Le Sezioni Unite hanno affermato che la misura di sicurezza della libertà vigilata applicata per effetto della dichiarazione di abitualità nel reato non può essere sostituita, per sopravvenuta infermità psichica, con la misura del ricovero in casa di cura e custodia, non operando in tal ipotesi la disposizione di cui all'art. 232, comma terzo, cod. pen.. 


RITENUTO IN FATTO
1. Il Tribunale di sorveglianza di Ancona, con ordinanza del 1° luglio 2010, rigettava l'appello proposto da Francesco Servadei avverso il provvedimento adottato, il precedente 14 aprile, dal Magistrato di sorveglianza di Macerata, che aveva disposto l'aggravamento della misura di sicurezza della libertà vigilata alla quale il predetto Servadei, dopo alternative vicende, era sottoposto, sostituendola con quella del ricovero in casa di cura e custodia.
Il Tribunale chiariva che il Servadei, già in data 14 giugno 2006, era stato sottoposto alla misura di sicurezza della libertà vigilata, perché dichiarato delinquente abituale, ai sensi degli artt. 103 e 109 cod. pen.
Il Magistrato di sorveglianza di Ancona, però, con provvedimento del successivo 10 ottobre, preso atto delle plurime violazioni delle prescrizioni inerenti all'esecuzione della misura di sicurezza non detentiva, ritenuto inoltre che detti comportamenti erano ascrivibili ad una evidente patologia psichiatrica di cui il soggetto era portatore ed erano indice di nuove manifestazioni della sua pericolosità sociale, aveva disposto, a norma dell'art. 232, comma terzo, cod. pen., l'aggravamento della misura, sostituendola con quella del ricovero in casa di cura e custodia.
Entrambi i provvedimenti da ultimo citati, a seguito di appello proposto dal Servadei, erano stati confermati dal Tribunale, con ordinanza del 25 gennaio 2007, e il successivo ricorso per cassazione contro quest'ultimo provvedimento era stato rigettato, con sentenza di questa Corte in data 3 ottobre 2007.
Il Tribunale di sorveglianza di Bologna, infine, con ordinanza del 24 novembre 2009, decidendo sull'appello avverso la proroga - disposta in data 3 settembre 2009 - della misura contenitiva, aveva ripristinato la libertà vigilata ed aveva affidato il Servadei alla comunità terapeutica "L'Aquilone" di Castel di Lama, misura questa ritenuta adeguata alla ridotta pericolosità del predetto.
Era poi accaduto che, durante la permanenza in tale Comunità, il Servadei aveva posto in essere, la notte del 30 gennaio 2010, un tentativo di violenza sessuale ai danni di una operatrice della struttura; e per tale fatto egli era stato arrestato e gli era stata applicata la custodia cautelare in carcere.
Il Tribunale rilevava, per quanto qui interessa, che il Servadei era «incontestabilmente affetto da disturbi psichiatrici», come dimostravano la sua' lunga permanenza in casa di cura e custodia e la certificazione in data 1° luglio , 2009 dell'ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia, che attestava una «dipendenza da sostanze e farmaci in disturbo della personalità ed antisociale»; j ravvisava nell'episodio della tentata violenza sessuale una nuova manifestazione di tale patologia psichiatrica, che imponeva, analogamente a quanto avvenuto nell'ottobre 2006 e senza la necessità di dovere disporre un accertamento peritale, la trasformazione della libertà vigilata nel ricovero in casa di cura e custodia anziché, come previsto dall'art, 231 cod. pen., nella casa di lavoro o nella colonia agricola, misura quest'ultima applicabile alle persone sane di mente; sottolineava che - per un verso - la misura non detentiva era inidonea a contenere la pericolosità del soggetto e - per altro verso ~ il mantenimento della medesima misura non era comunque più praticabile, avendo la comunità "L'Aquilone" revocato la propria disponibilità a ospitare il Servadei e non essendo stata prospettata alcun'altra "sistemazione" presso analoga struttura di assistenza sociale.
2. Ha proposto ricorso per cassazione, tramite il proprio difensore, il Servadei, sollecitando l'annullamento dell'ordinanza impugnata.
Con un primo motivo, il ricorrente deduce la carenza di motivazione sulla ritenuta riconducibilità del fatto commesso il 30 gennaio 2010 alla asserita patologia psichiatrica, non confortata - peraltro - da una perizia specialistica, benché espressamente sollecitata: la patologia certificata nel luglio 2009 dall'o.p.g. di Reggio Emilia, infatti, era generica, «aproblematica» e risalente nel tempo; il tentativo di violenza sessuale posto in essere non evidenziava dati oggettivi sintomatici del suo radicamento nella patologia attribuitagli, ma era riconducibile occasionalmente ad una imprevedibile «défaillance della terapia farmacologica» alla quale egli era sottoposto, che avrebbe determinato una caduta dei freni inibitori, così come accertato dal consulente di parte, il cui elaborato non era stato neppure preso in considerazione dal Tribunale di sorveglianza.
Con un secondo motivo, lamenta l'omessa ovvero l'illogica motivazione in ordine al carattere necessitato del ricovero in struttura contenitiva, che, per le sue gravi e drammatiche carenze e la sua diversità dal carcere, non poteva comunque scongiurare il reiterarsi di episodi analoghi; sottolinea, inoltre, che la stessa giurisprudenza costituzionale aveva qualificato il ricovero in casa di cura e custodia come misura "segregante", alla quale poteva farsi ricorso solo come extrema ratio e che incombeva al Tribunale di sorveglianza ricercare strutture adeguate a somministrare trattamenti alternativi in regime di libertà vigilata.
3. Con ordinanza del 23 novembre 2010, la Prima Sezione penale, assegnataria del ricorso ratione materìae, ne ha rimesso la decisione - ex art. 618 cod. proc. pen. - alle Sezioni Unite, al fine di prevenire un potenziale contrasto di giurisprudenza in ordine all'interpretazione dell'art. 232 cod. pen.
