difesa, donde la sua equiparazione, quanto a funzione e garanzie, al difensore. Anche il Giudice delle Leggi non ha mancato di ricordare (sentenza n. 33 del 1999) come la stretta correlazione tra le funzioni del consulente tecnico e il diritto di difesa dell'imputato sia stata ripetutamente affermata dalla giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 345 del 1987 e n. 199 del 1974) nel contesto dell'abrogato codice del 1930, che dava ingresso al consulente tecnico della parte solo in occasione di incarico peritale disposto dal giudice e negava autonomo rilievo alla figura del consulente extraperitale, considerato semplice ausilio del difensore, incapace di compiere valutazioni tecniche dotate di un intrinseco valore probatorio, sicché le sue indicazioni si riducevano a mere sollecitazioni defensionali e non avevano la forza di penetrare nel processo se non attraverso la mediazione del giudice, a sua volta ritenuto peritus peritorum. E ha poi rimarcato come nell'attuale sistema quella correlazione si è viepiù inverata. Il codice vigente, infatti, prevede la possibilità per le parti del processo penale di nominare consulenti tecnici anche nel caso in cui non sia stata disposta alcuna perizia (art. 233). E si tratta di previsione che, essendo consentito al giudice, come riconosce la giurisprudenza di legittimità, trarre elementi di prova dall'esame dei consulenti tecnici, la cui posizione viene assimilata a quella dei testimoni, vale a qualificare in modo ancor più evidente la loro attività come aspetto essenziale dell'esercizio del diritto di difesa in relazione alle ipotesi in cui la decisione sulla responsabilità penale dell'imputato comporti lo svolgimento di indagini o l'acquisizione di dati o valutazioni che richiedono specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche, secondo la formulazione dell'art. 220 cod. proc. pen. Del resto il compiuto processo di assimilazione della figura del consulente tecnico extraperitale a quella del difensore si delinea in maniera ancor più nitida alla luce di ulteriori elementi normativi, anche se in parte preesistenti: oltre agli artt. 380 e 381 del codice penale, che puniscono, insieme al patrocinio, la consulenza infedele, l'art. 103 del codice di procedura, che, sotto la significativa rubrica "Garanzie di libertà del difensore", vieta, al comma 2, il sequestro presso il consulente di carte o documenti relativi all'oggetto della difesa e, al comma 5, l'intercettazione relativa a conversazioni dei consulenti tecnici e loro ausiliari e a quelle tra i medesimi e le persone da loro assistite, nonché l'art. 200, comma 1, lettera b), del medesimo codice di rito, che assicura anche ai consulenti tecnici la tutela del segreto professionale. Un unitario e sistematico insieme di disposizioni conduce insomma a riconoscere che la facoltà di avvalersi di un consulente tecnico si inserisce a pieno titolo nell’area di operatività della garanzia posta dall’art. 24 della Costituzione e che le prestazioni del consulente della parte privata ineriscono all’esercizio del diritto di difesa, tanto che la Consulta, con la citata sentenza n. 33 del 1999, ha riconosciuto ai non abbienti la facoltà di farsi assistere a spese dello Stato da un consulente per ogni accertamento tecnico ritenuto necessario.
Ma è altrettanto vero che, nel nostro sistema processuale, il consulente tecnico nominato dal pubblico ministero, sia pure prestando un'attività di ausilio a una "parte" del processo, si staglia dalla figura generale e presenta specifiche peculiarità, ripetendo dalla funzione pubblica dell'organo che coadiuva i relativi connotati. Egli acquista, quindi, natura di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio nel momento in cui compie le sue attività incaricate dal pubblico ministero, secondo la distinzione funzionale di cui agli artt. 357 e 358 cod. pen. (Sez. 6, n. 2675 del 05/12/1995, Tauzilli, Rv. 204516; Sez. 6, n. 4062 del 07/01/1999, Pizzicaroli, Rv. 214142; e, argomentando a contrario, Sez. 6, n. 22 A 5901 del 22/01/2013, Anello, Rv. 254308), concorre oggettivamente all'esercizio " della funzione giudiziaria e ha il dovere, connaturato a ogni parte pubblica, di obiettività e "imparzialità", nel senso che la sua funzione è tesa al raggiungimento di interessi pubblici, quale, in primis, l'accertamento della verità, posto che il pubblico ministero deve svolgere indagini su fatti e circostanze anche a favore della persona sottoposta alle indagini (art. 358 cod. proc. pen.). Il ruolo e la funzione rivestiti gli impongono dunque il dovere di verità. Egli inoltre non può rifiutare la sua opera (come testualmente recita l'ultima parte del comma 1 dell'art. 359 cod. proc. pen.) ed è tra i soggetti destinatari dell'art. 384 cod. pen., che, al suo secondo comma, così recita: «Nei casi previsti dagli artt. 371- bis, 371 -ter, 372 e 373, la punibilità è esclusa se il fatto è commesso da chi per legge non avrebbe dovuto essere richiesto di fornire informazioni ai fini delle indagini o assunto come testimonio, perito, consulente tecnico o interprete ovvero non avrebbe potuto essere obbligato a deporre o comunque a rispondere o avrebbe dovuto essere avvertito della facoltà di astenersi dal rendere informazioni, testimonianza, perizia, consulenza o interpretazione». E' chiaro che questa norma, nel dettare i casi di non punibilità e nel prevedere anche la figura del consulente tecnico, non potendo questi commettere, per i motivi già esposti, il reato di cui all'art. 373 cod. pen., riferisce al consulente proprio i residui reati di cui agii artt. 371-bis e 372 cod. pen. (essendo ad esso inapplicabile Part. 371- ter cod. pen., che riguarda le false dichiarazioni al difensore).
