Le Sezioni Unite hanno stabilito che la chiamata in correità o in reità de relato, anche se non asseverata dalla fonte diretta può avere come unico riscontro, ai fini della prova della responsabilità penale dell’accusato altra o altre chiamate di analogo tenore. 


RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di assise di appello di Palermo, con sentenza del 29 aprile 2010, depositata il 9 luglio successivo, confermava la decisione in data 16 gennaio 2009 della Corte di assise di Agrigento, che, ricostruendo le vicende relative alla guerra di mafia scatenatasi, nell'arco temporale compreso tra il 1991 e il 1995, tra l'articolazione agrigentina di "cosa nostra" e l'associazione, pure di stampo mafioso, denominata "stidda", aveva dichiarato:
- **** **** colpevole dei reati di partecipazione all'associazione mafiosa "cosa nostra" con contestazione "aperta" (capo A), di omicidio premeditato in danno di **** e **** **** ****, commesso il 24 dicembre 1991 (capo K), di omicidio premeditato in danno di **** ****, commesso il 26 agosto 1992 (capo M), di tentato omicidio premeditato in danno di **** ****, commesso il 4 ottobre 1992 (capo 0), di detenzione e porto illegali delle armi utilizzate per l'esecuzione dei fatti di sangue (capi L, N, P), reati-fine tutti aggravati ai sensi degli artt. 112, comma primo, n. 1, cod. pen. e 7 d.l. 13/05/1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, e lo aveva condannato alla pena dell'ergastolo con isolamento diurno per un anno e mesi sei;
- **** **** e **** **** colpevoli di concorso nell'omicidio premeditato in danno di **** **** e dei connessi reati in materia di detenzione e porto illegali di armi, aggravati ai sensi degli artt. 112, comma primo, n. 1, cod. pen. e 7 d.l. n. 152 del 1991, commessi il 28 settembre 1992 (capi Y, Z), e li aveva condannati alla pena dell'ergastolo con isolamento diurno per un anno;
- **** **** colpevole dei reati di partecipazione all'associazione mafiosa (capo A), di tentato omicidio premeditato in danno di **** ****, commesso l'11 agosto 1991 (capo I), di omicidio premeditato in danno di **** **** (capo M), di detenzione e porto illegali delle armi utilizzate per tali fatti di sangue (capi J, N), reati-fine aggravati ai sensi degli artt. 112, comma primo, n. 1, cod. pen. e 7 d.l. n. 152 del 1991, e lo aveva condannato alla pena dell'ergastolo con isolamento diurno per un anno;
- **** **** colpevole del reato di cui agli artt. 378, comma secondo, cod. pen. e 7 d.l. n. 152 del 1991, per avere favorito, tra il 13 gennaio e il luglio 1991, la latitanza di **** **** (capo B), e lo aveva condannato alla pena di anni due e mesi sei di reclusione;
- **** **** colpevole dei reati di omicidio premeditato in danno di **** e **** **** **** (capo K), di tentato omicidio premeditato in danno di **** **** (capo 0), di omicidio premeditato in danno di **** ****, commesso il 5 ottobre 1991 (capo S), di omicidio premeditato in danno di **** ****, commesso il 7 settembre 1991 (capo W), di tentato omicidio premeditato in danno di **** ****, commesso il 15 gennaio 1992 (capo U), di omicidio premeditato in danno di **** **** ****, commesso il 24 ottobre 1995 (capo AA), di omicidio premeditato in danno di **** ****, commesso il 6 luglio 1991 (capo CC), di detenzione e porto illegali delle armi utilizzate per l'esecuzione dei fatti di sangue (capi L, P, T, X, V, BB, DD), illeciti tutti aggravati ai sensi degli artt. 112, comma primo, n. 1, cod. pen. e 7 d.l. n. 152 del 1991, e lo aveva condannato alla pena dell'ergastolo con isolamento diurno per anni due e mesi sei;
- **** **** **** colpevole dei reati di partecipazione all'associazione mafiosa (capo A), di tentato omicidio premeditato in danno di **** **** (capo I), di detenzione e porto illegali delle armi utilizzate per l'esecuzione di tale illecito (capo J), reati-fine aggravati ai sensi degli artt. 112, comma primo, n. 1, cod. pen. e 7 d.l. n. 152 del 1991, e lo aveva condannato alla pena di anni sedici di reclusione e di euro mille di multa;
- **** **** colpevole dei reati di partecipazione all'associazione (capo A), di tentato omicidio premeditato in danno di **** **** (capo I), di omicidio premeditato in danno di **** **** (capo M), di tentato omicidio premeditato in danno di **** **** (capo U), di detenzione e porto illegali delle armi utilizzate per l'esecuzione di tali fatti di sangue (capi J, N, V), reati¬fine aggravati ai sensi degli artt. 112, comma primo, n. 1, cod. pen. e 7 d.l. n. 152 del 1991, nonché di omicidio premeditato in danno di **** **** e di soppressione del cadavere del medesimo, illeciti questi ultimi due commessi in epoca prossima al 17 dicembre 1990 (capi EE, FF), e lo aveva condannato alla pena dell'ergastolo con isolamento diurno per un anno.
2. Il Giudice distrettuale perveniva alla conferma della pronuncia di colpevolezza degli imputati in ordine ai reati come loro rispettivamente addebitati, facendo leva sul materiale probatorio integrato essenzialmente dalle propalazioni di numerosi collaboratori di giustizia - **** ****, **** ****, **** ****, **** **** ed altri, tutti comunque esponenti di primo piano dell'articolazione di "cosa nostra" operante in **** - i quali avevano avuto, in alcuni casi, cognizione diretta dei fatti oggetto del presente procedimento, per avervi materialmente partecipato, e, in altri casi, avevano riferito quanto appreso da altri soggetti.
La Corte di merito, nell'analizzare, seguendo l'ordine cronologico, i vari capi di imputazione e la posizione di ciascuno degli imputati innanzi citati, osservava quanto segue.
2.1. Omicidio di **** **** e soppressione di cadavere (capi EE, FF).
Il 19 dicembre 1990, era stata denunciata la scomparsa, sin dalla sera del precedente giorno 17, di **** ****, soprannominato "Nidale" e vicino al gruppo criminale della "stidda", capeggiato dai ****.
Le indagini espletate nell'immediatezza avevano classificato la vicenda come un caso di "lupara bianca".
Soltanto a distanza di molti anni, grazie al contributo offerto da alcuni collaboratori di giustizia, si era accertato che l'**** era stato ucciso, in quanto sospettato di avere partecipato, in ****, all'omicidio di tale **** ****, contiguo alla locale "famiglia" di "cosa nostra".
La vittima era stata tratta in inganno da **** ****, il quale, con la scusa di coinvolgerla in una comune impresa criminosa, l'aveva convinta a prendere posto nella di lui autovettura; i due si erano portati in contrada "Gibillini", nei pressi di un giacimento abbandonato di salgemma, ove ad attenderli v'erano **** **** e **** ****; il primo, munito di un fucile calibro 12, aveva immediatamente fatto fuoco all'indirizzo dell'****; il secondo, munito di un revolver calibro 38, aveva esploso il colpo di grazia; il cadavere era stato gettato in un profondo crepaccio del terreno limitrofo al giacimento.
Tale ricostruzione della vicenda era supportata dalle attendibili e convergenti dichiarazioni de relato dei collaboranti **** ****, il quale aveva riferito quanto appreso dal fratello **** (organico al sodalizio locale di "cosa nostra") e, in particolare, dal **** in ordine ad ogni dettaglio del fatto di sangue, nonché dallo stesso **** in relazione al luogo dov'era avvenuta la soppressione del cadavere; **** ****, il quale aveva riferito le confidenze, anch'esse molto precise e dettagliate, fattegli dal fratello **** e dal **** ed aveva evidenziato il comportamento sintomatico tenuto, in una certa occasione, dallo ****, mostratosi infastidito dalla richiesta di rivelare il luogo dov'era stato gettato il cadavere; **** ****, il quale pure aveva riferito le confidenze a lui fatte dal fratello **** e dal **** in ordine al loro coinvolgimento nell'esecuzione del delitto, senza alcun riferimento, però, allo ****.
Tali propalazioni erano coerenti con i dati oggettivi acquisiti nel corso delle indagini (il revolver calibro 38 utilizzato per l'omicidio in esame era stato rinvenuto alla cintola di **** ****, nel momento in cui anche costui era stato successivamente ucciso) e la rivelata causale del delitto trovava logico riscontro nella immediata reazione degli "stiddari" che, informati della matrice dell'omicidio, avevano colpito molto in alto, uccidendo, il 26 gennaio 1991, **** **** ****, capo della famiglia racamultese di "cosa nostra".
Si sottolineava, inoltre, che le confidenze extraprocessuali fatte dalle fonti primarie ai collaboranti erano più che credibili. **** ****, **** **** e **** **** erano fortemente compromessi nella guerra di mafia tra "cosa nostra" e "stidda" e nelle relative dinamiche operative, tanto che i primi due erano stati uccisi nella prima strage di **** del 23 luglio 1991 e la stessa sorte era stata riservata al terzo, nell'ambito della seconda strage, verificatasi il 5 novembre 1992.
2.2. Omicidio di **** **** e connesse violazioni della normativa sulle armi (capi CO, DD).
Il 6 luglio 1991 **** ****, nel mentre percorreva a bordo della propria autovettura un tratto di strada dell'abitato di ****, era rimasto vittima di un attentato omicidiario, in quanto raggiunto da numerosi colpi d'arma da fuoco (fucile a pompa calibro 12 e pistola calibro 9x21).
Soltanto a distanza di molti anni, grazie al contributo offerto da alcuni collaboratori di giustizia, sì era accertato che l'omicidio era stato deliberato da "cosa nostra", a causa della vicinanza dell'**** alla "stidda" di Canicattì. La richiesta proveniente da tale ****, capo della "famiglia" di Canicattì, era stata raccolta da **** ****, che aveva dato mandato ai suoi luogotenenti, **** **** e **** ****, i quali avevano materialmente eseguito il delitto, con l'appoggio logistico di **** **** e **** ****. Tale ricostruzione della vicenda era provata dalle attendibili e convergenti dichiarazioni rese dai collaboranti di giustizia.
**** **** aveva riferito de relato le confidenze a lui fatte, in ordine alle persone coinvolte nel fatto di sangue e alle modalità esecutive dello stesso, dal fratello ****, dal ****, da **** ****, da **** **** e da **** ****; aveva inoltre precisato, per cognizione diretta, di avere notato, il giorno del delitto, **** **** riportare le armi (utilizzate dai killers) nell'abituale nascondiglio, l'impianto di calcestruzzi sito in contrada "Grottarossa", dove lavorava **** ****.
**** **** aveva riferito de relato le confidenze ricevute dal fratello **** circa la causale, il mandante, gli esecutori materiali, le modalità dell'omicidio; aveva anch'egli precisato che le armi utilizzate erano state nascoste - dapprima - nel citato impianto di calcestruzzi e - poi - erano state spostate in casa della nonna dei fratelli ****.
****, nel riferire anch'egli le precise e dettagliate confidenze fattegli dal fratello ****, da ****, dal **** e dal **** aveva aggiunto il particolare che il fucile calibro 12 utilizzato dal **** si era inceppato.
**** **** e **** si erano limitati a riferire in ordine alla causale dell'omicidio.
Le dichiarazioni accusatorie rese dai primi tre collaboranti, oltre a riscontrarsi reciprocamente, erano coerenti con i dati oggettivi acquisiti in sede di indagini e indicativi delle armi effettivamente utilizzate dai killers: sulla scena del delitto, infatti, erano stati rinvenuti n. 8 bossoli di pistola calibro 9x21, un bossolo esploso di cartuccia calibro 12, una cartuccia inesplosa calibro 12 (sintomo inequivoco del riferito inceppamento dell'arma).
2.3. Tentato omicidio di **** **** e connesse violazioni della normativa sulle armi (capi I, J).
L'omicidio del ****, esponente della "stidda" di ****, era stato deciso nel corso della riunione svoltasi, presso l'azienda agricola "****" ove lavorava **** ****, il 24 luglio 1991, all'indomani del triplice omicidio di **** ****, **** **** e **** **** (c.d. prima strage di ****). Alla riunione erano intervenuti gli esponenti superstiti della cosca, tra i quali **** ****, **** ****, **** ****, **** **** e **** **** ****. La risoluzione delittuosa era stata deliberata alla unanimità.
Il **** aveva messo a disposizione dei sodali, per l'esecuzione del delitto, un fucile calibro 12 a canne sovrapposte e una pistola calibro 357; aveva incaricato **** per la riduzione della lunghezza delle canne del fucile ed aveva successivamente fatto recapitare le armi, tramite il nipote ****, ai sicari **** e ****, offertisi volontari per la perpetrazione del delitto.
In data 11 agosto 1991 si era dato corso a quanto deliberato, ma l'agguato non era andato a buon fine (la vittima era stata attinta non mortalmente da due fucilate esplose dal **** a bordo di una vespa guidata dal ****) e gli attentatori, datisi alla fuga, avevano raggiunto il punto di ritrovo convenuto, dove si erano incontrati con **** ****, **** **** ****, **** **** e **** ****. Dopo il delitto, il **** e lo **** avevano rilevato, utilizzando due diverse auto, rispettivamente il **** ed il ****; il **** aveva preso in consegna il fucile; il motociclo utilizzato dai killers era stato abbandonato in una scarpata, ove - a distanza di anni - gli investigatori avevano recuperato alcuni pezzi del veicolo.
Tale ricostruzione della vicenda era avallata dalle attendibili e convergenti dichiarazioni dei collaboranti **** ****, **** **** **** e **** **** ****. Tutti e tre avevano riferito per cognizione diretta, avendovi partecipato, in ordine alla fase deliberativa, conclusasi con decisione presa all'unanimità; il primo, in quanto direttamente coinvolto, aveva fornito dettagliate informazioni anche sulla fase esecutiva del delitto, in relazione alla quale gli altri due avevano reso dichiarazioni de relato su quanto appreso da **** ****, **** **** e **** ****.
Le propalazioni dei tre citati chiamanti in correità erano, peraltro, convergenti con il contributo dichiarativo di altri collaboratori di giustizia, quali **** ****, **** **** e **** ****, che avevano riferito in ordine agli stretti legami del **** con gli "stiddari" di **** **** e, in particolare, con i ****, ai quali egli riforniva armi, nonché in ordine all'orientamento della cosca avversa di "eliminare" il predetto.
Se è vero che la chiamata di correo operata da **** **** non aveva ricevuto pieno riscontro limitatamente alle condotte tenute da ****, **** e **** dopo il delitto, ciò non induceva a nutrire dubbi sul ruolo attivo di costoro nella fornitura e nella predisposizione delle armi utilizzate, aspetto - questo - sul quale nessuna dissonanza era riscontrabile nell'apporto dichiarativo dei tre principali collaboranti.
Le dichiarazioni di **** **** erano confortate anche dalla prova generica: gli investigatori avevano recuperato, esattamente nel punto indicato dal collaborante, quanto restava ancora del motociclo utilizzato dai due killers.
Era ravvisabile la contestata aggravante di cui all'art. 7 d.l. n. 152 del 1991, considerato che la vicenda delittuosa in esame, inserita nella guerra di mafia in atto a **** nel 1991, aveva avuto come chiara finalità quella di agevolare l'attività dell'associazione mafiosa "cosa nostra", la cui stessa vita era stata messa in pericolo dall'attacco concentrico della "stidda".
Veniva negato, infine, a **** **** il sollecitato riconoscimento del vizio parziale di mente, in quanto non confortato dalla diagnosi formulata dal consulente tecnico di parte e, anzi, contraddetto dalla mancanza di qualunque documentazione attestante la somministrazione di opportune terapie e dalle condotte delittuose dell'imputato protratte nel corso degli anni ed indicative della assenza in lui di patologie psichiatriche di rilievo.
2.4. Omicidio di **** **** e connesse violazioni della normativa sulle armi (capi W, X).
Il 7 settembre 1991 II ****, nel mentre percorreva, alla guida della sua autovettura, la strada che collegava la sua residenza di campagna con il centro abitato ****, veniva attinto da diversi colpi di arma da fuoco, esplosi da un revolver calibro 38 e da un fucile calibro 12, che ne cagionavano la morte.
L'omicidio era stato ordinato, sempre nell'ottica della guerra di mafia (la vittima era schierata con gli "stiddari"), da **** **** ed eseguito dal "gruppo di fuoco" a costui facente capo, **** ****, **** **** **** e **** ****.
La prova di tale fatto di sangue era offerta dalle attendibili e convergenti dichiarazioni dei collaboranti **** ****, **** ****, **** **** e **** ****.
Il primo aveva riferito de relato quanto appreso da **** **** in ordine alla posizione del ****, quale mandante dell'omicidio. Il secondo aveva riferito, per cognizione diretta, sulla fase preparatoria del delitto, avendo egli stesso messo a disposizione del gruppo una moto rubata, consegnandola a tale **** ****, ma non più utilizzata a causa della intervenuta uccisione di quest'ultimo; aveva, inoltre, fornito notizie de relato, apprese dal fratello ****, circa gli esecutori materiali del delitto e l'appoggio logistico fornito agli stessi da **** ****. Il terzo aveva riferito fatti da lui vissuti personalmente e relativi alla fase organizzativa del delitto, nel corso della quale **** **** (giudicato separatamente) aveva svolto compiti di collegamento tra il **** e i racamultesi, mentre il fratello **** si era dichiarato disponibile a dare supporto logistico ai killers; aveva, inoltre, fornito informazioni indirette, per averle apprese dal fratello ****, sulla identità degli esecutori materiali. Il quarto, "uomo d'onore" di Porto Empedocle e legatissimo al **** e ai soggetti componenti il "gruppo di fuoco", aveva riferito le confidenze fattegli dall'amico e sodale **** **** (uno dei killers) circa il mandante e gli esecutori materiali del delitto.
2.5. Omicidio di **** **** e connesse violazioni della normativa sulle armi (capi S, T).
Il 5 ottobre 1991 il ****, nel mentre a bordo della propria autovettura stava per uscire dal garage, veniva attinto da colpi di arma da fuoco, che ne cagionavano la morte.
Anche tale delitto s'inseriva nella logica della guerra di mafia in corso, essendo la vittima vicina al gruppo degli "stiddari" e legata da rapporto di stretta amicizia a **** ****, a sua volta vittima del tentato omicidio.