La Sezione rimettente rileva, infatti, che, con sentenza n. 39498 del 03/10/2007, la stessa Sezione, decidendo sul ricorso proposto nell'interesse del Servadei avverso - tra l'altro - il precedente provvedimento di sostituzione della libertà vigilata con il ricovero in casa di cura e custodia, aveva sostenuto, sulla base della disposizione di cui all'art. 232 cod. pen., ritenuta norma speciale rispetto al precedente art, 231, la legittimità di tale sostituzione, perché giustificata dalle gravi violazioni degli obblighi imposti con la misura di sicurezza non detentiva, indicative di conclamate e serie turbe psichiche sopravvenute alle condanne che avevano determinato la dichiarazione di abitualità nel reato e l'applicazione deH'originaria misura di sicurezza. Sostanzialmente analoga la soluzione adottata da Sez. 1, n. 2274 del 22/12/1976, dep. 01/03/1977, Fornelli, che, in una ipotesi di reato impossibile, aveva ritenuto legittima, sempre in base alla peculiare regola posta daH'art. 232 cod. pen., l'applicazione al prosciolto, rivelatosi anche affetto da infermità psichica, della misura di sicurezza detentiva in luogo della libertà vigilata, anche se quest'ultima non era sostitutiva della prima prevista in via principale.
La Sezione rimettente, quindi, dopo avere ricostruito il sistema delle misure di sicurezza delineato dal codice penale e avere evidenziato l'evoluzione scientifica e normativa, a partire dalla legge 13 maggio 1978, n. 180, in tema di assistenza ai malati di mente, con conseguenti e inevitabili riflessi sul contemperamento tra esigenze special-preventive legittimanti le misure di sicurezza e le necessità terapeutiche della persona Interessata, offre una diversa lettura dell'art. 232 cod. pen. rispetto a quella proposta dai richiamati precedenti giurisprudenziali.
In particolare, sottolinea che tale disposizione «si riferisce nel titolo e nelle sue varie previsioni, per quanto interessa in questa sede, agli infermi psichici in stato di libertà vigilata e di infermità psichica: letta in combinato con l'art. 212 cod. pen., appare chiaramente volta a disciplinare le situazioni in cui l'infermità psichica preesiste all'applicazione della misura e ne costituisce la ragione, non già quelle in cui, applicata la misura per altro titolo di pericolosità, l'infermità sopraggiunga. Ipotesi queste in cui [...] il secondo comma dell'art. 212 cod. pen. consente la "sostituzione", a causa di una infermità sopravvenuta, della misura imposta per altre ragioni con l'o.p.g. o la casa di cura e custodia, solo ove quella in atto sia già una misura detentiva. D'altronde, l'art. 232 non collega affatto la sostituzione o l'imposizione della casa di cura e custodia a violazioni delle prescrizioni della libertà vigilata, limitandosi al comma terzo a prescrivere l'aggravamento quando la persona in stato di infermità psichica si riveli "di nuovo" pericolosa». In sostanza, la portata della norma è circoscritta, secondo l'ordinanza di rimessione, alle sole ipotesi in cui occorra rivedere il giudizio di pericolosità, che aveva consentito di applicare la misura gradata della libertà vigilata all'infermo di mente, e tale conclusione trova conferma nei seguenti rilievi: a) l'analoga previsione del terzo comma dell'art. 232 riferita al minore finirebbe altrimenti per costituire mera ripetizione di quella contenuta nel secondo comma dell'art 231, relativa all'aggravamento della libertà vigilata a causa della violazione delle prescrizioni imposte; b) l'omesso riferimento, per l'infermo di mente, alle violazioni delle prescrizioni della libertà vigilata trova spiegazione nel principio, ispiratore anche della norma di cui all'art. 214, secondo comma, cod. pen., che l'inosservanza della misura di sicurezza da parte dell'infermo di mente non comporta, per costui, sanzione; c) l'art. 232 non prevede la sostituzione della libertà vigilata con l'ospedale psichiatrico giudiziario, perché, nel momento in cui la norma venne scritta, la libertà vigilata non poteva mai essere applicata in luogo dell'o.p.g.
4. Il Procuratore generale, con requisitoria scritta del 5 aprile 2011, dopo avere premesso di condividere la lettura dell'art. 232 cod, pen. proposta dalla prima Sezione penale, sostiene che la questione sollevata non avrebbe alcun rilievo nel caso in esame, i cui dati fattuali sarebbero coerenti con detta lettura: l'infermità psichica del Servadei, infatti, preesisteva all'applicazione della misura di sicurezza e ne costituiva la ragione; l'ordinanza impugnata, in stretta aderenza alla lettera dell'art. 232 cod. pen, si era limitata a ripristinare, a seguito della constatata riacutizzazione della infermità psichica di cui il Servadei soffriva, la misura di sicurezza detentiva del ricovero in casa di cura e custodia, già in precedenza applicata in occasione di una analoga situazione venutasi a determinare, con provvedimento 10 ottobre 2006 del Magistrato di Sorveglianza, confermato in sede di appello il 25 gennaio 2007 e divenuto irrevocabile il 3 ottobre successivo per effetto della sentenza in pari data della Suprema Corte; ne conseguiva che la legittimità della ripristinata misura di sicurezza contenitiva non poteva più essere posta in discussione. Rileva ancora il P.g. che la questione non era stata neppure dedotta con il ricorso, in quanto i motivi di doglianza in esso articolati attengono esclusivamente al vizio di motivazione sul merito della vicenda. Conclude, quindi, nei termini in epigrafe precisati.
5. Con memoria depositata il 21 aprile 2011, il difensore del ricorrente, in replica alla richiesta di inammissibilità del ricorso formulata dal P.g., precisa: a) le doglianze prospettate nell'atto d'impugnazione non si risolvono in non consentite censure in fatto all'apparato argomentativo dell'ordinanza impugnata, ma colgono reali carenze di questa in punto di motivazione; b) il titolo per il quale il Servadei era stato sottoposto alla misura di sicurezza, individuata originariamente nella libertà vigilata, era la dichiarazione di delinquenza abituale, che prescinde da qualsivoglia minorazione psichica; c) la libertà vigilata, già trasformata - con dubbia legittimità - nel ricovero in casa di cura e custodia, era stata ripristinata nel novembre 2009; d) "inconferente" era il richiamo del P.g. alla asserita preclusione del giudicato, che sarebbe insito nella precedente applicazione della misura di sicurezza detentiva, considerato che le decisioni in tale materia vengono adottate rebus sic stantibus e sono suscettibili, in quanto «colgono una realtà in divenire», di successive modificazioni.