Per le argomentazioni sopra svolte deve concludersi che appare del tutto razionale che al consulente tecnico del pubblico ministero siano applicabili le conseguenze penali previste, in caso di false dichiarazioni, dall'art. 372 cod. pen. (o, in sede di indagini, dall'art. 371 -bis cod. pen.).
A riprova di ciò sta, del resto, anche il dato letterale della norma: il riferimento al "consulente tecnico", inserito nel testo dell'art. 377 cod. pen., senza ulteriori specificazioni, ad opera del d.l. n. 306 del 1992, si presta senz'altro a essere rapportato anche alla figura di cui ci si occupa. L'opinione contraria, espressa, come si è visto, in dottrina, e prospettata inizialmente pure dai ricorrenti, secondo cui il riferimento al consulente tecnico inserito dal citato d.l. n. 306 riguarderebbe solo quello nominato dal giudice civile, si scontra sia con un'obiezione formale (una simile specificazione non è indicata dalla norma) sia, soprattutto, con una insuperabile considerazione sistematica (l'estensione al consulente tecnico in sede civile delle disposizioni penali relative ai periti discende positivamente dalla espressa previsione dell'art. 64, primo comma, cod. proc. civ., dovendosi essa dunque apprezzare, ove questo ne fosse il senso, chiaramente superflua; tanto che si è sempre ritenuto che il riferimento al A "perito", contenuto nell'art. 373 cod. pen., debba intendersi fatto anche al consulente del giudice civile, proprio in forza del citato art. 64 cod. proc. civ.).
Le conclusioni alle quali si è pervenuti, contrariamente a quanto sostenuto nella memoria difensiva depositata nell'interesse dei ricorrenti, tengono adeguatamente conto del fatto che l'art. 501 cod. proc. pen. estende ai consulenti tecnici le regole per l'esame testimoniale "in quanto applicabili" e non ignorano le precise differenze che intercorrono tra la posizione del consulente tecnico e quella del testimone. Del resto, come pure la difesa dei ricorrenti ammette, anche il consulente deve rispondere secondo verità sulla natura e sulla consistenza dei fatti che egli ha accertato e che sono posti a fondamento delle sue valutazioni tecniche (in quanto in relazione alla descrizione di meri fatti la sua posizione in nulla differisce da quella del testimone).
4. Il Collegio ritiene di confermare altresì l’impostazione adottata dalle Sezioni Unite nell'incidente di costituzionalità promosso con l'ordinanza in data 27 giugno 2013 in riferimento alla problematica posta dal fatto che, nel caso in esame, il consulente tecnico del Pubblico ministero non si era ancora, per così dire, "trasformato" in testimone, non essendo ancora stato citato come tale o come persona informata sui fatti al momento della realizzazione della condotta subornatrice.
Come si è visto, la più volte citata sentenza Pizzicaroli del 1999, pur ritenendo configurabile in una fattispecie simile il reato di cui all'art. 377 cod. pen., ne aveva escluso la sussistenza nel caso concreto, in quanto il consulente tecnico del Pubblico ministero, nel momento in cui era stata realizzata la condotta illecita, non aveva già assunto «la veste di testimone per effetto di citazione a comparire».