Le indagini, che inizialmente erano risultate infruttuose, avevano avuto una svolta decisiva, a seguito del convergente contributo dichiarativo offerto dai collaboratori di giustizia, la cui credibilità veniva positivamente apprezzata.
**** ****, per cognizione diretta, aveva riferito sul ruolo attivo da lui svolto nella deliberazione e nell'organizzazione del delitto, dopo avere sollecitato ed ottenuto l'autorizzazione del ****, che aveva messo a disposizione per l'esecuzione il noto "gruppo di fuoco", costituito da **** ****, **** **** **** e **** ****; aveva precisato, inoltre, di avere assistito personalmente alla scena del delitto, osservandola da casa dei suoi genitori, sita di fronte al garage della vittima.
**** **** aveva riferito di avere partecipato personalmente a precedenti appostamenti finalizzati a uccidere il ****, non portati però a termine per difficoltà contingenti verificatesi; aveva fornito dettagliate informazioni de relato (fonti dirette **** **** e ****) sulle modalità esecutive del delitto e sugli autori materiali dello stesso.
Su quest'ultimo aspetto aveva reso analoghe dichiarazioni **** ****, riferendo quanto appreso da uno dei killers, il suo amico e sodale **** ****.
**** **** aveva riferito quanto confidatogli dal fratello ****.
2.6. Omicidi di **** **** ****, **** **** **** e connesse violazioni della normativa sulle armi (capi K, L).
Il duplice omicidio, eseguito la sera del 24 dicembre 1991, si collocava all'esito del tentativo, infruttuosamente esperito nei giorni precedenti, per la composizione del conflitto tra la cosca di "cosa nostra" e il gruppo della "stidda" di ****. All'incontro, tenuto presso la casa di campagna di **** ****, avevano partecipato **** ****, per "cosa nostra", e lo stesso **** **** **** con altri esponenti, per la "stidda".
In mancanza dell'intesa, la cosca racalamutese di "cosa nostra" aveva deciso, col benestare del capo mandamento **** ****, il quale aveva assicurato l'appoggio del gruppo di fuoco a lui facente capo, l'omicidio di **** ****. I sicari **** ****, **** **** e **** ****si erano concentrati presso la base operativa, il villino di **** **** in Grotte. **** **** e **** **** avevano procurato le armi e il veicolo da usare per l'esecuzione del delitto. In particolare, **** aveva accompagnato a bordo del suo furgone il **** a prendere l'autovettura e le armi. **** **** e **** ****, con funzioni di supporto, avevano scortato i sicari a ****, dove, però, non era stata reperita la vittima designata. ****, allora, avendo scorto per la strada i due **** **** (costoro, al pari di ****, componevano la lista dei soggetti che dovevano comunque essere eliminati), aveva deciso di indirizzare contro i malcapitati la spedizione omicida e - senza previamente consultare **** ****- li aveva additati ai sicari, i quali avevano dato corso all'esecuzione: a far fuoco erano stati il **** e il ****. Consumato il delitto, gli esecutori erano tornati a ****, avevano restituito le armi al **** e l'autovettura utilizzata all'****, che aveva provveduto, poi, a darla alle fiamme in un luogo isolato.
Tale ricostruzione dei fatti era supportata dalle attendibili e convergenti dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia.
**** **** aveva riferito, per cognizione diretta, in ordine alla fase organizzativa del delitto, essendosi personalmente attivato per procurare ai killers l'autovettura e le armi; aveva fornito, inoltre, dettagliate informazioni, apprese de relato da **** **** e **** ****, sulla fase esecutiva e sulle persone in essa coinvolte; aveva precisato, infine, di avere ripreso in consegna, insieme all'****, l'autovettura e le armi utilizzate dai sicari.
**** **** aveva reso ampia confessione sulla deliberazione omicidiaria da lui promossa e adottata dal gruppo di "cosa nostra", dopo il fallito tentativo di comporre il violento conflitto con il gruppo avverso degli "stiddari"; aveva riferito, non avendo direttamente partecipato alla materiale esecuzione del duplice omicidio, i relata del **** e del **** al riguardo, anche con riferimento ai ruoli svolti dal **** e dall'****.
**** **** non si era risparmiato nel riferire, in ogni dettaglio, le confidenze fattegli da uno dei principali protagonisti della vicenda, **** ****.
Anche **** ****, a sua volta, aveva riferito su causale, modalità, mandanti ed esecutori del fatto criminoso, per così come indirettamente venutone a conoscenza dal fratello ****, dal **** e dal ****.
**** ****, infine, nel confermare l'incontro tra le opposte fazioni criminali e l'esito dello stesso, aveva rafforzato l'attendibilità del racconto degli altri collaboranti.
2.7. Tentato omicidio di **** **** e connesse violazioni della normativa sulle armi (capi U, V).
Il delitto, commesso la sera del 15 gennaio 1992, s'inseriva sempre nella logica della guerra di mafia ed era stato determinato dalla convinzione del gruppo di "cosa nostra" che la vittima fosse coinvolta nella preparazione di un attentato ai danni di **** ****.
La deliberazione di dare corso all'azione criminosa era stata adottata da ****, **** **** e **** ****, che avevano sollecitato ed ottenuto la preventiva autorizzazione del reggente di **** **** (Fragapane). All'esecuzione del delitto, sia pure con compiti diversi, avevano partecipato - tra gli altri - **** **** e lo ****.
Anche la prova della ricostruzione di tale vicenda era offerta dall'apporto dichiarativo di vari collaboranti, la cui attendibilità era positivamente valutata.
**** ****, per diretta e personale conoscenza, aveva indicato nel **** la persona che aveva autorizzato, su richiesta dello stesso dichiarante, del **** e dello ****, l'attentato e messo a disposizione i killers per l'esecuzione, indicazione - questa - che aveva trovato riscontro nelle dichiarazioni de relato di **** **** (fonti primarie **** e lo stesso **** ****) e di **** **** (fonti primarie il fratello ****, **** e ****); aveva indicato **** **** come uno degli esecutori del delitto, circostanza riscontrata dall'analoga indicazione de auditu fatta dai collaboranti **** **** e **** **** (fonte primaria lo stesso ****); aveva indicato anche il **** come altro esecutore del delitto, in ciò riscontrato dal fratello **** e dal ****; aveva additato lo **** come colui che aveva dato supporto logistico ai sicari e pure questa indicazione era stata riscontrata dalle dichiarazioni indirette del ****.
Venivano motivatamente ravvisate le circostanze aggravanti della premeditazione e della finalità di agevolare l'attività del sodalizio mafioso di "cosa nostra".
2.8. Omicidio di **** **** e connesse violazioni della normativa sulle armi (capi M, N).
Il delitto, commesso il 26 agosto 1992, s'inquadrava come vendetta trasversale di "cosa nostra" racalmutese nei confronti di **** ****, che, essendo all'epoca detenuto, si serviva del padre **** per recapitare messaggi (c.d. "pizzini") agli "stiddari" della zona.
L'omicidio era stato deliberato dai maggiorenti della "famiglia" di ****, tra i quali **** ****, **** ****, la nuova leva **** ****, e alla decisione avevano aderito tutti i componenti della "famiglia"; **** **** e **** **** si erano attivati, per sollecitare ed ottenere la preventiva autorizzazione del reggente di **** ****; il delitto era stato materialmente eseguito dal **** e da **** ****; **** **** aveva svolto il ruolo di consegnare ai killers la moto e le armi utilizzate, riprendendole in custodia dopo la consumazione del crimine.
La prova della vicenda, così come ricostruita per la parte che qui interessa, era offerta dalle attendibili chiamate dirette in correità fatte da **** **** e **** ****, i quali avevano concordemente annoverato il **** e lo **** tra coloro che avevano partecipato alla fase deliberativa dell'omicidio, non rilevando marginali ed insignificanti discrasie tra le dichiarazioni rese dai due collaboranti.
**** **** aveva riferito de relato le confidenze ricevute dal suo amico ****, esecutore materiale del delitto, risultate perfettamente coerenti col racconto del ****.
Il coinvolgimento del **** nella vicenda non era contraddetto dalla prospettata emarginazione, nell'anno 1992, "dei vecchi uomini d'onore" e dallo spazio conquistato da personaggi emergenti, quale **** ****, considerato che quest'ultimo, in quanto soggetto "avvicinato" da poco più dì un anno, non poteva autonomamente adottare, escludendo gli esponenti anziani della cosca, decisioni che attenevano agli interessi dell'intero sodalizio.
Anche l'**** era stato attinto dalla chiamata in correità diretta del **** e da quella de auditu (fonte primaria Licata) di **** ****, entrambe concordi sulla circostanza della consegna della moto e delle armi ai killers.
Anche per tale omicidio erano ravvisate l'aggravante della premeditazione, quella di cui all'art. 7 d.l. n. 152 del 1991 e veniva negata al **** l'invocata diminuente del vizio parziale di mente.
2.9. Omicidio di **** **** e connesse violazioni della normativa sulle armi (capi Y, Z).
Tale delitto, commesso il 28 settembre 1992 ed estraneo alla logica della guerra di mafia, non risultando la vittima inserita in contesti di criminalità organizzata, era stato eseguito materialmente da **** **** e **** ****, col supporto logistico di **** **** e su mandato di **** ****, reggente del mandamento di **** ****, che aveva recepito, a sua volta, la corrispondente sollecitazione dei fratelli **** ed **** ****, i quali, in quanto creditori di una rilevante somma nei confronti del ****, lamentavano che costui non aveva onorato il suo debito.
Il giudizio di responsabilità dei fratelli **** era fondato sull'attendibile e convergente apporto dichiarativo, in parte diretto e in parte de relato, dei collaboratori di giustizia **** ****, **** ****, **** ****, **** ****, **** ****, **** **** e **** ****, le cui propalazioni, oltre che riscontrarsi reciprocamente, erano altresì coerenti col movente che aveva indotto gli **** a sollecitare l'intervento del ****.
2.10. Tentato omicidio di **** **** e connesse violazioni della normativa sulle armi (capi 0, P).
Il delitto, commesso il 4 ottobre 1992 ed inserito nella strategia di contrasto agli "stiddari", era stato deliberato dalla cosca di ****, che aveva chiesto l'appoggio del capo mandamento di **** ****, **** ****, il quale aveva inviato per l'esecuzione **** ****.
A Grotte, presso la cava di **** ****, **** **** aveva consegnato agli esecutori **** **** e **** il veicolo da impiegare per l'azione delittuosa; i sicari, armati di un fucile e di una pistola calibro 38, avevano raggiunto ****, dove, avuta notizia che la vittima stava per rincasare, si erano appostati nelle adiacenze del garage della abitazione del ****, il quale, però, avvedutosi della minaccia, si era dato a precipitosa fuga ed era riuscito a trovare riparo in casa, chiudendo prontamente dietro di sé il battente del portone, che aveva fatto da scudo ai colpi di pistola esplosi dal ****. Fallito l'attentato, gli esecutori avevano fatto quindi ritorno nella base di Grotte, ove li attendeva ****, al quale avevano restituito le armi e il veicolo.
La prova a carico dell'**** e del **** era offerta dalle attendibili propalazioni dei collaboranti.
Le chiamate in correità di **** **** e di **** **** a carico di **** erano dirette, articolate e dettagliate. Entrambi i collaboranti avevano confessato il concorso nel delitto senza che neppure fossero stati mai indagati al riguardo.
**** ****, principale organizzatore dell'agguato, aveva rappresentato, per personale conoscenza, la compartecipazione di **** nella esecuzione del delitto, consistita nella consegna delle armi e della autovettura agli esecutori **** e ****.
Le marginali divergenze tra le dichiarazioni del **** e quelle di **** **** in ordine alle modalità e al luogo di consegna delle armi e dell'autovettura utilizzate dai killers non inficiavano il nucleo essenziale della convergente accusa. I predetti due, infatti, avevano concordemente riferito che le armi e il veicolo erano custoditi da **** nel garage di Grotte e non appariva determinante se la consegna fosse avvenuta presso lo stesso garage ovvero nella vicina cava ove erano soliti concentrarsi i killers prima delle loro spedizioni.
Anche sul ****, indicato come uno degli autori materiali del tentato omicidio, gravavano le convergenti chiamate in correità provenienti dal **** e da **** ****, supportate anche dalle concordi dichiarazioni de relato di **** ****, che aveva recepito le confidenze fattegli da **** **** (deceduto), altro concorrente nella vicenda criminosa.
2.11. Omicidio di **** **** e connesse violazioni della normativa sulle armi (capi AA, BB).
La sera del 24 ottobre 1995 **** ****, mentre era intento alle operazioni di chiusura dell'esercizio commerciale da lui gestito in Sciacca, veniva raggiunto da numerosi colpi di arma da fuoco che lo traevano a morte.
Il delitto era stato deliberato dalla "famiglia" di **** sin dall'anno 1993, in quanto la vittima designata era ritenuta responsabile della c.d. seconda strage di **** del 5 novembre 1992, in cui aveva perso la vita il sodale **** ****. Esecutori materiali dell'omicidio erano stati **** ****, **** **** e altro soggetto di Porto Empedocle.
Il giudizio di responsabilità nei confronti del **** era supportato dalle convergenti chiamate in correità provenienti da **** **** e **** ****, le quali si riscontravano reciprocamente con valenza individualizzante.
Il primo, che aveva curato personalmente l'organizzazione dell'agguato, aveva riferito di avere concordato con il **** le modalità dell'omicidio che costui avrebbe dovuto compiere e di essere stato informato dal medesimo e dal ****, a delitto eseguito, sui dettagli dell'operazione criminosa portata a termine.
Il secondo, rendendo ampia confessione, aveva precisato di essere stato affiancato nell'esecuzione del delitto dal ****.
A tali chiamate in correità dirette si aggiungevano, altresì, le coerenti dichiarazioni dei collaboranti **** ****, che aveva riferito in ordine alla causale dell'omicidio, e **** ****, che aveva riferito de relato quanto confidatogli dal fratello **** circa il ruolo svolto nella vicenda criminosa dal ****.
2.12. Reato associativo (capo A).
La partecipazione all'associazione mafiosa "cosa nostra", operante in **** e ****, di **** ****, **** ****, **** **** **** e **** ****, attinti dalle convergenti chiamate in correità dei sodali collaboranti **** ****, **** **** e **** ****, si era estrinsecata nei termini che seguono.
**** ****, dipendente della impresa "Siciliana Inerti di **** ****" ed addetto all'impianto di frantumazione di materiale lapideo, aveva aderito al gruppo criminale fin dagli anni novanta, come "avvicinato"; aveva svolto in seno alla cosca, sia pure in posizione subalterna, il ruolo di custode dell'arsenale e curato la manutenzione delle armi; successivamente, al termine della guerra con gli "stiddari", il suo ruolo era mutato: era stato incaricato della riscossione del pizzo, ed era divenuto, infine, il referente di "cosa nostra" per la zona di Grotte.
Il contributo prestato per lungo lasso di tempo dal prevenuto alla compagine associativa si era rivelato, pertanto, tutt'altro che insignificante.
**** ****, uomo d'onore della cosca, si era occupato prevalentemente della gestione delle estorsioni; aveva preso parte alle riunioni nel corso delle quali era stata deliberata la soppressione di esponenti del gruppo antagonista della "stidda" (attentato a **** **** e omicidio di **** ****); aveva offerto appoggio logistico agli esecutori materiali dei fatti di sangue; durante la latitanza di **** ****, che nel frattempo aveva assunto la reggenza della cosca, aveva mantenuto i contatti con costui per la gestione delle estorsioni.
L'organico inserimento del **** nel sodalizio criminoso non era stato - peraltro - oggetto di specifica contestazione, se non sotto il profilo che la sua posizione di prestigio e di potere, a seguito dell'affermazione delle nuove leve criminali, si sarebbe progressivamente svuotata; assunto - questo - smentito dal rilievo che l'imputato, pur dopo l'ascesa di **** ****, non era rimasto estraneo alle imprese criminose del sodalizio.
**** **** ****, altro uomo d'onore della cosca, aveva partecipato a delibere omicidiarie in occasione del conflitto con gli "stiddari"; aveva assicurato appoggio logistico ai sicari; quando **** **** era divenuto il capo della cosca, era stato incaricato della raccolta delle tangenti corrisposte dalle imprese di **** e di **** e, attraverso lo zio **** ****, aveva mantenuto i contatti con **** **** durante la latitanza di costui.
Tutto ciò comprovava il suo organico inserimento nell'associazione, protrattosi anche dopo l'ascesa al potere delle nuove leve.
**** **** aveva aderito, come "avvicinato", alla cosca di Racalmuto-Grotte; aveva partecipato a riunioni in cui si era decisa l'eliminazione di nemici "stiddari"; aveva offerto, in più occasioni, supporto logistico ai killers inviati dal **** in Racalmuto per commettere omicidi; si era occupato della manutenzione e della alterazione delle armi di cui la cosca disponeva per le sue imprese criminose ed si era attivato anche nella gestione delle estorsioni ai danni del mondo imprenditoriale.
Il ruolo di "avvicinato" assunto dallo ****, che aveva comunque manifestato una incondizionata disponibilità ad assolvere i compiti affidatigli dai responsabili dell'associazione mafiosa, non poteva che essere equiparato all'adesione di fatto del predetto al programma criminoso indeterminato del sodalizio. Ai fini della partecipazione assoelativa, infatti, non rilevava la gerarchia interna al gruppo criminale, né la differenza tra soggetto formalmente affiliato e soggetto "vicino" al gruppo, bensì il ruolo dinamico e funzionale svolto dall'interessato, che, rimanendo a disposizione dell'ente e attivandosi nell'interesse dello stesso, aveva condiviso il fenomeno associativo.
Le plurime condotte illecite poste in essere dallo **** erano chiaramente indicative del contributo non occasionale offerto dal predetto al sodalizio mafioso, che aveva visto accrescere le sue capacità operative nel settore del crimine.
2.13. Favoreggiamento personale (capo B).
Il favoreggiamento personale addebitato a **** ****, per avere aiutato, in concorso con **** ****, **** **** - nei cui confronti il G.i.p. del Tribunale di Palermo aveva emesso in data 9 gennaio 1999 ordinanza di custodia cautelare in carcere per associazione mafiosa e omicidi - a sottrarsi alle ricerche dell'Autorità e a raggiungere il Sud Africa era dimostrato dalla chiamata in reità operata, per cognizione diretta, dal favorito, nonché, a riscontro della medesima, dalle convergenti dichiarazioni de relato di **** **** e di **** ****, destinatari delle confidenze del ****.