6. Il Primo Presidente, con decreto del 25 febbraio 2011, ha assegnato il ricorso, ex art. 618 cod. proc. pen., alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione l'odierna udienza camerale.

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. La questione di diritto per la quale il ricorso è stato rimesso alle Sezioni Unite è la seguente: «se la misura di sicurezza della libertà vigilata applicata in conseguenza della dichiarazione di abitualità nel reato possa essere sostituita, per sopravvenuta infermità psichica, con la misura del ricovero in casa di cura e custodia».
2. Preliminare all'esame della quaestio iuris è la verifica della sussistenza o meno, nel caso di specie, della preclusione del giudicato, che, a parere del Procuratore generale, sarebbe determinata dalla precedente sostituzione, ritenuta legittima con la succitata sentenza 3 ottobre 2007 di questa Suprema Corte, della libertà vigilata, originariamente applicata al Servadei, con il ricovero in casa di cura e custodia.
Il procedimento di sorveglianza è indubbiamente assoggettato alle regole proprie di ogni altro procedimento giurisdizionale, ivi compresa quella che disciplina la definitività dei provvedimenti in caso di esaurimento dell’ iter delle impugnazioni ovvero di mancata impugnazione da parte dei soggetti legittimati. In sostanza, il principio del ne bis in idem trova applicazione, in linea generale, anche in tale procedimento, in forza del richiamo che l'art. 678 cod. proc. pen. fa al precedente art. 666, il cui comma 2 sancisce l'inammissibilità della successiva richiesta, se fondata sui medesimi presupposti di fatto e sulle stesse ragioni di diritto di quella precedente, già rigettata con provvedimento non più impugnabile.
Tuttavia, considerata la peculiarità del procedimento di sorveglianza in tema di misure di sicurezza, le quali sono ancorate ad una realtà - per così dire - indivenire, la preclusione del giudicato è attenuata rispetto all'irrevocabilità delle sentenze e dei decreti penali, nel senso che opera rebus sic stantibus e non impedisce la rivalutazione della pericolosità e dell'adeguatezza della misura, alla luce di nuovi elementi sopravvenuti ovvero preesistenti e non considerati, che offrano una mutata piattaforma di valutazione ed abbiano comunque una diretta incidenza sulla posizione della persona interessata, fino a coinvolgere diritti fondamentali della medesima.
Ciò posto, non si può prescindere dal dato di fatto che la misura di sicurezza non detentiva applicata al Servadei nel giugno 2006 trova titolo nella dichiarazione di delinquenza abituale ex art. 103 cod. pen., con gli effetti di cui al successivo art. 109 cod. pen..
La trasformazione, disposta nell'ottobre 2006 e avallata dalla sentenza 3 ottobre 2007 di questa Corte, della libertà vigilata nel ricovero in casa di cura e custodia non ha determinato un mutamento del titolo di legittimazione della misura, individuato sempre nella dichiarazione di delinquenza abituale.
Tale trasformazione, ritenuta legittima, era stata decisa sulla base della situazione di fatto all'epoca presa in considerazione e, mutata questa a seguito della sua evoluzione dinamica, aveva esaurito ogni suo effetto.
Il Tribunale di sorveglianza di Bologna, infatti, con provvedimento 24 novembre 2009, non impugnato dal pubblico ministero, aveva ripristinato la libertà vigilata, ritenendola adeguata alla persistente pericolosità sociale del Servadei, connessa sempre ed esclusivamente alla sua posizione di delinquente abituale e non di soggetto affetto da malattia mentale.
E' in questa nuova e mutata situazione di fatto che si inserisce l'adozione da parte del Magistrato di sorveglianza di Macerata del nuovo provvedimento del 14 aprile 2010 di ricovero in casa di cura e custodia, confermato in appello e oggetto del ricorso per cassazione.
Si è di fronte, quindi, ad un nuovo e autonomo procedimento di sorveglianza, che, in quanto attivato sulla base della nuova situazione fattuale venutasi a determinare, non è precluso, perché non basato sui medesimi elementi, dall'esito del precedente procedimento, che, come si è detto, aveva già esaurito i suoi effetti.
La decisione di questa Corte che definiva la pregressa procedura, affermando il principio della legittimità della sostituzione della libertà vigilata, in caso di gravi violazioni delle relative prescrizioni e di manifestazione di conclamate turbe psichiche, con il ricovero in casa di cura e custodia, rappresenta solo un precedente giurisprudenziale, che non può condizionare la presente decisione e che, per le ragioni di seguito esposte, non può essere condiviso.
Conclusivamente deve essere enunciato sul punto, in applicazione dell'art. 173, comma 3, disp. att. cod. proc. pen., il seguente principio di diritto: «/a preclusione del giudicato, nel procedimento di sorveglianza in materia di misure di sicurezza, opera rebus sic stanti bus e non impedisce, una volta esauriti gli effetti della precedente decisione, la rivalutazione della pericolosità del soggetto e la conseguente individuazione di un'eventuale nuova misura da applicare sulla base di ulteriori elementi non valutati, perché palesatisi successivamente all'adozione del provvedimento divenuto definitivo o, pur preesistenti, non presi da questo in considerazione».
3. La questione controversa consiste, come si è detto, nella possibilità o meno di sostituire la misura di sicurezza della libertà vigilata, applicata in conseguenza della dichiarazione di abitualità nel reato, con la misura del ricovero in casa di cura e custodia per sopravvenuta infermità psichica.
Tale sostituzione o più esattamente trasformazione risulta essere stata adottata nel caso in esame, come testualmente si evince dall'ordinanza impugnata, «all'esito di procedimento ex art. 231 cod. pen.», ossia a seguito della rilevata trasgressione degli obblighi imposti, avendo sia il Magistrato di sorveglianza che il Tribunale di sorveglianza evidenziato il grave episodio di tentata violenza sessuale posto in essere dal Servadei in danno di un'operatrice della struttura in cui era ospitato e avendo ritenuto conseguentemente l'inidoneità della libertà vigilata a contenere la pericolosità del predetto; il ricovero in casa di cura e custodia risulta essere stato prescelto, in luogo dell'assegnazione ad una casa di lavoro o ad una colonia agricola previste dal richiamato art. 231 cod. pen., in considerazione della patologia psichiatrica di cui il Servadei era portatore e in applicazione dell'art. 232, comma terzo, cod. pen., «norma speciale» rispetto alla prima.