In base all'indirizzo prevalente di dottrina e giurisprudenza (Sez. 3, n. 2055 del 13/12/1996, Elmir, Rv. 207282; Sez. 6, n. 2713 del 11/12/1996, Samperi, Rv. 207166; Sez. 6, n. 35837 del 23/05/2001, Russo, Rv. 220593; Sez. 6, n. 35150 del 26/06/2009, Manto, Rv. 244699; Sez. 6, n. 45626 del 25/11/2010, Z., Rv. 249321; e soprattutto Sez. U, n. 37503 del 30/10/2002, Vanone, Rv. 222347), perché si possa configurare il delitto di cui all'art. 377 cod. pen. è necessario che i destinatari della condotta abbiano già assunto, formalmente, nel momento in cui la condotta stessa viene posta in essere, la qualifica processuale. E la qualità di testimone, nel reato di cui all'art. 377 cod. pen., viene considerata assunta nel momento dell'autorizzazione del giudice alla citazione del soggetto in questa veste, ai sensi dell'art. 468, comma 2, cod. proc. pen. (v. in particolare: Sez. U, n. 37503 del 2002, Vanone, cit., e, con riguardo al simile reato di cui all'art. 377-bis cod. pen., Sez. 6, n. 45626 del 2010, Z., cit.).
Tuttavia, ad avviso del Collegio, le peculiarità della figura del consulente tecnico del pubblico ministero fanno propendere, nell'ipotesi in cui sia questo il soggetto su cui si esercita l'attività induttiva o violenta, verso una diversa soluzione.
In questa evenienza, infatti, il soggetto in questione, come si è già osservato, riveste la qualità di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio; ha, in quanto tale, il dovere di obiettività ed imparzialità; e non può esimersi dal dire la verità. Proprio per queste sue caratteristiche, il consulente tecnico, con la nomina ad opera del pubblico ministero, riveste già una precisa veste processuale, potenzialmente destinata a rifluire sull'assunzione della qualità "testimoniale" ex artt. 371 -bis o 372 cod. pen. Questa qualità, anche se non ancora formalmente assunta, può dunque ritenersi immanente, in quanto prevedibile e necessario sviluppo processuale della funzione assegnata al consulente tecnico nominato dalla parte pubblica.
In questa prospettiva e in sostanziale accordo con le conclusioni dell’ordinanza di rimessione, deve concludersi che il reato di cui all'art. 377 cod. pen. é configurabile nella fattispecie in esame, essendo stata la condotta contestata esercitata per influire sui risultati di una consulenza tecnica, destinati a essere falsamente rappresentati al pubblico ministero (art. 371 -bis cod. pen.) o successivamente al giudice (art. 372 cod. pen.).
D'altra parte anche nella giurisprudenza di legittimità in materia non sono mancati recentemente segni di revisione e approcci più "sostanzialistici", essendosi ritenuto «configurabile il delitto di subornazione anche con riferimento alle pressioni e alle minacce esercitate su colui che abbia reso dichiarazioni accusatorie nella fase delle indagini preliminari al fine di indurlo alla ritrattazione in vista dell'acquisizione, da parte sua, della qualità di testimone nel celebrando dibattimento» (Sez. 1, n. 6297 del 10/12/2009, Pesacane, Rv. 246107).
5. Secondo la ricostruzione operata da queste Sezioni Unite nell'ordinanza in data 27 giugno 2013, tuttavia, il consulente potrebbe rendersi responsabile del delitto di falsa testimonianza o di false informazioni al pubblico ministero solo allorché riferisca su dati oggettivi: non quando sia chiamato a formulare valutazioni tecnico-scientifiche, ossia giudizi, i quali, in quanto espressivi di opinioni personali, non potrebbero essere qualificati in termini di verità o di falsità.
Si era osservato che, in siffatta evenienza, l'unico reato configurabile, nell'ipotesi di subornazione del consulente del pubblico ministero, sarebbe quello di istigazione alla corruzione propria, di cui al censurato art. 322, primo comma, cod. pen.: figura criminosa rispetto alla quale il delitto di intralcio alla giustizia si porrebbe in rapporto di spedalità. Il consulente tecnico del pubblico ministero assumerebbe, infatti, nell’espletamento dei suoi compiti, la qualità di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio, richiesta dalla norma denunciata, la quale dovrebbe ritenersi, d'altra parte, applicabile anche in rapporto alla corruzione in atti giudiziari (art. 319-ter cod. pen.). Emergerebbero, peraltro, in questo modo, i profili di illegittimità costituzionale denunciati, poi ritenuti, come si è visto, infondati dal Giudice delle Leggi nella citata sentenza n. 163 del 2014.
6. Ritiene il Collegio che queste ultime conclusioni vadano ripensate, anche alla luce dei rilievi operati dalla Corte costituzionale nella sentenza n, 163 del 2014.