La chiamata in reità diretta operata dal ****, pur intervenuta dopo centottanta giorni dall'inizio della collaborazione, era comunque utilizzabile, in quanto era stata ribadita, rispettando le regole del contraddittorio, nel corso del dibattimento.
Ricorreva, inoltre, l'aggravante a effetto speciale della agevolazione dell'associazione mafiosa.
2.14. Quanto al trattamento sanzionatorio, la Corte di merito riteneva lo stesso congruo e rilevava che la gravità dei fatti e la negativa personalità degli imputati ostavano al riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche invocate dagli imputati.
3. Hanno proposto ricorso per cassazione, a mezzo dei rispettivi difensori, gli imputati ****, **** ****, **** ****, ****, ****, **** e, con atti sottoscritti personalmente, gli imputati **** e ****.
Ha proposto ricorso per cassazione, a mezzo del proprio difensore e procuratore speciale, anche la parte civile ****.
3.1. Ricorso ****.
Il ricorrente denuncia promiscuamente, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lettere b) ed e), cod. proc. pen., inosservanza o erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche di cui si deve tenere conto nella applicazione della legge penale, in relazione agli artt. 40, 56, 575 e 577, comma primo, numero 3, cod. pen., nonché vizio della motivazione.
Erroneamente la Corte territoriale, omettendo di prendere in considerazione quanto esposto nell'atto di appello e nella memoria in data 28 aprile 2010, aveva desunto la responsabilità dell'imputato dalla condizione di "avvicinato", dal ruolo di custode del materiale balistico e delle autovetture, nonché dai meri compiti esecutivi espletati; contraddittoriamente, poi, aveva fatto riferimento ai compiti affidati di volta in volta al giudicabile, per ricondurre genericamente la responsabilità per i singoli fatti reato alla posizione associativa, senza verificare la sussistenza di concreti ed idonei dati probatori. In particolare, con riferimento al duplice omicidio **** ****, reato perpetrato in danno di vittime diverse da quella designata, il Giudice distrettuale non aveva offerto la dimostrazione della compartecipazione del ricorrente, che non era stato preventivamente informato, al diverso omicidio consumato; la chiamata in correità proveniente, in ordine a tale imputazione, da **** **** era assolutamente sprovvista di riscontri, non potendosi ritenere tali i contributi dichiarativi, del tutto insufficienti, del collaborante **** ****. Quanto all'omicidio di **** ****, non si era data adeguata risposta alla eccepita inattendibilità delle dichiarazioni rese dal collaborante ****. Anche in relazione al tentato omicidio di **** ****, i rilievi difensivi proposti in sede di appello erano rimasti del tutto privi di replica.
3,2. Ricorso **** ****.
Il ricorrente, dopo avere premesso che la prova del mandato omicidiario era fondata sulla chiamata in correità de relato fatta dal collaborante **** ****, il cui narrato avrebbe dovuto essere sottoposto ad un vaglio di credibilità particolarmente rigoroso, deduce, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lettere c) ed e), cod. proc. pen., l'erronea applicazione degli artt. 192, 195 cod. proc. pen. in relazione all'art. 575 cod. pen., nonché mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione risultante dal testo del provvedimento impugnato.
Sottolinea, in particolare, che era stata omessa una rigorosa analisi sulla attendibilità intrinseca del predetto collaborante, le cui dichiarazioni - tra l'altro - non erano state riscontrate da altri elementi di prova oggettivi e individualizzanti; non era stato dato rilievo alla già denunciata "progressione accusatoria" del ****, indice di inattendibilità (diversa versione dei fatti in sede di indagini rispetto a quella fornita in dibattimento: prima, aveva parlato di mero interesse dell'**** al recupero del credito; poi, aveva effettuato una vera a propria chiamata in correità, facendo riferimento ad un esplicito mandato omicidiario); ancora, era stata sottovalutata la circostanza che il **** aveva ricostruito la vicenda in modo non coincidente col racconto dell'altro collaborante **** ****, pur avendo i predetti fatto riferimento alla stessa fonte, **** ****, che a sua volta aveva fatto riferimento a **** ****. Il narrato di **** **** non poteva ritenersi riscontrato dalle dichiarazioni del fratello ****, per l'evidente circolarità della notizia, che il secondo aveva appreso dal primo (non credibile, inoltre, **** **** sulla circostanza che avrebbe appreso il fatto dal fratello **** il giorno successivo all'omicidio, avendo **** detto di avere saputo del coinvolgimento dell'**** soltanto quindici giorni dopo). Non poteva ritenersi riscontro individualizzante alla chiamata di correo la pendenza del procedimento penale per usura a carico degli ****, a seguito di denunzia sporta dal ****; tale dato, indicativo del movente del delitto, era rimasto estraneo alle propalazioni dei collaboranti ed era stato introdotto dalla Corte di merito, che sul punto, peraltro, si era discostata dalla interpretazione del giudice di primo grado (punizione di un debitore insolvente). Le emergenze processuali legittimavano più credibilmente un interesse personale del **** alla eliminazione del **** e non già un interesse dell'****, che, pur dopo essere stato denunciato per usura, aveva continuato ad intrattenere rapporti commerciali con il medesimo ****
Con i motivi aggiunti in data 17 gennaio 2012, i difensori del ricorrente ripercorrono le doglianze articolate in ricorso, sottolineando, in particolare, che il giudice avrebbe dovuto valutare con particolate accortezza l'attendibilità delle dichiarazioni rese da soggetto che cumulava in sé contemporaneamente la veste di chiamante in correità e quella di collaboratore di giustizia, posto che quest'ultima posizione soggettiva faceva venire meno il requisito del disinteresse e della spontaneità, con l'effetto che i requisiti residuali della costanza e della precisione dovevano essere verificati con estremo rigore; richiamano, inoltre, l'orientamento giurisprudenziale, secondo cui la chiamata in reità de relato non può essere riscontrata da altra dichiarazione analoga, nonché Sez. U., n. 45276 del 30/10/2003, ****, secondo cui l'interesse di una persona alla verificazione di un determinato evento non può integrare la prova di responsabilità in relazione ai medesimo evento.
Con memoria in data 16 maggio 2012, i difensori reiterano le critiche sulla valorizzazione, da parte dei giudici di merito, delle dichiarazioni accusatorie de relato, tutte - peraltro - riconducibili ad un'unica fonte di riferimento, il coimputato **** ****.
3.3. Ricorso **** ****.
Il ricorrente denuncia, ai sensi del"art. 606, comma 1, lettere b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza e l'erronea applicazione di legge, in relazione agli artt. 192, 195 cod. proc. pen. e 575 cod. pen., nonché il vizio di motivazione sul formulato giudizio di responsabilità, caratterizzato «da una grave frattura, sotto il profilo logico-argomentativo, nel ragionamento probatorio posto a fondamento dell'affermazione della penale responsabilità [...], da un inaccettabile fenomeno di traslazione probatoria [dovuto alla] trattazione congiunta delle posizioni processuali dei fratelli **** [...], dalla consequenziale obliterazione del carattere individuale dell'accusa», dalla mancata risposta a precisi rilievi prospettati in sede di appello.
Deduce censure sostanzialmente analoghe a quelle relative alla posizione di *** **** ed illustrate al punto che precede, aggiungendo rilievi e doglianze afferenti specificamente alla propria posizione.
In particolare, segnala l'errore metodologico della Corte di merito nella individuazione della presunta causale dell'omicidio, la quale in tanto poteva essere presa in considerazione, in quanto gli indizi sul concorso nel delitto fossero stati gravi, precisi e concordanti. Sottolinea, inoltre, che era stata allegata valenza probatoria alle dichiarazioni de relato dei collaboranti, senza accertare, nel rispetto dell'art. 195 cod. proc. pen., la effettività dell'informazione fornita ai medesimi collaboranti dalle fonti primarie. Stigmatizza i contrasti tra le dichiarazioni rese dal collaborante **** e quelle rese dal collaborante **** **** (il primo aveva indicato la causale dell'omicidio nel mancato pagamento del debito che **** aveva contratto con **** ****; il secondo aveva accusato indistintamente i fratelli ****, aveva fatto riferimento all'uomo d'onore ****, quale altro debitore degli **** e istigatore dell'omicidio presso il ****; diverse le causali del delitto indicate e ricostruite a posteriori dai due collaboranti). Aggiunge che altro collaboratore di giustizia, **** ****, aveva fatto riferimento ad una diversa causale del delitto (punizione del ****, per essersi reso responsabile di varie truffe ai danni di terzi).
Con memoria del 24 gennaio 2012, la difesa del ricorrente richiama l'orientamento giurisprudenziale secondo cui la chiamata in reità o in correità de relato non può essere riscontrata da altra dichiarazione de relato, tanto più quando le stesse hanno in comune la fonte di riferimento.
Con ulteriore memoria del 12 novembre 2012, ribadisce le doglianze già articolate e sostiene che la utilizzazione, ai fini probatori, di sole chiamate de relato si pone in contrasto con gli artt. Ili, comma terzo, Cost. e 6, comma 3, lett. d), CEDU.
3.4. Ricorso ****.
Il ricorrente, con un primo motivo, denunzia, ai sensi dell'articolo 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, in ordine al formulato giudizio di responsabilità per l'omicidio di **** ****(capi M, N).
Censura il percorso argomentativo seguito dalla Corte territoriale in relazione a tale vicenda, sottolineando che, alla luce dell'apporto dichiarativo del collaborante **** ****, tutti gli esponenti anziani della cosca, alla data del fatto di sangue (26 agosto 1992), erano stati estromessi dal gruppo dirigente della "famiglia" di ****, sicché, essendosi egli, quale vecchio sodale, venuto a trovare in una posizione emarginata (nel gergo "posato") e priva di poteri decisionali, non poteva avere offerto alcun contributo causale all'esecuzione dell'omicidio.
Con il secondo motivo, deduce, ai sensi dell'articolo 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, in relazione all'articolo 110 cod. pen., con riferimento alle medesime imputazioni.
La sua partecipazione alla deliberazione dell'omicidio era stata fatta discendere dalle dichiarazioni dei collaboranti **** **** e **** ****, dichiarazioni che, però, non si riscontravano reciprocamente in maniera adeguata e lo indicavano come partecipe alle riunioni preliminari, in cui si era genericamente discusso della eventualità di uccidere il Sole, mentre la decisione finale di dare esecuzione al fatto di sangue era stata assunta successivamente dal **** nel corso di altra riunione, alla quale egli non aveva preso parte.
Con il terzo motivo, denuncia, ai sensi dell'articolo 606, comma 1, lettere b) ed e), cod. proc. pen., inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, in relazione all'articolo 110 cod. pen., nonché mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, con riferimento al tentato omicidio di **** **** (capi I e J).
Le dichiarazioni accusatorie dei collaboranti ****, **** **** e **** ****, sulle quali i giudici di merito avevano fatto leva per formulare il giudizio di colpevolezza, non erano tra loro convergenti, con riferimento sia alla fase deliberativa del delitto e ai soggetti che vi avevano preso parte attiva, sia alla fase organizzativa ed a quella esecutiva. Il ricorrente ripercorre il contenuto di tali propalazioni, per evidenziarne le contraddizioni e per inferirne che, in ogni caso, si rivelavano inidonee a delineare il contributo causale da lui offerto.
Con il quarto motivo, deduce, ai sensi dell'articolo 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione sul diniego della diminuente del vizio parziale di mente, nonostante la documentazione sanitaria acquisita evidenziava a suo carico un pregresso disturbo della personalità.
3.5. Ricorso ****.
Il ricorrente, con un primo motivo, lamenta, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lettere b) ed e), cod. proc. pen., inosservanza della legge processuale penale in relazione all'art 192 cod. proc. pen., nonché mancanza e manifesta illogicità della motivazione risultante dal testo della sentenza impugnata.
In particolare, la Corte di merito, nel formulare il giudizio di colpevolezza in ordine al reato di favoreggiamento personale, aveva erroneamente ritenuto che le dichiarazioni de relato dei collaboranti **** e **** ****, smentite dalla fonte di riferimento (**** ****), riscontrassero quelle del chiamante in reità diretto **** ****, il quale, a sua volta, era soggettivamente inattendibile, per avere reso le proprie dichiarazioni accusatorie oltre il termine di 180 giorni previsto ex lege dall'inizio della collaborazione.
Con il secondo motivo, censura la ritenuta sussistenza dell'aggravante ad effetto speciale di cui all'art. 7 d.l. n. 152 del 1991, sottolineando che l'ipotizzato aiuto prestato ad **** **** era stato di carattere esclusivamente personale e non era stato orientato a favorire le sorti del sodalizio mafioso. Aggiunge, inoltre, che le argomentazioni sviluppate in sentenza riguardavano essenzialmente la posizione del coimputato **** ****, appartenente alla "stidda", il quale, in quanto amico d'infanzia del ****, aveva inteso aiutare l'amico e non certo "cosa nostra".
3.6. Ricorso ****.
Il ricorrente deduce la violazione delle regole in tema di valutazione della prova, con riferimento all'art. 192, commi 1 e 3, cod. proc. pen., ed il connesso vizio di motivazione: il giudizio di responsabilità a suo carico in ordine ai numerosi omicidi commessi nell'ambito della guerra di mafia era stato affidato a chiamate in reità o in correità operate da collaboratori di giustizia e tutte de relato, senza che le stesse fossero state valutate singolarmente nella loro attendibilità intrinseca; tali propalazioni erano inquinate dalla pregressa conoscenza degli atti processuali da parte dei dichiaranti, si rivelavano pertanto scarsamente attendibili, erano in gran parte viziate da "circolarità", la fonte di riferimento non era verificabile. Analizza, quindi, le varie vicende omicidiarile, per stigmatizzare il malgoverno delle regole di valutazione della prova da patite dei giudici di merito e la carenza argomentativa della relativa pronuncia.
3.7. Ricorso ****.
Il ricorrente articola tre motivi di censura.
Con il primo motivo, denunzia la violazione degli artt. 110, 575 cod. pen., 7 d.l. n. 152 del 1991, 125, comma 3, 192, commi 3 e 4, 546, comma 1, lefct. e), cod. proc. pen., con riferimento al formulato giudizio di responsabilità in ordine al tentato omicidio di **** ****.
Sottolinea che a tale giudizio la Corte di merito era pervenuta facendo leva sul contenuto delle propalazioni dei collaboranti **** ****, **** **** e **** ****, ritenute convergenti ed idonee a riscomtrarsi reciprocamente, laddove non erano affatto coerenti tra loro nella parte in cui avevano descritto la fase deliberativa del delitto e indicato le persone che avevano partecipato alle relative riunioni; anche la condotta post delictum (recupero delle armi usate dai killers) addebitata, in base alla ricostruzione del ****, al ricorrente era rimasta priva di riscontri individualizzanti ed era - tra l'altro - estranea alla contestazione; il materiale probatorio acquisito non aveva, in sostanza, offerto elementi univocamente indicativi del concreto contributo causale fornito dall'imputato, che non rivestiva ruolo direttivo in seno alla cosca.
Con il secondo motivo, deduce la violazione degli articoli 416-bis cod. pen., 125, comma 3, 192, commi 3 e 4, 546, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., nonché il vizio di motivazione in relazione al formulato giudizio di responsabilità per il reato associativo.
Sostiene che non poteva ritenersi sufficiente, per integrare tale delitto, la mera attribuzione della qualità di "uomo di onore", in difetto di contegni rivelatori della compartecipazione associativa. Sotto quest'ultimo profilo, difettava la prova sia della partecipazione attiva a riunioni criminali, sia - e per le ragioni esposte nel precedente motivo - del concorso nel tentato omicidio in pregiudizio di **** ****, sia del suo coinvolgimento nella gestione delle estorsioni.
Con il terzo motivo, lamenta la violazione degli artt. 62-bis, 69, 132 133, 577, comma 1, n. 3, cod. pen. e 125, comma 3, cod. proc. pen. in relazione al mancato accoglimento delle richieste, formulate con l'atto di appello, di esclusione dell'aggravante della premeditazione, di concessione delle circostanze attenuanti generiche e di riduzione della pena.
3.8. Ricorso ****.
Con un primo motivo, il ricorrente lamenta la violazione degli artt. 192, commi 2 e 3, cod. proc. pen., 110, 575, 577, comma primo, n. 3, cod. pen. e il connesso vizio di motivazione in relazione all'omicidio di **** ****.
Deduce, in particolare, che la Corte di merito aveva fatto leva, ai fini probatori, sulle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia (**** ****, **** e **** ****), senza una adeguata valutazione in «pedine all'attendibilità soggettiva di ciascun dichiarante, senza dare rilevo alle dissonanze emerse (e specificamente evidenziate) tra i vari propalanti e senza farsi carico di ricercare precisi riscontri individualizzanti; i riscontri erano stati ravvisati in sole considerazioni di carattere logico, non essendo stato possibile escutere le fonti dirette, che erano state indicate o in persone decedute o nello stesso imputato. Richiama la giurisprudenza di legittimità che esclude la riscontrabilità reciproca delle chiamate in reità de relato. Censura la motivazione nelle parti relative alla ritenuta sussistenza dell'aggravante della premeditazione e al diniego delle circostanze attenuanti generiche.
Con il secondo motivo, denuncia la violazione degli artt. 192, commi 2 e 3, cod. proc. pen., 110, 575, 577, comma primo, n. 3, 61 n. 2 cod. pen., 7 d-l- n. 152 del 1991, 10, 12, 14 legge 14 ottobre 1974 n. 497 in relazione all'omicidio di **** ****.
Evidenzia che la pronuncia di colpevolezza riposava sulle dichiarazioni dei collaboranti **** **** e **** ****, non coincidenti tra i loro e sfornite di riscontri individualizzanti: il primo aveva riferito che lo **** si era recato, prima della commissione del delitto, dal **** per chiedere l'autorizzazione e vi era successivamente ritornato per informarlo dell'avvenuta esecuzione; il secondo, invece, aveva riferito di avere chiesto personalimente l'autorizzazione al reggente di **** **** (Fragapane), non ricordando se a lui si accompagnava, nell'occasione, il **** o lo **** ed aggiungendo che quest'ultimo aveva comunque partecipato con gli altri sodali alla deliberazione del delitto. Censura, inoltre, la motivazione della sentenza di merito nella parte relativa al diniego delle circostanze attenuanti generiche e alla ritenuta sussistenza dell'aggravante della premeditazione e di quella di cui all'art. 7 d.l. n. 152 del 1991.