Si impone, quindi, una sia pure sintetica ricostruzione del sistema delle misure di sicurezza delineato dal codice, al fine di individuare la corretta soluzione del caso, alla luce del corrispondente quadro normativo di riferimento.
4. Il legislatore del 1930, mediando tra le opposte posizioni della Scuola positiva e della Scuola classica, ha inserito nel codice penale il così detto sistema dualistico o del doppio binario, affiancando alla sanzione penale tradizionale la misura di sicurezza, la cui funzione è quella di neutralizzare la pericolosità sociale di ben individuate categorie di soggetti.
Lo scopo delle misure di sicurezza è quello di potenziare la difesa sociale mediante la prevenzione del pericolo di reiterazione del reato da parte del soggetto ritenuto pericoloso.
La pena assolve funzioni di retribuzione e di prevenzione generale, la misura di sicurezza persegue una funzione special-preventiva, che mira a neutralizzare, curare e rieducare la persona socialmente pericolosa, per scongiurarne le spinte soggettive verso l'atto criminale.
L'applicazione delle misure di sicurezza richiede l'esistenza di due presupposti: uno oggettivo, integrato dalla previa commissione di un reato o di un fatto dalla legge ad esso equiparato; l'altro soggettivo, costituito dall'accertamento della pericolosità sociale del reo.
L'art. 202, comma primo, cod. pen., infatti, testualmente recita: «le misure di sicurezza possono essere applicate soltanto alle persone socialmente pericolose, che abbiano commesso un fatto preveduto dalla legge come reato». Il comma secondo dello stesso articolo prevede un'eccezione a tale principio, aggiungendo che «la legge penale determina i casi nei quali a persone socialmente pericolose possono essere applicate misure di sicurezza per un fatto non preveduto dalla legge come reato»; tali ipotesi, che si concretano in situazioni equiparabili al reato (c.d. quasi reato), sono tassativamente individuate dalla legge nel reato impossibile (art. 49, comma secondo, cod. pen.) e nell'accordo criminoso non eseguito o nell'istigazione, non accolta, a commettere un delitto (art. 115 cod. pen.).
La previsione del presupposto oggettivo, in seno ad un istituto giuridico con chiara finalità di prevenzione e quindi proiettato a scongiurare reati futuri piuttosto che a occuparsi di quelli già commessi, è indice della preoccupazione del legislatore di evitare eventuali arbitri nell'accertamento della pericolosità sociale, requisito - questo - dai molteplici significati potenziali e perciò agevolmente manipolabile, e di ancorare la misura di sicurezza ad un dato di fatto non suscettibile di plurime interpretazioni, appunto il reato o il quasi reato, ritenuto di per sé sintomo di pericolosità sociale già concretamente manifestatasi.
Nell'ambito di un diritto penale a base oggettivistica, incentrato cioè sui principi garantistici di materialità-offensività e non a base soggettivistica- preventiva, non è compito del giudice penale applicare le misure di sicurezza a scopo esclusivamente terapeutico-risocializzativo, prescindendo dalla commissione di un reato o di un fatto ad esso equiparato.
E' sulla base di tale dato oggettivo che deve innestarsi la valutazione del giudice in ordine alla sussistenza del presupposto soggettivo della pericolosità sociale, la cui nozione è data dall'art. 203 cod. pen.: «agli effetti della legge penale, è socialmente pericolosa la persona, anche se non imputabile o non punibile, la quale ha commesso taluno dei fatti indicati nell'articolo precedente, quando è probabile che commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reati».
La qualità di persona socialmente pericolosa deve essere desunta dagli indici tipizzatori di cui all'art. 133 cod. pen., utilizzati in funzione della prognosi criminale, vale a dire del profilo di difesa preventiva in una proiezione futura.
Le misure di sicurezza efficacemente sono state definite dalla dottrina come misure di prevenzione post delictum, per differenziarle dalle misure di prevenzione ante o praeter delictum. Il presupposto soggettivo (pericolosità) e la finalità di prevenzione del crimine sono comuni ad entrambe le categorie, che si differenziano soltanto nel presupposto oggettivo: le prime, diversamente dalle seconde, per la cui applicazione è sufficiente la qualità di soggetto socialmente pericoloso, richiedono la previa commissione di un reato.
5. L'applicazione delle misure di sicurezza, espressamente previste dalla Costituzione, che, pur non imponendolo, recepisce il sistema del doppio binario, è presidiata dal principio di legalità.
L'art. 25, comma terzo, Cost. dispone: «Nessuno può essere sottoposto a misura di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge». E' così costituzionalizzato il detto principio, già sancito a livello legislativo dall'art. 199 cod. pen., per il quale: «Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza che non siano espressamente stabilite dalla legge e fuori dai casi dalla legge stessa preveduti».
E' la legge, quindi, che deve indicare tassativamente i casi in cui può essere applicata la misura di sicurezza e determinare il tipo di misura applicabile, anche con riferimento alle ipotesi di sostituzione o di trasformazione della misura medesima.
6. Plurimi e autonomi sono i titoli che legittimano l'applicazione delle misure di sicurezza personali, espressamente tipizzate in relazione al dato personologico che connota la pericolosità da arginare in via preventiva.
In sostanza, il tipo di pericolosità è strettamente connesso agli indici su cui esso concretamente si fonda, varia secondo i fattori che di volta in volta assumono valore sintomatico e orienta - di conseguenza - la scelta della misura di sicurezza normativamente prevista nel caso specifico.