Va in primo luogo evidenziato che, in base ad un orientamento giurisprudenziale significativamente esteso, «quando intervengano in contesti che implicano l'accettazione di parametri di valutazione normativamente determinati o tecnicamente indiscussi, gli enunciati valutativi assolvono certamente una funzione informativa e possono dirsi veri o falsi» (così Sez. 5, n. 3552 del 09/02/1999, Andronico, Rv. 213366; per l'affermazione dello stesso principio, cfr in special modo: Sez. 6, n. 8588 del 06/12/2000, dep. 2001, Ci arietta, Rv. 219039; Sez. 5, n. 15773 del 24/01/2007, Marigliano, Rv. 236550; Sez. 1, n. 45373 del 10/06/2013, Capogrosso, Rv. 257895).
In particolare, movendo dall'interpretazione dell'art. 373 cod. pen. (falsa perizia o interpretazione), si è constatato che le norme positive ammettono talora la configurabilità del falso ideologico anche in enunciati valutativi e qualificatori, come avviene, ad esempio, nell'art. 2629 cod. civ. (valutazione esagerata dei conferimenti e degli acquisiti della società). Si è precisato che quando fa riferimento a criteri predeterminati, la valutazione è un modo di rappresentare la realtà analogo alla descrizione o alla constatazione, sebbene l'ambito di una sua possibile qualificazione in termini di verità o di falsità sia variabile e risulti, di regola, meno ampio, dipendendo dal grado di specificità e di elasticità dei criteri di riferimento. Si è evidenziato che la falsità della conclusione può dipendere anche dalla "falsità di una delle premesse". Si è concluso che può dirsi falso l'enunciato valutativo che contraddica criteri di valutazione indiscussi e indiscutibili ovvero che sia posto a conclusione di un ragionamento fondato su premesse contenenti false attestazioni (v. Sez. 5, Andronico, cit.).
Dette conclusioni sono state ribadite anche in altra vicenda in cui all'imputato era contestato il concorso in falso ideologico in atto pubblico ex art. 479 cod. pen. con un consulente tecnico del pubblico ministero in relazione alle valutazioni da questo esposte nel suo elaborato redatto su incarico del magistrato inquirente (v. Sez. 1, Capogrosso, cit.). D'altra parte, in materia di reato di falsa perizia, nei pochissimi precedenti reperibili, l'applicazione delle categorie "vero-falso" sembra essere avvenuta in linea con i principi da ultimo esposti (Sez. 5, n. 7067 del 12/01/2011, Sabolo, Rv. 249836; Sez. 6, n. 45633 del 24/10/2013, Piazza, non mass.).
In applicazione di questi principi deve concludersi che anche in relazione ai giudizi di natura squisitamente tecnico-scientifica può essere svolta una valutazione in termini di verità-falsità.
Ne discende che il consulente tecnico del pubblico ministero va equiparato al testimone anche quando formula giudizi tecnico-scientifici, sicché il caso in esame (in cui il consulente del Pubblico ministero era chiamato ad accertamenti che postulavano sia il riscontro di dati oggettivi sia profili valutativi) deve essere inquadrato, a seconda delle fasi processuali in cui viene fatta l'offerta (rifiutata), nel combinato disposto di cui agli artt. 377 e 371 -bis cod. pen. (intralcio alla giustizia per far rendere false dichiarazioni al pubblico ministero) o in quello di cui agli artt. 377 e 372 cod. pen. (intralcio alla giustizia per far rendere una falsa testimonianza).
7. Va dunque enunciato il seguente principio di diritto:
"L'offerta o fa promessa di denaro o di altra utilità al consulente tecnico del pubblico ministero finalizzata a influire sul contenuto della consulenza integra il defitto di intralcio alla giustizia di cui ali'art. 377 cod. pen. in relazione alle ipotesi di cui agli artt. 371-bis o 372 cod. pen.”
8. Conseguentemente, riqualificata l'imputazione ai sensi dell’art. 377 cod. pen., la sentenza impugnata deve essere annullata limitatamente alla determinazione della pena, con rinvio per nuovo giudizio sul punto ad altra sezione della Corte di appello di Roma.
A norma dell'art. 624, comma 2, cod. proc. pen. la sentenza impugnata va dichiarata irrevocabile in punto di affermazione della responsabilità dei ricorrenti per il fatto loro ascritto come riqualificato in questa sede.

                                                                                  P.Q.M.
Qualificata l'imputazione ex art. 377 cod. pen., annulla la sentenza impugnata limitatamente alla determinazione della pena e rinvia per nuovo giudizio sul punto ad altra sezione della Corte di appello di Roma. Dichiara irrevocabile l'impugnata sentenza in punto di responsabilità.
Così deciso il 25/09/2014.