Con il terzo motivo, deduce il vizio di motivazione in ordine al formulato giudizio di responsabilità per il tentato omicidio di **** ****.
Pone in evidenza, in particolare, che tra il giorno in cui era stato deliberato il delitto (all'indomani della prima strage di ****) e quello in cui era stato eseguito erano trascorsi ben 17 giorni, durante i quali ben potevano èssere cambiati, come di frequente accade nell'ambito delle consorterie mafiose, i mandanti e gli esecutori materiali; dell'incarico conferito da **** **** allo **** di accorciare le canne del fucile da utilizzare per l'omicidio aveva parlato soltanto **** **** e non anche gli altri collaboranti (i fratelli ****); pure la partecipazione dell'imputato alla fase esecutiva, con ruolo di supporto per la fuga, era stata riferita dal solo ****; le dichiarazioni de relato del collaborante **** **** erano dotate di scarsissima valenza probatoria. Censura la sentenza di merito anche nella parte relativa alla ritenuta sussistenza dell'aggravante della premeditazione e di quella ad effetto speciale di cui all'art. 7 d.l. n. 152 del 1991.
Con il quarto motivo, denuncia il vizio di motivazione in relazione al tentato omicidio di **** ****, evidenziando che non si era data adeguata risposta agli specifici e puntuali rilievi formulati con l'atto di appello in ordine alla genericità delle dichiarazioni accusatorie dei collaboranti **** **** e **** ****, alla scarsa valenza delle dichiarazioni de relato rese dal **** e da **** ****, al contrasto tra le dichiarazioni del **** e quelle rese da **** ****. Anche in relazione a tale illecito, ribadisce la censura sulla non configurabilità dell'aggravante della premeditazione e di quella di cui all'art. 7 d.l. n. 152 del 1991.
Con il quinto motivo, lamenta il vizio di motivazione sulla partecipazione al sodalizio mafioso, ritenuta sulla base delle dichiarazioni dei collaboranti, che lo avevano indicato come "avvicinato", qualità questa non sufficiente ad integrare la condotta partecipativa; nonché la mancanza di motivazione sul diniego delle circostanze attenuanti generiche, la cui concessione era stata sollecitata in appello per tutti i reati contestati.
3.9. Ricorso della parte civile **** **** nei confronti del **** e del ****.
La ricorrente deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione circa l'omessa statuizione di condanna degli imputati **** **** e **** **** (quest'ultimo non ricorrente), ritenuti entrambi colpevoli dell'omicidio in danno di **** ****, alla rifusione in di lei favore delle spese sostenute nel grado di appello.
4. Con ordinanza del 23 maggio 2012, la Quinta Sezione penale, assegnataria dei ricorsi, ne ha rimesso la decisione alle Sezioni Unite, per risolvere il rilevato contrasto di giurisprudenza sulla questione di diritto, sollevata espressamente da alcuni ricorrenti (gli **** e lo ****) ed estensibile anche alla posizione di altri, in ordine alla possibilità o meno, ai fini del giudizio di responsabilità penale, di reputare conforme alla regola di giudizio di cui all'art. 192, comma 3, cod. proc. pen. la chiamata in reità o in correità de relato riscontrata esclusivamente da altra chiamata de relato.
La Sezione rimettente richiama ed analizza gli opposti orientamenti ermeneutici della giurisprudenza di legittimità, per inferirne il carattere differente della questione di diritto prospettata e, quindi, la necessità di risolvere il rilevato contrasto interpretativo.
5. Il Primo Presidente, con decreto in data 2 luglio 2012, ha assegnate} - ex art. 618 cod. proc. pen. - il ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione l'odierna udienza pubblica.

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. La questione di diritto per la quale i ricorsi sono stati rimessi alle Sezioni Unite è la seguente : «se la chiamata in reità o in correità de relato, in assenza della possibilità di esaminare anche la fonte diretta, possa avere come unico riscontro, ai fini della prova di responsabilità penale dell'accusato, un'altra chiamata de relato».
2. Si contrappongono al riguardo, come rileva l'ordinanza di rimessione, due diversi orientamenti della giurisprudenza di legittimità.
2.1. Un primo indirizzo interpretativo esclude che la chiamata in correità o in reità de auditu, non confermata dalla fonte di riferimento, possa essere riscontrata, ai fini della prova della colpevolezza del chiamato, esclusivamente da altra chiamata di analoga natura. Ciò perché i riscontri estrinseci, a conforto di dichiarazioni caratterizzate da "credibilità congenitamente carente", devono essere certi, univoci, specifici, individualizzanti, sì da consentire un collegamento diretto ed obiettivo con i fatti contestati e con la persona imputata.
La tesi presuppone il riconoscimento di una sorta di gerarchia tra le varie ipotesi di chiamata, genericamente indicate nell'art. 192 cod. proc. peo., nel senso che le stesse si differenzierebbero sul piano della maggiore o minore attendibilità.
La chiamata in correità, infatti, comportando un notevole rischio perdonale per il dichiarante, in quanto contiene, oltre all'accusa nei confronti del correo, anche la confessione del fatto proprio, presenta oggettivamente un grado dì attendibilità intrinseca più elevato rispetto alla chiamata in reità ed è più agevolmente riscontrabile.
La chiamata in reità, invece, non comportando, per l'assenza del momento confessorio, alcun rischio personale per il dichiarante in ordine al fatto denunciato, è di per sé meno attendibile e necessita, quindi, di approfondimenti estremamente più rigorosi, sì da penetrare in ogni aspetto della dichiarazione, dalla causale alla efficacia rappresentativa della dichiarazione stessa.
Differenziato è anche l'approccio circa il grado di attendibilità della chiamata de relato e di quella diretta.
Alla prima, assimilabile per struttura alla testimonianza indiretta ed annoverata, come pure si è sostenuto, nel genus degli indizi, è allegata una valenza probatoria inferiore rispetto a quella della seconda, con l'effetto che, anche in tale caso, la ricerca dei riscontri esterni, obiettivi e individualizzanti che ne confermino l'attendibilità deve essere particolarmente rigorosa. Tra tali riscontri non possono essere ricomprese altre dichiarazioni de relato, proprio perché la congenita debolezza dimostrativa delle medesime è inidonea a colmare il "deficit probatorio" della prima dichiarazione di analogo tenore. In sostanza, pur non escludendosi in astratto la mutuai corroboration tra dichiarazioni de auditu, si sottolinea che, per poterla attuare, ciascuna di esse deve esseri, per così dire, "vestita" da riscontri specifici di diversa natura (Sez. 6, n. 1692)9 del 20/12/2011, dep. 07/05/2012, De Filippi, Rv. 252631; Sez. 5, n. 37230 del 09/07/2010, Canale, Rv. 248648; Sez. 5, n. 43464 del 09/05/2002, Pinto, Rv. 223544).
2.2. Altro orientamento ermeneutico ritiene coerente con le regale di valutazione della prova dettate dall'art. 192 cod. proc. pen. l'idoneità, in via generale, della chiamata in correità o in reità de relato, riscontrata da altra chiamata di identica natura, a integrare la prova del giudizio di responsabilità penale, purché dette chiamate, sottoposte a penetrante vaglio critico, si rivelino intrinsecamente attendibili, convergenti, specifiche, indipendenti, vale a dire non frutto di pregresse intese fraudolente, e autonome, cioè derivanti da una fonte diretta non comune e non espressione della c.d. "circolarità della notizia" (Sez. 1, n. 33398 del 04/04/2012, Madonia, Rv.252930; Sez. 1, n. 34525 del 28/02/2012, Farinella, Rv. 252937; Sez. 1, n. 31695 del 23/06/2010, Calabresi, Rv. 248013; Sez. 1, n. 1560 del 21/11/2006, dep. 19/01/2007, Missi, Rv. 235801; Sez. 1, n. 1263 del 20/10/2006, dep. 18/01/2007, Alabiso, Rv. 235800; Sez. 5, n. 36451 del 24/06/2004, Vullo, Rv. 230240; Sez. 4, n. 35569 del 16/04/2003, Zungari, Rv. 228299; Sez. 1, n. 29679 del 13/06/2001, Chiofalo, Rv. 219889; Sez. 5 n. 9001 del 15/06/2000, Madonia, Rv. 217729; Sez. 2, n. 3616 del 17/12/1999, dep. 20/03/2000, Calascibetta, Rv. 2115558; Sez. 5, n. 14272 dell'08/10/1999, Cervellione, Rv. 215800; Sez. 4, n. 6343 del 31/03/1998, Avita, Rv. 211625; Sez. 1, n. 11344 del 10/05/1993, Aigranati, Rv. 195775).
A sostegno di tale conclusione, si sottolinea, nelle decisioni che hanno affrontato ex professo il tema specifico (cfr., in particolare, la seconda delle sentenze citate), che negare rilevanza probatoria alla chiamata indiretta, riscontrata soltanto da altra chiamata della medesima natura, darebbe luogo ad una sorta di «valutazione "legale" della portata probatoria di un fatto comunque rilevante, da affidare invece al prudente apprezzamento del giudicante», in coerenza col principio del libero convincimento del giudice.
3. Osserva la Corte che questo secondo orientamento è più in linea fon le regole di valutazione della prova di cui all'art. 192 cod. proc. pen., anche se, come meglio si preciserà in seguito, non può essere marginalizzato, per così dire, in una mera operazione di calcolo matematico, vale a dire in una meccanica e asettica trasposizione della regola della convergenza del molteplice, quasi che la semplice esistenza di due o più chiamate de auditu convergenti costituisca sempre e comunque prova della responsabilità del chiamato ed integri, di per sé, una sorta di prova legale, che prescinda, rendendole ininfluenti, dalla disamina e dalla complessiva e coordinata valutazione dei restanti dati probatori eventualmente acquisiti.
4. Procedendo con ordine, deve rilevarsi innanzi tutto che, ai sensi dell'art. 187 cod. proc. pen., oggetto della prova sono «i fatti che si riferiscono all'imputazione».
Il thema probandum logicamente deve trovare preciso ancoraggio ai principi di rilevanza e di pertinenza, onde scongiurare il rischio di rendere indeterminato l'oggetto stesso dell'accertamento penale.
"Provare" altro non significa che fornire la dimostrazione di un fatto umano¬sociale verificatosi, secondo determinate modalità, in un certo contesto spazio-temporale.
Si è efficacemente rilevato in dottrina che la prova, con particolare riferimento a quella dichiarativa, non è mai un fatto in sé bensì una affermazione, che deve essere verificata come vera o come non vera sull'esistenza di un fatto passato. Una serie di affermazioni vere e convergenti su un determinato accadimento del passato integra la prova del medesimo come fatto giuridico, dal quale derivano determinate conseguenze legali.
5. L'art. 192 cod. proc. pen., il cui contenuto è sintetizzato nella rubrica («Valutazione della prova»), si limita ad un mera operazione ricognitiva finalizzata ad avallare, sotto il profilo normativo, come si è osservato in dottrina, «effetti già "pretoriamente" conseguiti» nel vigore del codice del 1930 in ordine al peso probatorio da allegarsi a taluni dati conoscitivi di controversa efficacia dimostrativa, ribadendo il cardine attorno a cui ruota l'attività dello ius dicere, vale a dire il principio del libero convincimento del giudice.
La citata norma, infatti, s'inserisce in un consolidato filone giurisprudenziale, che col previgente codice di rito si era attestato su posizioni di particolare rigore in materia di valutazione dell'efficacia probatoria di emergenze istruttorie ritenute sospette (dichiarazioni rese da coimputato o da imputato di reato connesso in sede di interrogatorio libero ex artt. 348-bis e 450-bis cod. proc. pen. 1930), e non rappresenta altro che la trasposizione normativa di principi già cristallizzati nel diritto vivente.
Il principio del libero convincimento implica che il giudice ha ampia libertà di valutare tutti gli elementi di prova legittimamente acquisiti e di avallare, in relazione all'attendibilità degli stessi, alla credibilità delle fonti, all'idoneità di massime di esperienza o di leggi scientifiche, il discorso inferenziale sul quale si basano le ricostruzioni dell'accusa o della difesa.
Il significato delle prove acquisite sul tema dell'imputazione e la loro valenza in concreto non possono che essere apprezzati soltanto dal giudice, costituendo ciò l'essenza stessa della funzione giurisdizionale, da preservare rispetto a qualunque costrizione normativa.
La nozione di intime conviction risale all'illuminismo e rappresenta una forma di emancipazione del giudice dalle strettoie delle prove legali, che caratterizzavano il percorso procedurale dell'Ancien Régime.
6. E', in particolare, il comma 1 dell'art. 192 cod. proc. pen. che detta la regola generale, secondo cui «il giudice valuta la prova dando conto nella motivazione dei risultati acquisiti e dei criteri adottati», raccordando così, con corrispondenza biunivoca, l'aspetto valutativo all'obbligo di motivazione. E' proprio tale obbligo la spia e la riconferma del valore ideale del principio del libero convincimento, quale punto di riferimento del processo valutativo dei dati probatori.
Nella stessa Relazione al Progetto preliminare del codice (p. 61) si chiarisce che «l'art. 192 conferma la scelta in favore del principio del libero convincimento del giudice di cui offre una formulazione che in parte ricorda il disposto dell'art. 116 cod. proc. civ. [«il giudice deve valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento...»]. Decisamente nuovo è, però, il raccordo tra convincimento del giudice e obbligo di motivare: su un piano generale, esso mira a segnalare, anche a livello legislativo, come la libertà di apprezzamento della prova trovi un limite in principi razionali che devono trovar risalto nella motivazione; sotto un profilo più strettamente operativo, il nesso vuol fare risaltare il contenuto della motivazione in fatto, che si esprime nella enunciazione delle risultanze processuali e nella Indicazione dei criteri di valutazione [...] utilizzati per vagliare il fondamento della prova».
Il principio in esame non è posto in crisi dalle previsioni contenute nei commi successivi dell'art. 192 cod. proc. pen., in cui si codifica, forse superfluamente, apparendo sufficiente la previsione contenuta nel comma 1 dello stesso articolo, un "segnale didattico" per la valutazione di dati probatori che, isolatamente considerati, si rivelano di minore efficacia dimostrativa, quali - da un lato - gli indizi in genere e - dall'altro - quegli specifici indizi costituiti dai contributi dichiarativi di coimputati del medesimo reato, di imputati in procedimento connesso a norma dell'art. 12 cod. proc. pen. e di imputati di un reato collegato ex art. 371, comma 2, lett. b), cod. proc. pen.: i primi, per integrare la prova del fatto, devono essere «gravi, precisi e concordanti»; la valutazione probatoria dei secondi è subordinata anche alla simultanea presenza di «altri elementi di prova che ne confermano l'attendibilità».
La selezione di tali linee-guida lungo le quali il giudice, nell'operazione intellettiva di valutazione di questa tipologia di prove, deve muoversi si atteggia a metodo euristico, normativamente imposto, per scrutinare prove legalmente acquisite e verificarne la conducenza rispetto all'enunciazione accusatoria; si pone, almeno in apparenza, come deroga al principio del libero convincimento, senza determinarne, però, una effettiva contrazione o addirittura il superamento sotto il profilo contenutistico; non introduce, in via indiretta, un limite negativo di prova legale a tale principio e quindi una regola di esclusione probatoria; lascia al decidente, in assenza di qualunque indicazione aprioristica di segno contrario, la libertà di utilizzare anche propalazioni di chiamanti in correità o in reità prive di riscontri e legittimamente acquisite, non per inferirne la sicura sussistenza del fatto a carico dell'accusato (caso in cui è necessaria la conferma ab extra), ma nella prospettiva, per esempio, di evidenziare una trama di mendacio ordita in danno del medesimo soggetto, attinto da chiamate plurime.
Si richiede soltanto, sotto il profilo metodologico, un più rigoroso sforzo nell'evidenziare l'efficacia dimostrativa di dati di per sé meno affidabili, in quanto non autosufficienti ad affermare l'altrui colpevolezza, senza minimamente incidere sulla libertà di valutazione del giudice di merito, la quale non è condizionata, come avviene in un regime di prova legale, da un esito precostituito, ma è semplicemente guidata da più pregnanti criteri "razionali" di analisi, nella prospettiva di pervenire ad un risultato logicamente apprezzabile, che non sia espressione di discrezionalità incontrollabile e connotata dei caratteri dell'arbitrio.
In sostanza, si richiede al giudice di spiegare con puntualità, in ossequio al disposto dell'art. 546, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., le ragioni della pronuncia, sì da indurlo a seguire, con la più ampia libertà valutativa e pur nel rispetto dei criteri normativi dettati dall'art. 192 cod. proc. pen., un itinerario argomentativo che assicuri uno standard di adeguatezza quanto più elevato possibile.
Il metodo legale di valutazione della prova non ingloba indirettamente la regola di esclusione della stessa. Il primo si differenzia, sotto il profilo ontologico-funzionale, dalla seconda.
Quest'ultima opera nella fase prodromica a quella della valutazione, impedendo, in particolare, l'acquisizione e conseguentemente la valutazione di un determinato dato cognitivo, al quale viene negata qualsiasi valenza epistemologica, con l'ulteriore effetto che l'inosservanza del divieto è presidiata dalla sanzione dell'inutilizzabilità ex art. 191 cod. proc. pen.
Il primo presuppone la legittima acquisizione della prova e, come si è incisivamente osservato in dottrina, «orienta il giudice nell'operazione volta ad assegnare un valore epistemologico alla prova».
7. In un sistema incentrato sul principio del libero convincimento del giudice, appare poco coerente una catalogazione gerarchica in senso piramidale dei tipi di prova secondo una loro asserita ed astratta idoneità dimostrativa, sganciata dalla specifica realtà processuale.
La valutazione dell'efficacia di un mezzo di prova, quale che esso sia, deve tenere conto della dinamica operativa del medesimo all'interno del contesto processuale in cui viene acquisito. A fronte della libertà di valutazione del giudice, non può trovare spazio, come si è rilevato in dottrina, «una prefissione normativa dell'efficacia della prova»; è consentita soltanto una indicazione legislativa della metodologia di acquisizione e di verifica dei mezzi di prova.
8. Ciò posto, l'attenzione va polarizzata sulla questione specifica rimessa all'esame delle Sezioni unite, vale a dire la valenza probatoria della chiamata in correità o in reità de relato.