Dalla disciplina codicistica sono enucleabili diversi titoli di pericolosità, sulla cui base, però, questa deve essere accertata in concreto, essendo stato innovato, sulla scia dell'orlentamento assunto dalla Corte costituzionale con numerose sentenze (sentt. n. 1 del 1971; n. 139 del 1982; n. 249 del 1983; n. 1102 del 1988) e dei radicali mutamenti normativi conseguenti all'art. 31 della legge 10 ottobre 1986, n. 663, e, per così dire, stabilizzati con l'entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale (art. 679), l'originario impianto del codice penale, che prevedeva ipotesi di pericolosità presunta dalla legge.
Tali titoli possono essere così individuati: a) dichiarazione dì delinquenza abituale, professionale o per tendenza (art. 216 cod. pen.); b) proscioglimento per infermità psichica o per intossicazione cronica da alcool o stupefacenti ovvero per sordomutismo (art. 222 cod. pen.); c) condanna ad una pena diminuita per ragione di infermità psichica, di cronica intossicazione da alcool o stupefacenti ovvero di sordomutismo (art. 219 cod. pen.); d) condanna per delitti commessi in stato dì ubriachezza abituale o sotto l'azione di stupefacenti all'uso dei quali l'imputato sia dedito (art.221 cod. pen.); e) condanna per delitti di per sé "spregevoli" o di particolare allarme sociale, secondo l'espressa previsione delle varie norme di riferimento; f) la qualità di straniero o di cittadino appartenente ad uno Stato membro dell'Unione europea, ove ricorrano determinati presupposti espressamente previsti dalla legge (art. 235 cod. pen.); g) la non imputabilità per minore età o la condanna del minore imputabile, in presenza di determinate condizioni (artt. 224, 225, 226 cod. pen.).
7. Con specifico riferimento alle ipotesi, rilevanti in questa sede, della pericolosità qualificata del delinquente abituale e di quella dipendente da infermità o seminfermità psichica, osserva la Corte che la prima, legata alla reiterazione di una serie di fatti criminosi (art. 103 cod. pen.), si differenzia nettamente dalla seconda, diverse essendo la genesi e le connotazioni strutturali delle due situazioni, con la conseguenza che l'applicazione, il mantenimento e l'eventuale trasformazione delle misure di sicurezza devono conformarsi alle corrispondenti previsioni normative.
Alla persona affetta da parziale o totale infermità psichica può essere applicata, a norma degli artt. 219 e 222 cod. pen., rispettivamente la misura di sicurezza del ricovero in casa di cura e custodia ovvero quella del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, fatta salva l'eventuale scelta alternativa di una diversa misura, alla luce di quanto statuito dalla Corte costituzionale con le sentenze n. 253 del 2003 e n. 208 del 2009. L'applicazione di tali misure presuppone l'accertamento giudiziale della commissione di un reato, dell'infermità psichica dell'agente e della pericolosità da infermità di costui, pur ritenendo scemata l'imputabilità o escludendola del tutto.
Le stesse misure non sono applicabili al delinquente abituale (o professionale o per tendenza), la cui pericolosità deriva dalla notevole attitudine al crimine e non già da una infermità psichica.
Che il legislatore del 1930 abbia tenuto ben distinti i due titoli di pericolosità emerge dai seguenti rilievi: a) l'inclinazione al delitto originata dall'infermità preveduta dagli artt, 88 e 89 cod. pen. è diversa da quella che trova la sua causa nell'indole particolarmente malvagia del colpevole e non consente, secondo l'espressa previsione del comma secondo dell'art. 108 cod. pen., l'applicazione della disposizione di cui al primo comma dello stesso articolo, vale a dire la dichiarazione di pericolosità qualificata dalla tendenza a delinquere, ossia da una sorta di "follia morale", che compromette la sola sfera dei sentimenti e non quella intellettiva o volitiva dell'agente; b) l'unica ipotesi di trasformazione della misura di sicurezza applicata a persona imputabile in misura di sicurezza correlata a infermità psichica è prevista dall'art. 212, comma secondo, cod. pen..
S'impone una più dettagliata illustrazione di questo secondo aspetto.
8. Secondo la disposizione di cui all'art. 212, comma secondo, cod. pen., se nel corso dell'esecuzione di una misura di sicurezza detentiva sopravviene un'infermità psichica dell'internato, il giudice deve sostituire alla misura precedentemente disposta (la colonia agricola o la casa di lavoro) quella dell'ospedale psichiatrico giudiziario o della casa di cura e custodia. Cessata l'infermità psichica, il giudice deve accertare ex novo, ai sensi del comma terzo del richiamato articolo, la persistenza della pericolosità connessa agli indici su cui essa si fonda e ripristinare, in caso di esito positivo, la precedente misura di sicurezza, a meno che non ritenga più opportuno, per la constatata attenuazione della pericolosità, applicare la libertà vigilata.
L'esecuzione di una misura di sicurezza non detentiva cessa nel caso in cui la persona, colpita da infermità psichica, è ricoverata nello spazio psichiatrico di un ospedale civile per essere sottoposta a trattamento sanitario obbligatorio, venendosi in tal caso a determinare «condizioni di fatto manifestamente incompatibili» (cfr. Relazione ministeriale sul progetto del codice penale, parte I, pag. 262). Anche in tale caso, cessato il ricovero ospedaliero, il giudice procede al riesame della pericolosità sulla base degli originari indici di valutazione, attualizzati in relazione anche all'evoluzione dinamica della situazione, e, in caso di accertamento positivo, applica una misura di sicurezza personale non detentiva (art. 212, comma quarto, cod. pen.). E' agevole desumere a contrariis che, ove la persona imputabile, già sottoposta a misura di sicurezza non detentiva (libertà vigilata) e colpita, durante l'esecuzione di questa, da infermità psichica, non venisse ricoverata in ospedale, la misura in oggetto continuerebbe ad operare regolarmente.
Si coglie chiaramente nelle disposizioni, di carattere generale, della norma codicistica esaminata l'autonomia del titolo su cui riposano tanto la dichiarazione di pericolosità della persona imputabile quanto l'applicazione ad essa della corrispondente misura di sicurezza, la quale - di norma - non può essere trasformata in altra misura che si collega all'eventuale infermità psichica sopravvenuta.