Oggetto di tale mezzo di prova sono circostanze di fatto non percepite personalmente dal dichiarante, ma a costui riferite da altri e, quindi, frutto di conoscenza, per così dire, di "seconda mano".
La persona cioè che riferisce in giudizio le percezioni altrui, a lei confidate, del fatto da provare finisce con l'offrire una attestazione non originale del fatto medesimo, con l'effetto che la valutazione delle corrispondenti dichiarazioni deve essere orientata, come si preciserà, da criteri di particolare rigore.
L'intuibile diffidenza verso la prova inoriginale aumenta logicamente in maniera direttamente proporzionale ai gradi di inoriginalità (informazioni di seconda, terza, quarta mano e così via), in quanto crescono le possibilità di errore o addirittura di inganno, che si riverberano sul fatto da accertare, sfumandone progressivamente i contorni, sino al punto da rendere sempre più difficoltosa, se non impossibile, la individuazione del vero. Tale situazione può paragonarsi alla visibilità di un corpo attraverso uno o più strati di vetro: il corpo si scorge distintamente attraverso un solo vetro, la visione è sempre meno chiara e deformata per l'interposizione di altri strati di vetro.
8.1. La chiamata de relato si traduce - di norma - in una chiamata in reità, stante la sua provenienza da imputato di reato connesso o collegato, il quale riferisce fatti che, avendoli appresi da altri, lo vedono quasi sempre estraneo rispetto al reato che viene in considerazione.
Non può escludersi tuttavia che il propalante de relato abbia avuto un ruolo nella vicenda delittuosa raccontata, anche se, in relazione ad alcuni aspetti della medesima, non sia stato diretto protagonista, ma destinatario di altrui confidenze: si pensi al killer di mafia, divenuto collaboratore di giustizia, il quale riferisce in ordine alla fase esecutiva di un omicidio e indica, per cognizione diretta, i complici con i ruoli dagli stessi spiegati nella esecuzione del delitto; in ordine alla causale dell'omicidio e al mandante, invece, riferisce quanto appreso dai sodali, non avendo avuto diretti contatti con il vertice del sodalizio e non avendo partecipato alla fase deliberativa e organizzativa del delitto. In tal caso, è di tutta evidenza che il dichiarante è un chiamante in correità diretto per alcuni aspetti della vicenda e de auditu per altri.
La chiamata de relato, pur non essendo espressamente evocata nel codice, non è da questo ignorata o ritenuta inutilizzabile, in quanto trova significativi riferimenti normativi nella disciplina dei mezzi di prova attraverso i quali la stessa chiamata è veicolata nel processo.
8.2. L'art. 210 cod. proc. pen. detta, infatti, un'apposita regolamentazione per l'esame dibattimentale della persona imputata in un procedimento connesso a norma dell'art. 12, comma 1, lett. a), cod. proc. pen,; mezzo di prova - questo - che normalmente introduce la chiamata in correità o in reità, diretta o indiretta che sia.
La richiamata norma, dopo le previsioni circa la citazione, le modalità attraverso le quali deve procedersi all'esame, i diritti dell'esaminando (con particolare riferimento alla facoltà di non rispondere), stabilisce, al comma 5, che si applicano le disposizioni dettate dall'art. 195 cod. proc. pen. per la testimonianza indiretta, il che chiarisce, in maniera inequivoca, l'intenzione del legislatore del 1988 di comprendere tra i mezzi di prova indicati nel Libro III, Titolo II, Capo II del codice di rito anche la chiamata in correità o in reità de auditu effettuata da imputato in procedimento connesso, tanto da imporre le medesime cautele e limitazioni previste per la testimonianza indiretta.
L'ambito di operatività dell'istituto disciplinato dall'art. 210 cod. proc. pen., a seguito della riforma introdotta dalla legge Io marzo 2001, n. 63, si è ovviamente ridotto rispetto a quello definito nell'originaria versione della medesima disposizione, il cui comma 1 risulta oggi circoscritto alle «persone imputate in un procedimento connesso a norma dell'art. 12, comma 1, lett. a)», le quali non possono assumere, ai sensi dell'art. 197-bis cod. proc. pen., l'ufficio di testimone.
L'istituto in esame si applica anche, secondo quanto prevede il comma 6 dell'art. 210 cod. proc. pen., alle «persone imputate in un procedimento connesso ai sensi dell'art. 12, comma 1, lett. c), o di un reato collegato a norma dell'art. 371, comma 2, lett. b)», soltanto se le medesime «non hanno reso in precedenza dichiarazioni concernenti la responsabilità dell'imputato».
8.3. Con l'entrata in vigore della legge n. 63 del 2001, altro mezzo di prova attraverso cui vengono introdotte nel processo le chiamate de relato è la testimonianza assistita, prevista dall'art. 197-bis cod. proc. pen.
Tale norma, pur non richiamando, a differenza dell'art. 210 cod. proc. pen., l'art. 195 cod. proc. pen., non rende inapplicabile quest'ultima disposizione, il cui espresso richiamo sarebbe stato pleonastico, considerato che il teste assistito è un vero e proprio testimone e quindi soggiace, sia pure con un peculiare regime di assunzione e valutazione dei relativi dieta, alle regole dettate per la testimonianza indiretta.
8.4. La chiamata de relato, infine, può essere fatta anche dall'imputato nel medesimo processo nel corso del suo esame, ipotesi questa implicitamente disciplinata dall'art. 209 cod. proc. pen., dettante le regole per l'esame delle parti e che, però, per espressa indicazione, esclude l'applicabilità delle regole della testimonianza indiretta, previsione questa giustificata, nella Relazione al Progetto preliminare del codice, dall'esigenza, data la peculiare posizione dell'imputato, di «acquisire tutto quanto sia venuto a sua conoscenza anche per via indiretta» (p. 64).
La lettera della norma desta, in verità, non poche perplessità circa la sua razionalità e la parità di trattamento con l'analoga situazione in cui l'imputato, non giudicato cumulativamente ai suoi coimputati, sia esaminato ex art. 210 cod. proc. pen. nel procedimento connesso a norma dell'art. 12, comma 1, lett. a), cod. proc. pen.; ciò perché finisce, almeno in apparenza, per sottrarre a qualsiasi verifica i dieta de relato eteroaccusatori del predetto soggetto e per rendere irragionevolmente non operativa la causa di inutilizzabilità prevista dall'art. 195, comma 3, cod. proc. pen. e persino quella di cui al comma 7 della stessa norma (rifiuto od omessa indicazione della fonte diretta). E' evidente quindi un possibile contrasto con l'art. 3 della Carta Fondamentale,
Una interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 209 cod. proc. pen. induce a ritenere, come sostenuto da autorevole dottrina, che quando l'imputato non si limiti a parlare della propria responsabilità ma riferisca circostanze di fatto confidategli da terzi in relazione all'altrui responsabilità andrebbe equiparato, in via analogica, al soggetto indicato dall'art. 210 cod. proc, pen., con conseguente applicazione delle regole di cui all'art. 195 cod, proc. pen.
In sostanza, la voluntas legis di abilitare l'imputato ad enunciare, senza preclusioni di sorta, tutte le proprie conoscenze sui fatti di causa - ivi incluse quelle apprese da altri soggetti o anonime - non può che essere letta nell'ottica di valorizzare, con riferimento circoscritto alla sola posizione personale del dichiarante, la finalità squisitamente difensiva connessa alla natura giuridica dell'esame dibattimentale. Ciò non toglie, però, che la dichiarazione de relato contra allos resta pur sempre un tema di prova che non può essere sottratto, ove ne ricorrano i presupposti, all'operatività dell'art. 195 cod. proc. pen.
9. Il rilievo che il legislatore del 1988 non ha sostanzialmente mostrato indifferenza verso la chiamata in correità o in reità de relato, affermando l'applicabilità - in astratto - alla medesima delle regole di cui all'art. 195 cod. proc. pen., non può tuttavia prescindere dall'ulteriore rilievo circa il concreto utilizzo che di tale peculiare mezzo di prova viene fatto nei processi di criminalità organizzata.
In tali processi, infatti, il dichiarante de auditu è di solito un collaboratore di giustizia o comunque un soggetto inserito in una realtà criminale, il quale riferisce quanto appreso da altri sodali o comunque da persone estranee a gruppi criminali; soltanto in casi marginali le informazioni riferite provengono da testimoni estranei ai fatti oggetto di accusa.
Ciò posto, è necessario stabilire se l'obbligatorietà ~ prevista a pena di inutilizzabilità dal comma 3 dell'art. 195 cod. proc. pen. - dell'audizione, a richiesta di parte, della fonte diretta operi anche nell'ipotesi in cui questa si identifichi con un imputato nel medesimo processo, con un imputato in processo connesso o collegato ovvero con un testimone assistito.
9.1. Premesso che, nei processi di criminalità organizzata, accade spesso che il chiamante in correità o in reità riferisca legittimamente confidenze ricevute da un imputato, non ostandovi il divieto di cui all'art. 62 cod. proc. pen., norma che, pur rubricata «divieto di testimonianza sulle dichiarazioni dell'imputato», si riferisce alle sole dichiarazioni rese in un contesto procedimentale (Sez. 2, n. 46607 del 19/11/2009, Sanza, Rv. 246563; Sez, 2 n. 4439 del 02/12/2008, dep. 02/02/2009, Ladini, Rv. 243274), deve ritenersi che, in tale evenienza, il disposto dell'art. 195 cod. proc. pen. non impone l'escussione della fonte diretta.
Tale opzione ermeneutica è legittimata, innanzi tutto, dal tenore letterale della norma, la quale, prevedendo che «il giudice, a richiesta di parte, dispone che queste [cioè le fonti dirette] siano chiamate a deporre» (comma 1) e «può disporre anche d'ufficio l'esame» (comma 2), presuppone in capo all'organo giudicante il potere di ottenere la presenza in dibattimento della fonte diretta ai fini dell'esame e quindi i connessi poteri, quale quello di disporre l'accompagnamento coattivo (artt. 132, 133, 490 cod. proc. pen.), che non può avere come destinatario l'imputato, il quale può essere sottoposto ad esame solo se ne fa richiesta o vi consente (art. 208 cod. proc. pen,). Milita, inoltre, a favore di tale interpretazione l'argomento logico-sistematico che fa ritenere incongruo - a seconda dei casi ~ l'obbligo o la facoltà del giudice di escutere la fonte diretta, che, identificandosi con l'imputato, non può essere chiamata a rendere dichiarazioni che possono pregiudicare la sua posizione (Sez. 2, n. 17107 del 22/03/2011, Cocca, Rv. 250252; Sez. 6, n. 33750 dell'l 1/05/2005, Longoni, Rv. 232043; Sez. 5. n. 26628 del 25/03/2004, Sappracone, Rv. 229863; Sez. 5, n. 552 del 13/03/2003, dep. 12/01/2004, Attanasi, Rv. 227021).
9.2. A diversa conclusione deve pervenirsi, quanto meno sul piano formale, laddove l'autore della confidenza extraprocessuale, riferita nel corso dell'esame dibattimentale dal dichiarante de relato, sia un imputato in procedimento connesso o collegato ai sensi dell'art. 210 cod. proc. pen.
Con riferimento a tale figura "ibrida", che è a metà strada tra l'imputato e il testimone, l'applicazione dell'art. 195 cod. proc. pen. è doverosa in quanto, come detto, espressamente prevista dal comma 5 dell'art. 210 cod. proc. pen.
Non può tuttavia essere sottaciuto che, qualora la fonte primaria, identificabile nell'imputato connesso o collegato, si avvalga, ex art. 210, comma 4, cod. proc. pen., della facoltà di non rispondere, la dichiarazione di seconda mano è comunque utilizzabile, anche se non sottoposta al vaglio della fonte diretta (Sez., 1, n. 26284 del 06/07/2006, Greco, Rv. 235001; Sez. 4, n. 46556 del 04/10/2004, Biancoli, Rv. 231465).
9.3. E' il caso di precisare che ad analoga conclusione deve pervenirsi allorché il dìctum stragludiziale provenga da imputati che abbiano assunto obblighi testimoniali ai sensi degli artt. 64, comma 3, lett. c), e 197-bis cod. proc. pen., non essendo più tutelato in modo assoluto il loro diritto al silenzio, fatte salve le ipotesi marginali di cui all'art. 197-bis, comma 4, e 198, comma 2, cod. proc. pen. a garanzia di tale diritto.
9.4. Non è, quindi, sempre necessario, per l'utilizzabilità delle chiamate de relato, acquisire le dichiarazioni del soggetto di riferimento: non lo prescrive la legge (si pensi al caso in cui manchi l'espressa richiesta di parte o a quello in cui il giudice non ritenga di disporre d'ufficio l'audizione della fonte primaria ovvero quando l'esame di questa risulti impossibile) né lo impone la logica.
Osserva, al riguardo, la Corte che si è progressivamente consolidato l'orientamento in base al quale, pur individuando l'art. 195, comma 3, cod. proc. pen. soltanto tre casi di impossibilità di esaminare l'originaria fonte della notizia (morte, infermità o irreperibilità), deve escludersi che tale elenco sia tassativo e che non possano essere individuati, nella pratica, altri casi di impossibilità oggettiva, assimilabili a quelli indicati dal legislatore (Sez. 2, n. 17107 del 22/03/2011, Cocca, Rv. 250252; Sez. 4, n. 37434 del 12/06/2003, Postiglione, Rv. 226036). Tali sono certamente i casi esaminati ai tre punti che precedono, posto che i soggetti di riferimento non hanno l'obbligo di sottoporsi all'esame (imputato nel medesimo procedimento e imputato in procedimento connesso o collegato) o di deporre (teste assistito, nei casi tassativamente previsti dall'art. 197-bis, comma 4, e 198, comma 2, cod. proc. pen.).
In sostanza, il confronto con le dichiarazioni del soggetto di riferimento è soltanto un modo - tra l'altro non l'unico né da solo sufficiente - per verificare la veridicità dei relata.
Né va sottaciuto che, in caso di convergenza delle due dichiarazioni, le stesse si fonderebbero virtualmente in un'unica, non idonea di per sé a provare il fatto storico oggetto di giudizio, in quanto sarebbe comunque imprescindibile, proprio perché la notizia deriva ex unica fonte, la ricerca di ulteriori elementi estrinseci di riscontro sia di natura oggettiva che soggettiva (ciò ovviamente non vale ove la fonte primaria sia un testimone puro).
10. In un sistema ruotante intorno al principio del libero convincimento del giudice, pertanto, la chiamata de relato è comunque utilizzabile ed ha una sua efficacia, ove anche la fonte primaria non possa essere compulsata (imputato nel medesimo procedimento che non ne fa richiesta o non vi consente) o si avvalga della facoltà di non rispondere (imputato in procedimento connesso o collegato)
0 ne divenga impossibile l'audizione (morte, infermità, irreperibilità).
E' indubbio che, in tali ipotesi, la valutazione del mezzo di prova di cui si discute assume caratteri di particolare complessità, nel senso che, provenendo da persona che riferisce fatti non per scienza diretta, impone al giudice del merito di apprezzare, con particolare attenzione e prudenza, l'efficacia del medesimo mezzo di prova nella sua dinamica operativa all'interno dello specifico contesto processuale.
La struttura della chiamata de relato è certamente complessa: trattasi di prova rappresentativa rispetto all'accadimento della narrazione resa al dichiarante dalia fonte originaria; si manifesta, in relazione alla valenza da allegare al narrato di quest'ultima, come prova critica ed assume la morfologia dell'indizio.
Nel sistema considerato tuttavia non rileva l'aspetto strutturale della prova, vista nella sua staticità, bensì la sua efficacia dimostrativa, quale frutto di una scrupolosa e approfondita valutazione effettuata, in concreto, nell'ambito di uno specifico processo.
Non va sottaciuto, invero, che ben possono esserci casi in cui una chiamata de auditu, per l'ampiezza e la precisione dei dettagli che la contraddistinguono, può rivelarsi molto più attendibile ed affidabile di una generica chiamata diretta e persino di una testimonianza vaga ed imprecisa.
La libertà di convincimento del giudice non tollera, come si è detto, una classificazione dei tipi di prova in base ad una loro predeterminata e differenziata idoneità dimostrativa; è compatibile, invece, con una indicazione normativa circa
1 metodi, che possono essere diversi, di acquisizione e di verifica dei mezzi di prova, non incidendo tale indicazione sulla efficacia dei medesimi, che è astrattamente la stessa e deve essere, di volta In volta, liberamente apprezzata e valutata con riferimento al caso concreto.
11. La chiamata in correità o in reità de relato, in quanto contenuta nelle dichiarazioni eteroaccusatorie rese da uno dei soggetti indicati nell'art. 192, commi 3 e 4, cod. proc. pen. (coimputato o imputato in procedimento connesso
o collegato), non può che soggiacere al criteri di valutazione della prova ivi previsti, nel senso che la sua attendibilità deve trovare conferma in altri elementi di prova, con conseguente accentuazione, in ossequio alla previsione di cui al comma 1 dello stesso articolo, dell'obbligo di motivazione del convincimento del giudice.
L'art. 192 cod. proc. pen., per la sua generica formulazione, priva di indicazioni limitatrici, assume, pertanto, importanza centrale nella soluzione della questione rimessa all'esame delle Sezioni Unite.
Ai fini della corretta valutazione del mezzo di prova di cui si discute, infatti, la metodologia a cui il giudice di merito deve conformarsi non può che essere quella «a tre tempi» indicata da Sez. U, n. 1653 del 21/10/1992, dep. 22/02/1993, Marino, Rv. 192465: a) credibilità del dichiarante, desunta dalla sua personalità, dalle sue condizioni socio-economiche e familiari, dal suo passato, dai rapporti col chiamato, dalla genesi remota e prossima delle ragioni che lo hanno indotto all'accusa nei confronti del chiamato; b) attendibilità intrinseca della chiamata, in base ai criteri della precisione, della coerenza, della costanza, della spontaneità; c) verifica esterna dell'attendibilità della dichiarazione, attraverso l'esame di elementi estrinseci di riscontro alla stessa.
E' il caso tuttavia di aggiungere, in linea con quanto opportunamente precisato dalla successiva giurisprudenza di questa Corte, che la detta sequenza non deve essere - per così dire - rigorosamente rigida, nel senso cioè che il percorso valutativo dei vari passaggi non deve muoversi lungo linee separate. In particolare, la credibilità soggettiva del dichiarante e l'attendibilità oggettiva del suo racconto, influenzandosi reciprocamente, al pari di quanto accade per ogni altra prova dichiarativa, devono essere valutate unitariamente, «discendendo ciò dai generali criteri epistemologici e non indicando l'art. 192, comma 3, cod. proc. pen., sotto tale profilo, alcuna specifica regola derogatoria» (Sez. 1, n. 19759 del 17/05/2011, Misseri, n. m. sul punto; Sez. 6, n. 11599 del 13/03/2007, Pelaggi, Rv. 236151). In sostanza, devono essere superate eventuali riserve circa l'attendibilità del narrato, vagliandone la valenza probatoria anche alla luce di tutti gli altri elementi di informazione legittimamente acquisiti.
11.1. La procedura di verifica delle dichiarazioni eteroaccusatorie dei coimputati o degli imputati in procedimento connesso o collegato deve essere più attenta e rigorosa nei casi di conoscenza de audltu.
Il giudizio di attendibilità del chiamante (c.d. attendibilità intrinseca soggettiva) e della specifica dichiarazione da costui resa (c.d. attendibilità intrinseca oggettiva) impone, infatti, un'indagine molto attenta anche sulla causa scientiae del dichiarante, la cui conoscenza, traendo origine dalla trasmissione di informazioni ad opera di un altro soggetto, può essere esposta a maggiori rischi di errore.
La chiamata de relato, presentando una struttura analoga alla testimonianza indiretta, mutua da questa, almeno per quanto attiene alla valutazione dell'attendibilità intrinseca, il metodo di verifica, che implica necessariamente uno sdoppiamento della valutazione, nel senso che occorre verificare non soltanto l'attendibilità intrinseca soggettiva ed oggettiva del dichiarante in relazione al fatto storico della narrazione percepita, ma anche l'attendibilità della fonte primaria di conoscenza e la genuinità del suo narrato, che integra l'elemento di prova più significativo del fatto sub iudice.
Si è di fronte, come si è precisato in dottrina, ad «una catena inferenziale a due tempi»: dal chiamante de relato alla fonte diretta e da quest'ultima al thema probandum.
11.2. Con specifico riferimento alla chiamata de auditu non asseverata dalla fonte primaria, la valutazione della credibilità intrinseca delle relative dichiarazioni impone di apprezzarne la spontaneità, la coerenza, la costanza e la precisione, indagando, in particolare, proprio per il maggiore rigore valutativo imposto dalla peculiarità del caso, sulle circostanze concrete di tempo e di luogo in cui avvenne il colloquio tra il loquens e il soggetto di riferimento nonché sulla natura dei rapporti (di frequentazione e di familiarità) tra i due, sì da giustificare le confidenze, di tenore certamente compromettente, ricevute dal primo.
Nella situazione data, sicuramente più complicato è saggiare l'attendibilità intrinseca del terzo, il cui racconto proviene dalla fonte di seconda mano.
Se questa, però, non avendo avuto un ruolo diretto nei fatti delittuosi in contestazione, fornisce, in ordine a questi, particolari precisi, compatibili col quadro probatorio già acquisito e non contraddetti da questo, per averli appresi dalla fonte primaria, con la quale intratteneva rapporti di frequentazione e di confidenza, e se non sussistono ragioni sintomatiche di una comunicazione di notizie false, può agevolmente ritenersi, per consequenzialità logica e in base ad una consolidata massima di esperienza, la corrispondenza al vero della confidenza extraprocessuale proveniente dal soggetto di riferimento, anche se dal medesimo non asseverata in sede processuale.
11.3. L'operazione logica conclusiva di verifica giudiziale della chiamata de relato, perché la stessa possa assurgere al rango di prova idonea a giustificare un'affermazione di responsabilità, necessita, inoltre, di «convergenti e individualizzanti riscontri esterni in relazione al fatto che forma oggetto dell'accusa e alla specifica condotta criminosa dell'incolpato, essendo necessario, per la natura indiretta dell'accusa, un più rigoroso e approfondito controllo del contenuto narrativo della stessa e della sua efficacia dimostrativa» (Sez. 1), n. 45276 del 30/10/2003, Andreotti, Rv. 226090).
Quanto alla tipologia e all'oggetto dei riscontri, la genericità dell'espressione «altri elementi di prova» utilizzata dall'art. 192, comma 3, cod. proc. pen. legittima l'interpretazione secondo cui, in subiecta materia, vige il principio della "libertà dei riscontri", nel senso che questi, non essendo predeterminati nella specie e nella qualità, possono essere di qualsiasi tipo e natura, ricomprendere non soltanto le prove storiche dirette, ma ogni altro elemento probatorio, anche indiretto, legittimamente acquisito al processo ed idoneo, anche sul piano della mera consequenzialità logica, a corroborare, nell'ambito di una valutazione probatoria unitaria, il mezzo di prova ritenuto ex lege bisognoso di conferma.
Non si richiede che il riscontro integri la prova del fatto, giacché, se così fosse, perderebbe la sua funzione "gregaria", sarebbe da solo sufficiente a sostenere il convincimento del giudice e verrebbe meno la necessità di far leva anche sulla prova principale, ritenuta da sola non sufficiente.
L'unico dato certo, evincibile da una corretta interpretazione della previsione di cui all'art. 192, comma 3, cod. proc. pen., è costituito dall'esigenza che i riscontri alle dichiarazioni ivi considerate devono essere caratterizzati dalla necessaria estraneità - nel senso di provenienza ab externo - rispetto alle dichiarazioni medesime, sì da scongiurare una verifica tautologica, autoreferenziale ed affetta dal vizio della circolarità.
Tenuto conto della mancanza di qualsiasi indicazione normativa in senso contrario, deve escludersi che i riscontri debbano essere necessariamente di natura diversa rispetto alla categoria probatoria considerata (dichiarazioni de auditu rese dal coimputato o da imputato in procedimento connesso o collegato). La norma, infatti, fa riferimento ad "altri" elementi di prova, da intendersi come elementi "ulteriori", da utilizzare in chiave corroborativa, il che chiarisce che si è inteso evocare un parametro meramente quantitativo e non qualitativo di tali elementi, senza alcuna pretesa di una imprescindibile differenziazione di tipo ontologico dei medesimi rispetto alla prova dichiarativa da riscontrare.
Ciò posto, il riscontro estrinseco alla chiamata in correità o in reità de auditu ben può essere offerto dalle dichiarazioni di analoga natura rese da uno o più degli altri soggetti indicati nella richiamata norma. Qualunque elemento probatorio, diretto o indiretto che sia, purché estraneo alle dichiarazioni da riscontrare, può essere legittimamente utilizzato a conferma dell'attendibilità delle stesse.
Non può, in sostanza, condividersi l'affermazione secondo cui una chiamata de relato sarebbe, in linea di principio, funzionalmente inidonea a riscontrarne altra avente la stessa natura. Una tale limitazione probatoria non è legittimata da alcuna previsione del sistema processuale vigente e si pone in netto contrasto con il principio del libero apprezzamento del giudice.
Certamente non può ignorarsi che la tecnica della c.d. mutuai corroboration può portare in sé il rischio che l'armonia tra le dichiarazioni dei diversi propalanti possa nascondere una trama di mendacio concordato e finalizzato a incolpare una persona estranea ai fatti.
E' affidato al giudice di merito il delicato compito di scongiurare tale rischio, verificando, in maniera rigorosa, l'attendibilità intrinseca di ogni singola dichiarazione e, quindi, l'attitudine di una o più di esse a fungere da riscontro estrinseco di quella o di quelle che lo stesso giudice ritenga di porre a fondamento, con valenza primaria o paritaria rispetto alle prime, della propria decisione.
In tale ottica, il giudice deve, nel percorrere l'itinerario di formazione del proprio convincimento, sottoporre, innanzi tutto, la dichiarazione accusatoria utilizzabile come riscontro di altra di analogo tenore allo stesso controllo di attendibilità intrinseca che vale per quest'ultima. Deve poi procedere alla verifica che le ulteriori dichiarazioni accusatorie siano connotate da: a) convergenza delle chiamate in ordine al fatto materiale oggetto della narrazione; b) indipendenza - intesa come mancanza di pregresse intese fraudolente - da suggestioni o condizionamenti inquinanti; c) specificità, nel senso che la c.d. convergenza del molteplice deve essere sufficientemente individualizzante e riguardare sia il fatto nella sua oggettività che la riferibilità soggettiva dello stesso alla persona dell'incolpato, fermo restando che deve privilegiarsi l'aspetto sostanziale della concordanza delle plurime dichiarazioni d'accusa sul nucleo centrale e più significativo della questione fattuale da decidere; d) autonomia "genetica", vale a dire derivazione non ex unica fonte, onde evitare il rischio della circolarità della notizia, che vanificherebbe la valenza dell'elemento di riscontro esterno e svuoterebbe di significato lo stesso concetto di convergenza del molteplice.
Dall'esito positivo di tale delicata e complessa operazione valutativa è agevole dedurre la prova della res iudicanda.
12. La tesi qui privilegiata non contrasta con gli artt. Ili, comma quarto, Cost. e 6, comma 3, lett. d), CEDU, che postulano il principio del contraddittorio nel procedimento di formazione della prova.
Nel caso in esame, invero, non difetta il controllo dialettico sulle prove dichiarative di seconda mano, le uniche che, in quanto legittimamente acquisite, sono utilizzabili e ben possono essere poste a base della decisione, data l'impossibilità di esaminare quelle dirette.
Non si pone, pertanto, nella specie, un problema di violazione del contraddittorio, ma piuttosto di efficacia dimostrativa del citato materiale probatorio.
E' imprescindibile a tal fine, come si è innanzi precisato, l'esigenza di verificare, con particolare attenzione e con estremo rigore, l'attendibilità intrinseca di ciascuna delle plurime chiamate de relato, la compatibilità delle stesse con i dati fattuali del thema probandum, la loro autonomia "genetica" e, quindi, la loro idoneità a riscontrarsi reciprocamente ab extrínseco e con valenza individualizzante, in virtù della regola della c.d. convergenza del molteplice, in modo da inferirne, sia pure in via mediata, la esclusione di una "congiura" in danno del chiamato e conseguentemente la veridicità del racconto proveniente dalle diverse fonti primarie.
12.1, La circostanza che il narrato extraprocessuale proveniente da tali fonti non entra nel circuito dialettico, ma è veicolato nel processo attraverso i relata di coimputati o imputati in procedimento connesso o collegato, non si pone in contrasto con la Carta Fondamentale.
Non si versa, infatti, nell'ipotesi in cui la persona che fornisce, per percezione diretta, la notizia si sottrae volontariamente, per libera scelta, all'interrogatorio da parte dell'imputato o del suo difensore (artt. Ili, comma quarto, Cost. e 526, comma 1 -bis, cod. proc. pen.). Si è di fronte, invece, all'impossibilità oggettiva di esaminare la fonte originaria, perché deceduta o perché riveste la qualità soggettiva di imputato.
Soccorre, al riguardo, il comma quinto dell'art. Ili Cost., che prevede espressamente una deroga al principio del contraddittorio nella formazione della prova, ove si verifichi una causa oggettiva esterna, normativamente regolata, che lo impedisca. L'espressione «accertata impossibilità di natura oggettiva», utilizzata nella norma costituzionale, implica che tale situazione formi oggetto di discussione tra le parti processuali, con la conseguenza che il contraddittorio viene recuperato attraverso il dibattito sull'esistenza in concreto del requisito dell'impossibilità oggettiva e la valutazione sull'attendibilità delle propalazioni de relato, considerate nel loro duplice aspetto di prova rappresentativa e di prova critica.
L'art. 195, comma 3, cod. proc. pen. legittima ('utilizzabilità dei relata, qualora l'esame del confidente diretto risulti impossibile per le ragioni non tassative ivi indicate (morte, infermità, irreperibilità) o per altre, come si è detto, alle prime assimilabili (fonte diretta che, rivestendo lo status di imputato, non si sottopone all'esame). Tale previsione codicistica è compatibile con quanto stabilito dall'art. Ili, comma quinto, Cost.
E' il caso di sottolineare che, con riferimento all’impossibilità ex art. 195, comma 3, cod. proc. pen. di esaminare la fonte diretta, non può evocarsi, come sostenuto in dottrina, la disciplina, per certi versi affine alla testimonianza indiretta, sulle letture dibattimentali di cui agli artt, 512 e 513 cod. proc. pen. e l'intervento al riguardo della Consulta sul divieto di testimonianza de auditu e di lettura ex art. 512 cod. proc. pen. delle dichiarazioni rese in precedenza dai prossimi congiunti dell'imputato che in dibattimento si avvalgono della facoltà di non rispondere (sent. n. 440 del 2000).
Quest'ultima disciplina è riferibile alla persona (testimone o parte) alla quale si contesta di avere reso una differente dichiarazione in un momento anteriore al dibattimento ma sempre nell'ambito procedimentale (indagini preliminari o udienza preliminare), mentre l'art. 195, comma 3, cod. proc. pen. prende in considerazione l'impossibilità di esaminare in dibattimento la persona che ha reso confidenze extraprocessuali sul fatto sub iudice alla persona che ne riferisce de relato.
12.2. Né contrasta con i principi convenzionali sui diritti umani una pronuncia di condanna che si fondi su più chiamate de auditu che, pur non asseverate, per oggettiva impossibilità, dalle fonti dirette, sono entrate nel circuito del contraddittorio e si riscontrano reciprocamente secondo le rigorose modalità di valutazione più sopra diffusamente precisate.
La sentenza della Corte EDU, G.C., 15/12/2011, Al Khawaja c. Regno Unito, pur esaminando casi che non riguardano, per vero, l'istituto della testimonianza indiretta ex art. 195 cod. proc. pen. o quello della chiamata in reità de relato, bensì quelli dell'eventuale utilizzabilità in dibattimento, ai fini della decisione, di dichiarazioni testimoniali rese nel corso delle indagini preliminari al di fuori di ogni contraddittorio, va ben al di là dei casi britannici presi in considerazione ed enuncia principi destinati ad avere ripercussioni nei singoli Stati.
I giudici di Strasburgo ammettono, in via eccezionale, deroghe al principio del contraddittorio: nel caso esaminato, assenza in dibattimento della teste diretta d'accusa, perché deceduta. Aggiungono che non sussiste tuttavia violazione della norma convenzionale, ove venga comunque assicurata, attraverso solide garanzie procedurali, l'equità complessiva del processo, bilanciando gli interessi concorrenti della difesa, della vittima del reato e dello Stato al perseguimento del colpevole. In sostanza, i giudici di Strasburgo precisano che la c.d. regola della "prova unica e determinante" non può essere applicata in modo eccessivamente rigido, sì da concretare, di fronte all'impossibilità del contraddittorio con la medesima, automaticamente la violazione dell'art. 6, comma 3, lett. d), CEDU: l'equità complessiva del processo è assicurata dal modo in cui le garanzie legali sono applicate, dall'estensione delle possibilità procedurali offerte alla difesa per compensare gli ostacoli con i quali deve confrontarsi, dalla maniera in cui il giudice conduce il procedimento. L'equità processuale conclusivamente è garantita, ove esistano forti garanzie procedurali idonee a controbilanciare la prova "sola e determinante", attraverso la forza probante di altre prove, che quanto più sono significative, tanto meno la prima potrà essere ritenuta "determinante" (nel caso esaminato, la Corte EDU ha ritenuto equo il processo celebratosi a carico di persona condannata per violenza sessuale, in quanto il relativo giudizio, pur in assenza della testimonianza in contraddittorio della vittima, era stato avallato dalle testimonianze indirette di altre due persone con le quali la vittima si era confidata subito dopo l'accaduto e dal modus operandi dell'imputato in occasione di analogo episodio criminoso in danno di altra persona).
Non contrasta con tali principi il particolare rigore richiesto dal nostro ordinamento nella valutazione dell'efficacia dimostrativa di plurime chiamate in correità o in reità de relato, che s'inseriscono nel circuito dialettico del processo.
13. Le argomentazioni sin qui sviluppate impongono, a norma dell'art. 173, comma 3, disp. att. cod. proc. pen., l'enunciazione dei seguenti principi di diritto:
- «la chiamata in correità o in reità de relato, anche se non asseverata dalla fonte diretta, il cui esame risulti impossibile, può avere come unico riscontro, ai fini della prova di responsabilità penale dell'accusato, altra o altre chiamate di analogo tenore»;
- «per il conseguimento del fine precisato si richiede: a) la valutazione positiva della credibilità soggettiva di ciascun dichiarante e dell'attendibilità intrinseca di ogni singola dichiarazione, in base ai criteri della specificità, della coerenza, della costanza, della spontaneità; b) l'accertamento dei rapporti personali tra il dichiarante e la fonte diretta, per inferirne dati sintomatici della corrispondenza al vero di quanto dalla seconda confidato al primo; c) la convergenza delle varie chiamate, che devono riscontrarsi reciprocamente in maniera individualizzante in relazione a circostanze rilevanti del thema probandum; d) l'indipendenza delle chiamate, nel senso che non devono rivelarsi frutto di eventuali intese fraudolente; e,) l'autonomia genetica delle chiamate, vale a dire la loro derivazione da fonti d'informazione diverse».
14. Passando ad esaminare la complessa vicenda processuale e le posizioni dei singoli ricorrenti, con riferimento alle censure dagli stessi mosse alla sentenza di merito, deve osservarsi quanto segue, anche alla luce, per la parte in cui assumono rilievo, dei principi di diritto innanzi enunciati.
15. La Corte rileva in limine e di ufficio, ai sensi dell'articolo 609, comma 2, cod. proc. pen. che sono estinti per prescrizione il delitto di favoreggiamento pluriaggravato, ascritto a Gioacchino Emmanuele al capo B, il delitto di soppressione di cadavere, ascritto a Giuseppe Sferrazza al capo FF, e i reati concernenti le armi, così come rispettivamente addebitati a tutti gli imputati ricorrenti (escluso Emmanuele) ai capi J, L, N, P, T, V, X, Z, BB e DD della rubrica.
15.1. Alla stregua, infatti, delle più favorevoli disposizioni introdotte dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251, applicabili ai sensi dell'art. 2, comma quarto, cod. pen. (non ricorre nella specie l'ipotesi dell'applicazione ultrattiva delle norme previgenti meno favorevoli, contemplata dalla norma di diritto intertemporale, contenuta nell'articolo 10, comma 3, della legge richiamata, in quanto la sentenza di primo grado è stata pronunciata in epoca successiva alla entrata in vigore della novella), i termini di prescrizione ordinaria sono scaduti, prima che fosse esercitata l'azione penale, in difetto di tempestivi atti di interruzione.