L'eccezione prevista dal comma secondo dell'art. 212 cod. pen. rimane isolata ed è giustificata dal fatto che l'infermità colpisce un soggetto già internato, anche se l'automatismo della previsione appare - oggi - assai discutibile e scarsamente coordinato con l'evoluzione scientifica e normativa in materia di assistenza e cura ai malati di mente. Sarebbe auspicabile, de iure condendo, che il sopravvenire di un'infermità psichica, anziché giustificare un'automatica e superficiale applicazione del ricovero in struttura psichiatrica giudiziaria, imponesse più coerentemente una rivalutazione dei precedenti indici di pericolosità, onde verificarne l'eventuale perdita di significato.
La diversa regolamentazione, coerente col sistema generale delineato in materia, del caso di infermità sopravvenuta alla persona (imputabile) sottoposta a misura di sicurezza non detentiva trova significativa spiegazione nella citata Relazione ministeriale sul progetto del codice penale, ove testualmente si afferma che «dare facoltà al giudice di disporre il ricovero in un manicomio giudiziario o in una casa di cura e di custodia sarebbe stato eccessivo, e, d'altro canto, occorreva preoccuparsi della necessità pratica di non ingombrare eccessivamente gli stabilimenti. Il progetto, pertanto, lascia, in questo campo, che agisca l'Autorità amministrativa di polizia o che in altro modo si provveda, ad es. a cura dei parenti dell'infermo, ai sensi della legge sui manicomi» (parte I, pag. 262).
Non va sottaciuto che l'impianto codicistico risente della disciplina della legge manicomiale del 1904, improntata ad una logica custodialistica per il trattamento del malato di mente, e mal si concilia con la legge 13 maggio 1978, n. 180, che privilegia invece l'intervento terapeutico erogato sul territorio e riduce quello sanitario obbligatorio in condizioni di degenza ospedaliera ad intervento del tutto eccezionale, se imposto dalla necessità di garantire il diritto individuale alla salute mentale.
Il legislatore del 1988, intervenendo sul piano processuale, ha implicitamente tenuto conto dell'evoluzione scientifica e normativa in tema di assistenza e cura agli infermi psichici ed ha conseguentemente circoscritto entro confini molto ristretti la competenza del giudice penale in relazione ai provvedimenti da adottare nei confronti di persone che vengano a trovarsi in tale condizione, stabilendo il principio che detto giudice non è - di regola - autorizzato ad intervenire sul trattamento della malattia mentale (Relazione al progetto preliminare, pag. 32).
Esemplificativamente, l'art. 73 cod. proc. pen. impone al giudice (o al p.m. nel corso delle indagini preliminari) l'obbligo di informare, con il mezzo più rapido, della probabile necessità di sottoporre l'imputato (o l'indagato) a cure psichiatriche «l'autorità competente per l'adozione delle misure previste dalle leggi sul trattamento sanitario per malattie mentali»; e solo se vi sia «pericolo nel ritardo», è consentito al giudice adottare provvedimenti di urgenza, fino al ricovero provvisorio dell'imputato in idonea struttura del servizio psichiatrico ospedaliero, avvisando gli organi competenti, il cui provvedimento, non appena eseguito, farà perdere efficacia a quello interinale del giudice. Detto ricovero ovviamente non è soggetto agli effetti risolutivi di interventi esterni soltanto nel caso in cui sia disposto come misura alternativa della custodia in carcere.
In conclusione, l'art. 212 cod. pen. regolamenta il caso della persona che, sottoposta ad una misura di sicurezza detentiva o non detentiva, perché dichiarata pericolosa in forza di un titolo diverso dalla infermità psichica, sia colpita da tale patologia durante l'esecuzione della misura. La norma si pone nella stessa logica che ispira l'art. 148 cod. pen., che disciplina il caso dell'infermità psichica sopravvenuta al condannato prima dell'esecuzione o durante l'esecuzione di una pena restrittiva della libertà personale.
9. Passando ad esaminare, per quanto qui interessa, la misura di sicurezza personale non detentiva della libertà vigilata, deve premettersi che la stessa consiste nell'imposizione al soggetto che vi è sottoposto di una serie di prescrizioni limitative della sua libertà personale, non specificamente indicate dal legislatore ma affidate all'ampio margine dì discrezionalità del giudice in sede di applicazione della misura (artt. 228 cod. pen.), al fine di adeguare dette prescrizioni alle condizioni personali, familiari e ambientali dell'interessato, onde allontanarlo da occasioni di nuovi reati e promuovere il suo reinserimento sociale, anche attraverso interventi di sostegno e di assistenza da parte del servizio sociale (art. 55 Ord. Pen.).
Quanto alle possibili "mutazioni" della libertà vigilata in altra misura, rileva la Corte che devono essere prese in considerazione le disposizioni speciali di cui agli artt. 231 e 232 cod. pen., per coglierne la reale portata e la sfera di rispettiva operatività.
9.1. La prima norma disciplina, come si evince dallo stesso titolo, la «trasgressione degli obblighi imposti», valutata come una possibile nuova manifestazione della pericolosità sociale precedentemente ritenuta, con i conseguenti effetti sanzionatori dalla stessa norma previsti.
Tali effetti consistono, eccettuato il caso previsto dalla prima parte dell'art. 177 cod. pen., nell'imposizione della cauzione di buona condotta in aggiunta alla libertà vigilata (comma primo); oppure, tenuto conto della particolare gravità della violazione o del ripetersi di essa o della mancata prestazione della cauzione, nella sostituzione della libertà vigilata con l'assegnazione ad una colonia agricola o ad una casa di lavoro, ovvero, se si tratta di un minore, con il ricovero in un riformatorio giudiziario (comma secondo), da eseguirsi eventualmente nelle forme del collocamento in comunità (d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448).
Anche l'art. 231 cod. pen. ha chiaramente come destinatari quei soggetti dichiarati pericolosi in forza di un titolo diverso dalla infermità o seminfermità psichica e sottoposti alla misura di sicurezza non detentiva della libertà vigilata, i quali ne violano le relative prescrizioni.
9.2. La norma di cui all'art. 232 cod. pen. detta, invece, alcune regole per il caso in cui la libertà vigilata abbia come destinatari soggetti di età minore ovvero infermi psichici, ritenuti pericolosi per tale loro condizione.