In particolare, per il delitto di favoreggiamento pluriaggravato, commesso tra il 13 gennaio e il luglio 1999 ed ascritto all'****, la prescrizione è maturata nel luglio 2005.
Per il delitto di soppressione di cadavere, commesso il 17 dicembre 1990 ed ascritto allo ****, il termine prescrizionale è spirato il 17 dicembre 1997.
Quanto ai delitti concernenti le armi cosi come rispettivamente addebitati agli imputati ricorrenti (ad eccezione dell'****), è sufficiente rilevare che, per il delitto di porto illegale aggravato di armi da guerra di cui al capo V e per quello di porto illegale aggravato di armi comuni da sparo di cui al capo BB, commessi in epoca più recente ed esattamente l'uno il 15 gennaio 1992 e l'altro il 24 ottobre 1995, la prescrizione si è compiuta rispettivamente il 15 gennaio 2007 e il 24 ottobre 2005.
I termini di prescrizione, pertanto, sono scaduti a fortiori sia in relazione ai delitti di porto illegale aggravato di armi da guerra e di armi comuni da sparo, commessi in epoche più remote, sia in relazione a tutti i delitti di detenzione illegale di armi da guerra ovvero di detenzione di armi comuni da sparo, coevi ai reati di porto, essendo queste ultime condotte sanzionate con pene detentive meno elevate, che comportano termini di prescrizione più brevi.
15.2. In carenza di alcuna delle ipotesi contemplate dall'articolo 129, comma 2, cod. proc. pen., ai fini dell'adozione delle più favorevoli formule assolutorie previste dalla norma - di siffatte ipotesi non è dato apprezzare la ricorrenza, né alcuna delle parti la ha prospettata -, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio colla pertinente declaratoria della estinzione del reato, nei confronti dell'****, nonché, limitatamente ai delitti concernenti le armi, nei confronti di tutti gli altri imputati ricorrenti e, ancora, nei confronti dello **** pure in relazione al delitto di soppressione di cadavere.
15.3. L'annullamento in parola comporta la eliminazione della pena di due anni di reclusione e di mille euro di multa inflitta al **** per i delitti di detenzione e di porto illegali di armi comuni da sparo (capo J). A tanto provvede direttamente questa Corte, ai sensi dell'articolo 620, comma 1, lettera /), cod. proc. pen.
15.4. Per ****, ****, **** e **** le pene detentive temporanee, già loro inflitte per i delitti concernenti le armi e per il delitto di soppressione di cadavere così come rispettivamente addebitati, concorrendo con quella perpetua, hanno inciso, ai sensi dell'articolo 72 cod. pen., sulla commisurazione della durata dell'isolamento diurno in misura che non è dato desumere dalle sentenze di merito.
Si rende, pertanto, necessaria la trasmissione degli atti ad altra sezione della Corte di assise di appello di Palermo per la rideterminazione della durata dell'isolamento diurno nei confronti dei succitati ricorrenti.
16. Merita accoglimento, nei termini e nei limiti che seguono, il terzo motivo di ricorso di **** sul punto del diniego delle circostanze attenuanti generiche.
La Corte d'assise di primo grado, accomunando incongruamente la posizione di **** a quella di altri appellanti, aveva negato le circostanze attenuanti generiche sulla base del rilievo dei «gravissimi precedenti giudiziari» del giudicabile e, in proposito, aveva fatto generico rinvio ai «rispettivi certificati del casellario» (v. sentenza, p. 409).
Tale motivazione era stata diffusamente censurata dal difensore dell'imputato in sede di appello (v. i motivi di gravame recanti la data del 18 settembre 2009, pag. 22), in quanto manifestamente contraddetta - tra l'altro - proprio dalle documentali risultanze del certificato penale: il ****, incensurato all'epoca del fatto di sangue, risulta gravato esclusivamente da una sola sentenza di applicazione della pena su richiesta del 25 gennaio 1993 (irrevocabile dal 29 aprile 1993) in relazione al delitto di ricettazione commesso nel novembre 1982, con riconoscimento di circostanze attenuanti generiche e con concessione della sospensione condizionale della esecuzione della pena (dieci mesi, venti giorni di reclusione e lire 500.000 di multa).
La sentenza in verifica, assolutamente silente sul punto in esame, è venuta meno all'obbligo di motivazione di cui all'art. 546, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., il che comporta l'annullamento della decisione nei confronti di ****, limitatamente alla omessa pronuncia sul motivo di gravame relativo alle invocate circostanze attenuanti generiche, e il rinvio per nuovo giudizio al riguardo ad altra sezione della Corte di assise di appello di Palermo.
17. Sono fondati i ricorsi di **** **** e **** ****, nella parte in cui denunciano la violazione delle regole di valutazione della prova in relazione al residuo reato di concorso nell'omicidio di **** **** (capo Y).
17.1. L'apparato argomentativo su cui riposa la sentenza in verifica non è in linea con i principi di diritto più sopra enunciati e si rivela comunque manifestamente illogico.
17.2. Ed invero, la principale fonte di prova a carico dei ricorrenti è individuata nella chiamata in correità de relato operata da **** ****, autore materiale del delitto, il quale aveva riferito, oltre che in ordine alle modalità esecutive dello stesso (per cognizione diretta), quanto appreso dal **** e dal **** sulla causale del fatto di sangue: gli ****, che praticavano attività usuraria, avrebbero sollecitato il reggente di **** **** ad eliminare il debitore inadempiente ****, rinunciando, in cambio, ad altro credito che vantavano verso tale **** ****, uomo d'onore e braccio destro del ****.
Tale prova dichiarativa, pur ritenuta dai giudici di merito, quanto meno nel suo nucleo essenziale, sostanzialmente attendibile (valutazione ~ questa - non censurabile in questa sede), non offre dettagli sui termini precisi dell'accordo che sarebbe intercorso tra le parti e, quindi, sulla concreta efficienza eziologica della condotta degli ****; soprattutto non può ritenersi riscontrata, in maniera individualizzante, dalle altre prove dichiarative acquisite.
17.3. La chiamata in reità de relato fatta da **** ****, che - a suo dire - aveva partecipato direttamente ad un primo tentativo, non andato a buon fine, di uccidere il Mancuso ed aveva appreso successivamente dai diretti protagonisti (****, ****, ****) l'avvenuta esecuzione del delitto e dal ****, in particolare, anche il movente, individuato nel fatto che il **** era stato ucciso "per i soldi che doveva ad **** ****", non integra il riscontro individualizzante richiesto dall'art. 192, comma 3, cod. proc. pen..
I contenuti di questa seconda chiamata indiretta, per così come esposti nella sentenza di merito, si rivelano manifestamente illogici: alle pagine 264 e 308, infatti, si fa riferimento, in modo perentorio, ad una chiamata esplicita sul mandato ad uccidere; alle pagine 292, 293 e 294, invece, si evoca quanto riferito genericamente al collaborante dal **** (a sua volta, de relato dal ****) sulla causale del delitto e si afferma che il **** scontava un deficit di conoscenze rispetto a quelle dell'emergente **** ****, tenuto in grande considerazione dal boss di Santa Elisabetta, il che spiegherebbe perché il primo, a differenza del secondo, non avrebbe fornito alcun particolare in ordine alla vicenda **** e alle ripetute pressioni fatte dagli **** sul ****.
La sentenza, in sostanza, passa disinvoltamente dalla prima affermazione, priva - peraltro - di carattere individualizzante, alla seconda, che, pur essendo individualizzante, in verità per il solo **** **** e non anche per **** ****, è assolutamente generica e, quindi, inidonea a fare da riscontro alla più precisa ed articolata chiamata de auditu fatta da **** ****.
Né va sottaciuto che la fonte primaria di riferimento delle due citate chiamate indirette s'identifica, in definitiva, nella stessa persona: i retata del ****, infatti, sono di terza mano, avendo avuto ad oggetto le confidenze del **** su quanto a quest'ultimo aveva riferito il ****, fonte di informazione anche di **** ****. Difetta, pertanto, l'autonomia "genetica" delle due chiamate.
17.4. Anche la chiamata in reità operata dal collaborante **** ****, per quanto individualizzante in relazione alla posizione degli ****, non è autonoma ed è affetta da circolarità, in quanto il dichiarante aveva riferito confidenze fattegli del fratello ****, che - come si è detto - aveva appreso, a sua volta, la causale dell'omicidio dal ****.
17.5. Le propalazioni del collaborante **** **** contraddicono tale causale e ne individuano, sempre de relato da ****, altra, che esclude il coinvolgimento dei fratelli **** nella vicenda delittuosa: il **** avrebbe commissionato l'omicidio del ****, per essersi costui reso responsabile, nell'esercizio della sua attività imprenditoriale, di varie truffe in danno di diversi agrigentini,
17.6. Le dichiarazioni dei collaboranti ****, **** e ****, per così come sintetizzate nella sentenza impugnata, sono estremamente generiche e non offrono alcun chiarimento circa il ruolo avuto dai ricorrenti **** nel fatto di sangue di cui si discute.
17.7. Deve, inoltre, osservarsi che anche la prova logica, affidata al criterio tradizionale e ormai ripudiato del cui prodest, sulla quale pure fa leva la Corte territoriale, si rivela - da sola - assai debole come riscontro.
Illogico è l'argomento (pag. 298) che i soli **** avevano interesse alla eliminazione del ****, in quanto debitore inadempiente, e che non sussisteva un autonomo interesse in capo al solo ****, nel soddisfare la richiesta di aiuto proveniente dai primi, nonostante la riferita connessione con la vicenda della compensazione del debito del **** (fedelissimo del boss) verso gli stessi ****.
Alla luce dei dati di fatto evidenziati nella sentenza in verifica, la logica porterebbe invece a ritenere che, se un movente punitivo era configurabile per il mancato pagamento del debito da parte del ****, tale finalità - da realizzarsi comunque attraverso uomini di "cosa nostra" e quindi nell'ottica, propria di tale consorteria, del "ripristino dell'ordine" - non poteva che riguardare, in via principale ed esclusiva, lo stesso ****, capo mafioso competente per territorio. Si omette, in sostanza, di esplorare il ruolo eventualmente autonomo ed assorbente spiegato da quest'ultimo nella vicenda in esame, anche in considerazione del difetto di elementi univoci di giudizio sul contenuto specifico e sulla portata effettiva delle pressioni esercitate dai fratelli ****, il cui interesse, per quanto è dato comprendere, era quello di recuperare il credito e non quello di eliminare il debitore.
17.8. Ulteriore profilo di manifesta illogicità della sentenza di merito è ravvisabile nella parte in cui ipotizza (pag. 305), pur in assenza di qualunque riferimento da parte dei collaboranti, che il procedimento penale per usura instauratosi a carico degli **** presso la Procura della Repubblica di Caltanissetta, a seguito della denunzia sporta dal ****, costituirebbe riscontro alle chiamate in correità o in reità de relato.
Ed invero, anche se in sentenza si evidenzia lo stretto rapporto cronologico tra il rinvio a giudizio degli **** per il delitto di usura (2 settembre 1992) e l'omicidio del **** (28 settembre 1992); si afferma, inoltre, che costui - secondo le dichiarazioni rese nell'immediatezza della denunzia - sarebbe stato destinatario di forti pressioni e di minacce gravi da parte degli ****, i quali avrebbero fatto ricorso anche alla formazione di documenti falsi, nella prospettiva di guadagnarsi l'impunità; si evoca, infine, la nuova normativa (d.l. 8 giugno 1992, n. 306) in tema di usura e di confisca obbligatoria di beni nella disponibilità del condannato per tale delitto; tutto ciò non consente di stabilire alcun diretto collegamento tra i ricorrenti e l'evento delittuoso, sì da integrare un decisivo riscontro individualizzante, ma introduce una possibile ed ulteriore causale dell'omicidio, quale reazione alla denunzia sporta dal ****.
E' il caso di sottolineare che, in tema di prova del mandato omicidiario, la mera indicazione di un possibile "interesse" dell'imputato al delitto, pur spiegando una funzione orientativa, non può costituire, di per sé sola, riscontro estrinseco ed individualizzante della chiamata in correità de relato. S'impone comunque la ricerca di seri e consistenti elementi fattuali, sia pure indiretti, che siano univocamente indicativi dello specifico e concreto contributo concorsuale dell'imputato nella realizzazione del crimine, in coerenza col complessivo quadro probatorio, sì da confluire in una ricostruzione logica e unitaria del fatto anche sotto il profilo della riferibilità soggettiva.
17.9. La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata nei confronti di **** **** ed **** ****, in relazione al residuo delitto di cui al capo Y, con rinvio, per nuovo giudizio, ad altra sezione della Corte d'assise d'appello di Palermo, che dovrà tenere conto dei rilievi di cui innanzi e adeguarsi ai principi di diritto enunciati.
18. I ricorsi di ****, ****, ****, **** e **** sono nel resto infondati.
La sollecitata verifica di legittimità sul formulato giudizio di colpevolezza dei predetti in ordine ai residui reati loro rispettivamente addebitati sarà condotta, per esigenze di sintesi e di maggiore chiarezza, analizzando le singole posizioni ed accorpando - se del caso - i motivi di censura comuni alle medesime.
19. Quanto al ricorso di ****, non hanno giuridico pregio la negativa del dolo omicida e la correlata censura all'accertamento operato in proposito dai giudici di merito.
Il peculiare contributo logistico e di supporto offerto dal ricorrente alla concorsuale azione omicida (colla fornitura dei veicoli e delle armi ai sicari) disvela, alla stregua del contesto criminale acciarato, non soltanto la materialità del reato, ma anche la indiscutibile ricorrenza dell'elemento psicologico.
Ed invero, la sentenza in verifica, nell'illustrare la posizione di **** **** quale partecipe dell'articolazione racamultese di "cosa nostra", col ruolo di custode delle armi di cui il sodalizio disponeva, evidenzia - alla luce delle convergenti dichiarazioni dei collaboratori di giustizia - la presenza del predetto agli incontri con i componenti della squadra di killers, ai quali consegnava le armi e/o la vettura da utilizzare per l'esecuzione del delitto e le riprendeva in custodia dopo la commissione dello stesso.
Una tale condotta, come correttamente sottolineano i giudici di merito, è chiaramente rivelatrice del consapevole e attivo contributo causale offerto dall'imputato ai singoli fatti di sangue, che soggetti di volta in volta incaricati andavano ad eseguire, assumendo importanza strategica il detto apporto e non rilevando la mancata partecipazione (per lo meno non risulta) del medesimo imputato alle riunioni nelle quali la singola azione delittuosa era stata decisa.
Né hanno fondamento le obiezioni ulteriori del ricorrente circa la parziale non coincidenza tematica delle rappresentazioni fattuali dei chiamanti in correità.
La reciproca conferma della attendibilità delle dichiarazioni delle persone imputate in procedimenti connessi a norma dell'articolo 12 cod. proc. pen. ovvero imputate di reato collegato ai sensi dell'articolo 371, comma 2, lett. b), cod. proc. pen., non esige che le propalazioni attengano all'idem dictum; è bensì sufficiente che i fatti rappresentati siano in rapporto di univoca implicazione rispetto alla specifica condotta criminosa da provare.
Non coglie nel segno, in relazione al duplice omicidio di **** e **** **** **** (capo K), la deduzione del ricorrente circa la sostituzione - operata in corso di esecuzione della azione delittuosa - della vittima designata (non reperita) con i predetti **** ****, inclusi - peraltro - nella lista degli antagonisti della cosca che dovevano essere eliminati.
Del reato diverso (esclusivamente sotto il profilo del soggetto passivo) risponde infatti, a pieno titolo, ****, in quanto l'evento fu conseguenza della sua concorsuale azione delittuosa.
Né va sottaciuto, infine, che si rivelano del tutto generici i rilievi concernenti l'asserita insufficienza del materiale probatorio sul quale ha fatto leva la sentenza di merito, per supportare il giudizio di responsabilità in ordine all'omicidio di **** **** (capo M) e al tentato omicidio di **** **** (capo 0).
20. Privi di pregio sono i rilievi comuni ai ricorrenti **** e ****- in relazione al tentato omicidio di **** **** (capo I), addebitato ad entrambi, e all'omicidio di **** **** (capo M), addebitato al primo - circa la modificazione dell'assetto di potere e di comando progressivamente intervenuta nel corso del tempo in seno alla cosca di ****, con la esautorazione dei c.d. "vecchi uomini dì onore", nella cerchia dei quali erano compresi i ridetti giudicabili.
La compartecipazione degli imputati - morale e materiale per il delitto tentato loro congiuntamente ascritto e semplicemente morale per quello consumato, ascritto al **** - siccome accertata nella ricostruzione operata dai giudici di merito prescinde, invero, dalla collocazione dei giudicabili al vertice della catena di comando della cosca di ****.
Ed anzi, il concorso di **** e **** nei reati in parola appare, per vero, affatto coerente col coinvolgimento della più ampia cerchia di associati in quelle specifiche attività delittuose che rivestivano importanza strategica per il gruppo mafioso.
20.1. Altrettanto infondate sono le obiezioni di ****, relativamente all'omicidio di **** ****, e di ****, relativamente al tentato omicidio di **** ****, in ordine al contributo psicologico nella compartecipazione delittuosa.
Invero, quanto all'omicidio del ****, il finale intervento di **** per il perfezionamento della deliberazione omicida (nella riunione alla quale **** non partecipò) non esclude certamente, come sottolinea la sentenza in verifica, la pregressa partecipazione del ricorrente, in occasione di altri incontri ai quali era certamente presente, alla formazione della concorsuale decisione delittuosa.
Né, quanto al tentato omicidio del ****, l'impulso di **** (peraltro, in precedenza, rimasto senza seguito, In quanto i racalmutesi, come ha opportunamente ricordato la Corte territoriale, fino a che non fu perpetrato il triplice omicidio del 23 luglio 1991, avevano disatteso l'ordine del reggente del mandamento) vale certo ad assorbire, sì da renderla irrilevante, la determinazione omicida di **** e degli altri sodali che diedero esecuzione all'attentato.
20.2. La esclusione della circostanza aggravante della premeditazione era stata sollecitata dal **** con il terzo motivo dell'atto di appello (v. p. 20 del gravame), del quale il ricorrente denunzia la omessa considerazione da parte del Giudice distrettuale, ribadendo la carenza dell'elemento cronologico della premeditazione.