La norma parte dal presupposto che costoro, per il proprio stato di immaturità o di incapacità, non sarebbero in grado di provvedere a sé stessi e di realizzare compiutamente l'afflittività delle prescrizioni connesse alla libertà vigilata, stabilendo quindi, al comma primo, come condizione per la stessa applicabilità della misura, la necessità di affidare tali soggetti, durante l'esecuzione della misura medesima, ad una persona o ad un ente che vigili su di loro.
Il secondo comma della disposizione in esame stabilisce, inoltre, che sia ordinato o mantenuto il ricovero in riformatorio (fatta salva la disciplina ex art. 36 d.P.R. n. 448 del 1988) per il minore e nella casa di cura e custodia per l'infermo di mente, ove l'affidamento di costoro ai soggetti indicati nel comma primo non sia «possibile» od «opportuno».
Il comma terzo, infine, prevede che, «Se, durante la libertà vigilata, il minore non dà prova di ravvedimento o la persona in stato di infermità psichica si rivela di nuovo pericolosa», la misura non detentiva in atto deve essere sostituita rispettivamente con il ricovero in un riformatorio o in una casa di cura e custodia.
Quest'ultima disposizione, pertanto, opera ove si accerti un aggravamento della pericolosità sociale già manifestata in ragione della minore età o dell'infermità psichica e posta a fondamento dell'applicazione della libertà vigilata.
Contrariamente a quanto sostenuto da Sez. 1, n. 39498 del 03/10/2007, Servadei (e implicitamente da Sez. 1, n. 2274 del 22/12/1976, dep. 01/03/1977, Fornelli), la disposizione non si pone in rapporto di specialità rispetto alla norma di cui all'art. 231 cod. pen. e ai casi ivi disciplinati.
Le due norme hanno autonomi campi operativi: l'art. 231 cod. pen. attiene, come si è detto, alla trasgressione degli obblighi inerenti alla libertà vigilata da parte del soggetto che vi è sottoposto, perché dichiarato pericoloso per ragioni diverse dalla infermità psichica; l'art. 232, comma terzo, cod. pen., che è disposizione speciale rispetto alla norma generale di cui all'art. 212 cod. pen. (relativa al caso di infermità psichica sopravvenuta in soggetto sano) e non già a quella di cui all'art. 231 cod. pen., non collega affatto la trasformazione della libertà vigilata nel ricovero in casa di cura e custodia a violazioni delle prescrizioni imposte con la prima misura, ma prevede tale trasformazione in quanto la persona, già dichiarata pericolosa per infermità psichica, manifesta nuovi e più allarmanti segni di tale pericolosità, sì da imporre l'adozione della più rigorosa misura contenitiva.
Tale interpretazione del comma terzo dell'art. 232 cod. pen., circoscritto alle sole ipotesi in cui occorre rivedere il giudizio di pericolosità che aveva consentito l'applicazione della misura non detentiva, trova conferma, come incisivamente sottolineato dall'ordinanza di rimessione, nei seguenti rilievi: a) con riferimento alla posizione del minore che «non dà prova di ravvedimento», la previsione della disposizione in esame, se interpretata nel senso di cui all'ordinanza impugnata e ai richiamati precedenti giurisprudenziali di questa Suprema Corte, sarebbe mera e irragionevole duplicazione della disposizione di cui al comma secondo dell'art. 231 cod. pen., relativa all'aggravamento, per trasgressione degli obblighi imposti, della libertà vigilata applicata al minore; b) nessun riferimento la disposizione in esame fa alla violazione delle prescrizioni della libertà vigilata, ma considera solo il fatto che «il minore non dà prova di ravvedimento o la persona in stato di infermità psichica si rivela di nuovo pericolosa», evidenziando così soltanto l'accentuato grado di pericolosità; c) la disposizione non prevede la sostituzione della libertà vigilata con l'ospedale psichiatrico giudiziario per la ragione che, all'epoca in cui la norma venne scritta, la misura non detentiva non poteva mai essere applicata in luogo di quella detentiva.
10. All'esito dell'analisi logico-sistematica della normativa esaminata, devono enunciarsi, in ossequio al disposto dell'art. 173, comma 3. disp. att. cod. proc. pen., i seguenti principi di diritto:
- «// giudizio di pericolosità, in quanto strettamente connesso agli indici di valutazione su cui esso di volta in volta di fonda, trova la sua ragion d'essere in titoli diversi e comporta, in forza del principio di legalità, l'applicazione o la sostituzione o il mantenimento o la trasformazione della misura di sicurezza prevista dalle corrispondenti norme di riferimento» ;
- «l'art. 212 cod. pen. disciplina il caso della persona che, sottoposta a misura di sicurezza detentiva o non detentiva per un titolo diverso dalla infermità psichica, sia colpita da tale patologia durante l'esecuzione della misura» ;
- «l'art. 231 cod. pen. regolamenta gli effetti che conseguono alla trasgressione degli obblighi imposti al libero vigilato, dichiarato pericoloso per un titolo diverso dalla infermità psichica»;
- «l'art. 232 cod. pen. non è norma speciale rispetto all'art. 231 cod. pen. e disciplina - tra l'altro - la diversa ipotesi della persona che, dichiarata pericolosa per infermità psichica e sottoposta alla libertà vigilata per tale titolo, manifesta, in corso di esecuzione della misura, nuovi sintomi di una più accentuata pericolosità, si da rendere inadeguata la misura non detentiva in atto e da legittimarne la sostituzione con il ricovero in casa di cura e custodia» ;
- «la misura di sicurezza della libertà vigilata applicata per effetto della dichiarazione di abitualità nel reato non può essere sostituita, per sopravvenuta infermità psichica, con la misura del ricovero in casa di cura e custodia, non operando in tale ipotesi la disposizione di cui all'art. 232, comma terzo, cod. pen.».
11. L'ordinanza impugnata, confermativa di quella del 14 aprile 2010 del Magistrato di sorveglianza di Macerata, si pone in aperto contrasto con gli enunciati principi, in quanto privilegia la tesi secondo cui le norme di, cui agli artt. 231 e 232 cod. pen. si integrerebbero tra loro, nel senso che la seconda sarebbe in rapporto di specialità rispetto alla prima e, quindi, legittimerebbe, per l'accertata trasgressione degli obblighi imposti con la libertà vigilata e per il constatato peggioramento della patologia psichiatrica di cui il Servadei era portatore, la sostituzione della misura di sicurezza non detentiva con quella del ricovero in casa di cura e custodia.
L'ordinanza, così argomentando, confonde i differenziati aspetti che contraddistinguono le diverse e autonome ipotesi di mutazione della libertà vigilata in corso di esecuzione (violazione delle relative prescrizioni, nuova e più grave manifestazione di pericolosità), non tiene conto del titolo per il quale il Servadei era stato sottoposto a misura di sicurezza, costituito esclusivamente dalla pericolosità connessa alla dichiarazione di delinquenza abituale, e dà rilievo, invece, all'asserita infermità psichica pregressa del predetto, evidenziatasi ulteriormente in occasione dell'episodio verificatosi la notte del 30 gennaio 2010 presso la comunità "L'Aquilone", omettendo però di considerare che tale presunto stato patologico, contrariamente a quanto sembra sostenere anche in questa sede il P.g. nella sua requisitoria scritta del 5 aprile 2011, non era stato mai giudizialmente accertato come titolo di pericolosità legittimante la misura di sicurezza.
Erroneamente, quindi, l'ordinanza in verifica, nell'avallare sostanzialmente la linea argomentativa del provvedimento adottato dal Magistrato di sorveglianza, riconduce il caso in esame nella previsione dì cui all'art. 232, comma terzo, cod. pen., disposizione riferibile invece, come si è detto, alle persone dichiarate pericolose per infermità psichica, sottoposte, per tale ragione, a libertà vigilata e rivelatesi di nuovo pericolose.
Anche a volere ammettere, pur non essendo stato espletato - nonostante le pertinenti allegazioni difensive - alcun serio e approfondito accertamento al riguardo (perizia psichiatrica), che il Servadei sia stato colpito, mentre era sottoposto a libertà vigilata perché dichiarato delinquente abituale, da infermità psichica, non per questo il Magistrato di sorveglianza avrebbe potuto sostituire la misura non detentiva in atto con quella del ricovero in casa di cura e custodia, non consentendolo l'art. 212, quarto comma, cod. pen., che disciplina tale ipotesi.
La pericolosità sociale di natura psichiatrica, che eventualmente va a sovrapporsi e ad assorbire quella derivante da altro titolo e fronteggiata con misura di sicurezza non detentiva, comporta certamente una commistione di istanze terapeutiche e di neutralizzazione della pericolosità. Tale situazione, però, se non connessa alla commissione di un reato, non può essere affidata alle valutazioni della psichiatria forense ma a quelle della psichiatria clinica, che, nello spirito della legge n. 180 del 1978, deve privilegiare le esigenze di cura e adottare gli interventi terapeutici ritenuti più opportuni, anche ricorrendo eventualmente al trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di degenza ospedaliera.
Nel caso specifico, tuttavia, non può ignorarsi che il Servadei, in relazione al fatto di cui si rese protagonista la notte del 30 gennaio 2010, fu tratto in arresto e pende a suo carico procedimento penale per il reato di tentata violenza sessuale. Ammettendo che tale illecito fu commesso in stato di infermità o seminfermità psichica, indice della pericolosità dell'agente, compete al giudice procedente verificare in concreto, sulla base di una approfondita indagine, tale pericolosità e applicare eventualmente, anche in via provvisoria, in aderenza a quanto statuito dal Giudice delle leggi con la sentenza n. 367 del 2004, la misura di sicurezza ritenuta più adeguata ex artt. 206 cod. pen. e 312 cod. proc. pen..
Il provvedimento adottato, all'esito del procedimento di sorveglianza, nei confronti del Servadei, sottoposto alla libertà vigilata per titolo diverso dalla infermità psichica, non è in sintonia con le previsioni di cui agli artt. 212, comma quarto, 231, comma secondo, e 232, comma terzo, cod. pen. e si pone, quindi, in palese contrasto con il principio di legalità che permea l'intera disciplina delle misure di sicurezza, considerato che queste vanno tenute distinte in relazione al titolo di pericolosità e che la fungibilità tra i diversi tipi di misura, anche in sede di sostituzione o di trasformazione, è soggetta a criteri tassativi predeterminati dal legislatore e non può essere affidata alla libera scelta del giudice, che non ha poteri di supplenza, rispetto agli organi a ciò preposti, nel trattamento della malattia mentale.
12. E' il caso di precisare che la questione esaminata, anche se non esplicitata nel ricorso, deve ritenersi implicitamente sollevata con il motivo che contesta la legittimità del disposto ricovero in casa di cura e custodia, motivo ripreso e più ampiamente sviluppato nella memoria difensiva del 21 aprile 2011.
Non può, inoltre, essere sottaciuto che la riscontrata violazione del principio di legalità delle misure di sicurezza (artt. 199 cod. pen. e 25, comma terzo, Cost.), incidendo negativamente - tra l'altro - su diritti fondamentali della persona, quali quello alla salute (art. 32 Cost.) e alla libertà (art. 13 Cost.), è comunque rilevabile d'ufficio anche nell'ambito del giudizio di cassazione.
13. L'ordinanza impugnata e quella in data 14 aprile 2010 del Magistrato di sorveglianza di Macerata devono, pertanto, essere annullate senza rinvio, con l'effetto che rivive - allo stato - la misura di sicurezza della libertà vigilata assistita, imposta al Servadei con il provvedimento del 24 novembre 2009 del Tribunale di sorveglianza di Bologna, fatte salve logicamente le ulteriori ed eventuali determinazioni del competente Magistrato di sorveglianza ovvero del giudice competente nell'ambito del procedimento penale a carico del Servadei per il reato di tentata violenza sessuale.

La Cancelleria provvederà agli adempimenti di cui all'art. 626 cod. proc. pen.

                                                                                                                               P.Q.M.
Allunna senza rinvio l'ordinanza impugnata e quella in data 14 aprile 2010 del Magistrato di sorveglianza.
Manda alla Cancelleria per gli adempimentidi cui all'art. 626 cod. pen. .
Cos' deciso il 28/04/2011