La palese infondatezza della negazione difensiva, alla stregua del tempo trascorso tra la deliberazione del 24 luglio 1991 e la esecuzione dell'attentato il successivo 11 agosto, esimeva la Corte territoriale dal dare specifico conto della reiezione del motivo di gravame, affatto implicita nell'accertamento della tempistica della concorsuale azione delittuosa (Sez. 4, n. 24973 del 17/04/2009, Ignone, Rv. 244227).
20.3. Deve essere disattesa la doglianza del ricorrente **** in relazione al denegato riconoscimento del vizio parziale di mente.
La Corte territoriale dà conto della propria decisione e della negativa valutazione del responso del consulente tecnico psichiatrico della difesa.
Non è assolutamente decisivo il dato anamnestico relativo al trattamento farmacologico extra-murario, alla stregua del risolutivo rilievo dei giudici di merito circa la mancanza di alcuna prova documentale della somministrazione di terapie psichiatriche all'epoca dei fatti e negli anni successivi, fino alla data della cattura e per l'anno seguente.
21. Le residue censure di ****, di **** e di **** sono manifestamente infondate.
Non ricorre - alla evidenza - il vizio della violazione di legge:
- né sotto il profilo della Inosservanza (per non aver il giudice a quo applicato una determinata disposizione in relazione all'operata rappresentazione del fatto corrispondente alla previsione della norma, ovvero per averla applicata sul presupposto dell'accertamento di un fatto diverso da quello contemplato dalla fattispecie);
- né sotto il profilo della erronea applicazione, avendo la Corte territoriale esattamente interpretato le norme applicate, alla luce dei principi di diritto fissati da questa Corte, né, oltretutto, opponendo il ricorrente alcuna alternativa interpretazione a quella correttamente seguita nel provvedimento impugnato.
Neppure palesemente ricorre vizio alcuno della motivazione.
In ordine all'accertamento della condotta associativa e delle condotte concernenti i delitti di sangue, alla valutazione delle fonti dichiarative, alla convergenza delle rispettive rappresentazioni dei fatti oggetto del giudizio e all'apprezzamento delle inevitabili discrasie la Corte di assise di appello dà conto adeguatamente delle ragioni della propria decisione, sorretta da motivazione congrua, affatto immune da illogicità di sorta, sicuramente contenuta entro i confini della plausibile opinabilità di apprezzamento e valutazione e, pertanto, sottratta a ogni sindacato in sede di legittimità.
Questa Corte non rileva nel tessuto motivazionale del provvedimento impugnato:
- né il vizio della contraddittorietà della motivazione, che consiste nel concorso di proposizioni (testuali ovvero extra testuali, contenute in atti del procedimento specificamente indicati dal ricorrente), concernenti punti decisivi e assolutamente inconciliabili tra loro, tali che l'affermazione dell'una implichi necessariamente e univocamente la negazione dell'altra e viceversa;
- né il vizio della illogicità manifesta, che consegue alla violazione di alcuno degli altri principi della logica formale o dei canoni normativi di valutazione della prova ai sensi dell'articolo 192 cod. proc. pen., ovvero alla invalidità (o scorrettezza) dell'argomentazione per carenza di connessione tra le premesse della abduzione o di ogni plausibile nesso di inferenza tra le stesse e la conclusione.
Epurò i rilievi, le deduzioni e le doglianze espressi dai ricorrenti, benché inscenati sotto la prospettazione di vitìa della motivazione, si sviluppano tutti nell' orbita delle censure di merito, sicché, consistendo in motivi diversi da quelli consentiti dalla legge con il ricorso per cassazione, sono inammissibili ai sensi dell'articolo 606, comma 3, cod. proc. pen.
22. I motivi di censura articolati da **** **** ripropongono le medesime doglianze formulate in sede di appello, alle quali la Corte di merito, secondo il ricorrente, non avrebbe dato adeguata e persuasiva risposta.
Tale assunto non è fondato.
E' sufficiente sottolineare che la sentenza in verifica, come si evince da quanto sintetizzato nel "ritenuto in fatto", riposa su un percorso argomentativo che, facendo buon governo delle regole di valutazione della prova, dà conto, senza incorrere nei vizi di contraddittorietà o di manifesta illogicità della motivazione, delle ragioni che giustificano il giudizio di responsabilità del ricorrente in relazione a ciascuno dei plurimi fatti di sangue addebitatigli, evidenziando causale, mandanti, esecutori e ruolo specifico svolto dal medesimo ricorrente.
Il materiale probatorio utilizzato, costituito da plurime e convergenti chiamate in correità o in reità per io più de retato e, in alcuni casi, anche dirette, risulta essere stato correttamente gestito in coerenza con i principi di diritto sopra enunciati: attendibilità intrinseca, indipendenza, autonomia genetica di ogni singolo apporto dichiarativo e conseguente valutazione complessiva inferenziale del vari dati rappresentativi acquisiti.
E' il caso di ricordare, in estrema sintesi, quanto la sentenza di merito evidenzia - per ciascun delitto - sulla valenza probatoria delle varie chiamate.
La prova dell'omicidio di **** ****, individuata nell'attendibile e convergente apporto dichiarativo de auditu dei collaboranti ****, **** **** e **** ****, le cui fonti dirette di riferimento sono diverse, è coerente con i dati oggettivi della vicenda accertati dagli investigatori nell'immediatezza del fatto e non risulta, peraltro, essere stata specificamente contestata, con rilievi precisi, neppure in sede di appello.
La prova dell'omicidio di **** **** è offerta dalle attendibili, autonome e convergenti chiamate in reità per lo più de relato e solo in parte dirette, provenienti da ****, **** ****, **** **** e **** ****. In ordine all'omicidio di **** ****, si fa leva sulle dichiarazioni accusatorie dirette di **** ****, corroborate da quelle de auditu di ****, **** **** e **** (fonti primarie non coincidenti).
Quanto al duplice omicidio di **** e **** **** ****, v'è la chiamata dì correo diretta operata dal ****, che aveva personalmente assistito all'arrivo dei tre killers, tra i quali il ****, ed aveva consegnato agli stessi le armi e l'autovettura utilizzate per l'esecuzione dei delitti; tale chiamata è riscontrata da quelle de relato provenienti da **** **** e **** (fonti primarie di riferimento diverse).
A supportare il giudizio di responsabilità in ordine al tentato omicidio di **** **** soccorrono la chiamata in correità diretta operata da **** **** e quelle de relato di **** e **** ****.
In relazione all'omicidio di **** **** **** e al tentato omicidio di **** ****, il rilievo del ricorrente circa l'asserita circolarità delle dichiarazioni accusatorie a suo carico è pedissequamente riproduttivo del corrispondente motivo di appello, al quale la sentenza in verifica dà ampia ed esaustiva risposta: in relazione al primo delitto, confessione con contestuale chiamata in correità operata da **** ****, materiale esecutore insieme al ricorrente, e chiamata di correo diretta proveniente da **** ****, che aveva curato l'organizzazione dell'agguato; in relazione al secondo delitto, attendibili e convergenti chiamate in correità dirette provenienti da **** e **** ****, nonché chiamata in reità de relato operata da **** **** (fonte d'informazione ****).
23. Prive di pregio sono anche le censure che il ricorrente **** articola in relazione al formulato giudizio di responsabilità sui diversi fatti di sangue addebitatigli.
23.1. Quanto all'omicidio di **** ****, la sentenza di merito dà atto della peculiare convergenza delle chiamate in reità de relato provenienti da **** e **** **** (le cui rispettive fonti d'informazione erano diverse), i quali non solo avevano fornito precise indicazioni sull'identità degli esecutori materiali del delitto (**** **** e ****, con la collaborazione del ****), ma avevano anche aggiunto di avere appreso la medesima notizia dalla viva voce del ricorrente, che, in occasione di alcuni incontri, aveva fatto inequivoco riferimento, in termini ostentatamente volgari o apparentemente schivi, al suo diretto coinvolgimento nel delitto.
La sentenza, inoltre, fornisce una motivazione adeguata e immune da vizi logici nella parte in cui evidenzia che la diversa versione fornita dal collaborante **** **** (il quale aveva precisato di non essere stato informato dal fratello **** circa l'implicazione dello **** nell'omicidio) ben poteva essere spiegata col diverso grado di confidenza che il predetto aveva col fratello **** rispetto a quella che caratterizzava il rapporto di quest'ultimo con l'altro fratello ****, e ciò in considerazione della giovane età di **** e della sua ancora scarsa intraneità alla "famiglia" mafiosa. L'argomento, contrariamente a quanto denunciato in ricorso, non è smentito da altro passaggio della motivazione in cui, pur dandosi atto che l'avvicinamento del **** al sodalizio era avvenuto alla fine dell'anno 1990, si afferma che tale evento non valeva certo a stabilire un punto fermo circa la natura e l'intensità del rapporto interpersonale tra i due fratelli, conclusione - questa - non connotata da manifesta illogicità. Non risponde, infine, al vero che **** **** sarebbe stato una delle fonti d'informazione di **** ****, atteso che la sentenza individua tali fonti in **** **** e ****, entrambi implicati direttamente nel delitto in esame.
23.2. Quanto all'omicidio di **** ****, le doglianze del ricorrente reiterano gli argomenti già prospettati in sede di appello ed oggetto di adeguata e razionale risposta da parte del Giudice distrettuale.
Il giudizio di responsabilità del ricorrente in ordine a tale delitto è sorretto, infatti, da un percorso argomentativo che fa buon governo dei criteri di valutazione della prova di cui all'art. 192 cod. proc. pen. e si rivela immune da vizi logici. La base probatoria è individuata: a) nella chiamata di correo formulata dal ****, che aveva indicato **** come partecipante, assieme agli altri componenti della "famiglia" di ****, alla decisione di eliminare la vittima designata; b) nella chiamata di correo proveniente da **** **** e convergente, nel suo nucleo centrale e più qualificante, con la prima, sì da riscontrarla in modo individualizzante. Tale punto nodale della motivazione rende eccentrico e non rilevante il denunciato vizio di motivazione sulla individuazione delle persone che si sarebbero recate dal reggente di Santa Elisabetta (Fragapane) per sollecitare la preventiva autorizzazione all'esecuzione del delitto.
23.3. Anche in relazione al tentato omicidio di **** ****, le doglianze del ricorrente non colgono nel segno.
La sentenza impugnata pone a base del formulato giudizio di responsabilità le convergenti chiamate in correità provenienti da ****, **** **** e **** ****, che concordemente avevano riferito sulla deliberazione adottata all'unanimità nella riunione del 24 luglio 1991, alla quale aveva partecipato anche il ricorrente, di dare esecuzione al delitto; nonché su una serie di comportamenti propedeutici alla stessa (incarico allo **** di accorciare le canne di un fucile, circostanza riferita, sia pure in termini rappresentativi non perfettamente coincidenti, sia da **** **** che da ****). La sentenza, inoltre, si fa carico di precisare che sul ruolo svolto da **** nella fase immediatamente successiva alla commissione del delitto (recupero dei killers) aveva riferito nel dettaglio il solo ****, le cui dichiarazioni sul punto, pur non espressamente riscontrate, non erano tuttavia contraddette da talune indicazioni sintomatiche fornite dai fratelli **** (cfr. pag. 199).
Trattasi di motivazione che, in quanto adeguata, logica ed in linea con i criteri di valutazione della prova, non è censurabile sotto il profilo della legittimità.
23.4. A non diversa conclusione deve pervenirsi in relazione al tentato omicidio di **** ****.
La sentenza impugnata, invero, riposa su un percorso argomentativo che, apprezzando e valutando, in maniera adeguata e logica, le emergenze processuali, dà conto delle ragioni che giustificano il giudizio di colpevolezza al quale perviene e si sottrae, pertanto, a qualunque censura di legittimità. Fa leva, in particolare, con riferimento alla posizione del ricorrente, sulla chiamata in correità diretta proveniente da **** **** e su quelle in reità de relato operate da **** e **** ****, individuandone, nell'ambito di una coordinata e complessiva valutazione, i punti di convergenza rilevanti e coerenti
- peraltro - con altri risconti oggettivi acquisiti in sede di accertamenti di polizia giudiziaria.
23.5. Prive di pregio sono le doglianze sulla ritenuta partecipazione associativa del ricorrente, additato concordemente come "avvicinato" a "cosa nostra" dai collaboratori di giustizia ****, **** ****, **** ****, **** e ****.
Il ricorrente contesta che la qualifica attribuitagli possa integrare il reato di partecipazione all'associazione mafiosa.
Tale tesi, nella sua perentoria affermazione, non può essere condivisa.
Devesi, in contrario, precisare, come già sottolineato dalla Corte territoriale, che il ruolo di "avvicinato" non deve essere apprezzato nel suo aspetto meramente formale, bensì avendo riguardo ai contenuti sostanziali che lo caratterizzano, vale a dire alla manifestazione della volontà del soggetto di mettersi comunque a disposizione dell’associazione mafiosa e di svolgere nell'interesse della stessa una concreta attività finalizzata - di fatto - al conseguimento del programma criminoso comune. In definitiva, ai fini della configurazione del reato In esame, non rilevano la gerarchia interna al sodalizio criminale, la posizione del soggetto formalmente affiliato o semplicemente "avvicinato", ma assume significato decisivo il ruolo dinamico e funzionale che l'interessato assume e che sia univocamente indicativo della partecipazione al fenomeno associativo. In quest'ultima ipotesi, la persona "avvicinata" deve ritenersi ormai inserita, anche se non ancora a pieno titolo attraverso la rituale investitura di "uomo di onore", nell'associazione criminosa.
Ciò posto, correttamente la sentenza in verifica, dopo avere dato atto, sulla base del materiale probatorio acquisito, della molteplicità delle condotte delinquenziali poste in essere dal ricorrente nel corso di un lungo arco temporale e tutte funzionali al raggiungimento degli obiettivi perseguiti dal sodalizio mafioso, ne inferisce la partecipazione a questo del ricorrente.
23.6. Infondate, infine, sono le censure relative alla ravvisata circostanza aggravante della premeditazione, a quella - ove contestata - ad effetto speciale di cui all'art. 7 d.l. n. 152 del 1991 e al diniego delle circostanze attenuanti generiche.
Quanto alla premeditazione, correttamente la sentenza di merito evidenzia la ricorrenza dei relativi requisiti, essendo stato accertato, in relazione a ciascun fatto di sangue, che alla relativa deliberazione di darvi esecuzione avevano fatto seguito una accurata fase preparatoria ed organizzativa, sintomo di radicamento e persistenza costante, per apprezzabile lasso di tempo nella psiche dell'agente, del proposito omicida.
Quanto all'aggravante ad effetto speciale, deve preliminarmente rilevarsi, in relazione all'omicidio di **** ****, che la doglianza non risulta essere stata dedotta anche con i motivi di appello, così come riportati a pag. 251 della sentenza (non v'è contestazione sul punto del ricorrente), con l'effetto che è inammissibile ex art. 606, comma 3, cod. proc. pen.. In ogni caso, la censura, ritualmente introdotta in relazione agli ulteriori fatti di sangue contestati, è infondata, considerato che tutti i delitti s'inseriscono nella logica della guerra di mafia in atto a **** tra "cosa nostra" e la "stidda" ed erano chiaramente finalizzati ad agevolare l'attività della prima, posta in crisi dall'attacco concentrico della seconda.
Il diniego delle circostanze attenuanti generiche, in quanto scelta discrezionale del giudice di merito, finalizzata a calibrare, in presenza di apprezzabili elementi positivi di valutazione, il trattamento sanzionatorio, si sottrae a qualunque censura di legittimità. La Corte territoriale giustifica logicamente la propria scelta, stigmatizzando l'estrema gravità dei fatti contestati e la negativa personalità dell'imputato.
24. E' fondato il ricorso della parte civile **** ****.
Osserva la Corte che **** ****, **** **** e **** **** risultano essere stati condannati, con la sentenza di primo grado che li riteneva colpevoli dell'omicidio di **** **** (capo S), al risarcimento dei danni e alle relative spese di costituzione e rappresentanza in favore di sei parti civili, tra cui la ricorrente.
Nel giudizio d'appello, è stata confermata la responsabilità di **** e **** (Castronovo non era appellante), con conseguente condanna dei medesimi alla rifusione delle ulteriori spese sostenute nel grado dalle parti civili **** ****, **** ****, **** ****, **** **** e **** ****. Non è menzionata **** ****, regolarmente costituita e rappresentata, come risulta dalla intestazione della sentenza di appello; trattasi di evidente disattenzione in cui si è incorsi nella redazione del dispositivo.
S'impone, pertanto, l'annullamento senza rinvio della sentenza nei confronti del **** e di **** ****, limitatamente all'omessa condanna solidale dei medesimi alla rifusione delle spese sostenute nel secondo grado di giudizio da **** ****, spese che vanno determinate nella ulteriore misura indicata in dispositivo ed in aumento ovviamente a quella già stabilita dalla Corte di merito.

                                                                                                  P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di **** ****, in ordine al delitto ascrittogli, perché estinto per prescrizione; nonché nei confronti di **** ****, **** ****, **** ****, **** ***, **** ****, **** **** **** e **** ****, limitatamente ai delitti concernenti le armi di cui ai capi J, L, N, P, T, V, X, Z, BB, DD e al delitto di soppressione di cadavere di cui al capo FF, come ai predetti rispettivamente ascritti, perché estinti per prescrizione.
Elimina la pena di anni due di reclusione ed euro mille di multa, inflitta al **** in relazione ai delitti di cui al capo J.
Dispone trasmettersi gli atti ad altra sezione della Corte d'assise d'appello di Palermo per la rideterminazione della durata dell'isolamento diurno inflitto all'****, al ****, al **** e allo ****.
Annulla la sentenza nei confronti di **** **** e **** **** in ordine al residuo delitto di cui al capo Y loro ascritto, nonché nei confronti di ****, limitatamente al diniego delle circostanze attenuanti generiche, e rinvia ad altra sezione della Corte d'assise d'appello di Palermo per nuovo giudizio sul capo e sul punto anzidetti.
Rigetta nel resto i ricorsi dell'****, del ****, del ****, del **** e dello ****.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti del **** e di **** ****, limitatamente all'omessa condanna solidale dei medesimi alla rifusione delle spese del secondo grado del giudizio a favore della parte civile **** ****, spese che determina nella misura di ulteriori euro cinquecento, oltre accessori come per legge.
Così deciso il 29/11/2012