Le Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione hanno affermato il seguente principio: “L’applicazione di una pena accessoria extra o contra legem da parte del giudice della cognizione può essere rilevata, anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza, dal giudice dell’esecuzione, purchè essa sia determinata per legge (o determinabile, senza alcuna discrezionalità) nella specie e nella durata, e non derivi da un errore valutativo del giudice della cognizione”. 


 RITENUTO IN FATTO
1. Con ordinanza in data 17 settembre 2013, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma, in funzione di giudice dell'esecuzione, rigettava l'istanza proposta da **** ****, diretta ad ottenere la rideterminazione della pena accessoria della interdizione perpetua dai pubblici uffici, applicatagli con la sentenza del 21 febbraio 2007 del Giudice della udienza preliminare del Tribunale di Roma, irrevocabile il 26 ottobre 2011, in quella della interdizione temporanea.
Nel motivare il provvedimento ha rilevato il G.i.p. che:
- l'istante era stato condannato, all'esito di giudizio abbreviato, per i delitti di cui agli artt. 609-bis, 317 e 527 cod. pen., alla pena complessiva di anni tre di reclusione così determinata: pena-base per il reato più grave, individuato nel delitto di cui all'art. 609-bis cod. pen., anni sei di reclusione, ridotti ad anni quattro e mesi cinque per le concesse circostanze attenuanti generiche, aumentati ad anni quattro e mesi sei a titolo di continuazione per i rimanenti reati, senza ripartizione della pena tra gli stessi, e ridotti, infine, alla indicata pena finale per l'applicazione della diminuente per la scelta del rito, con la pena accessoria della interdizione perpetua dai pubblici uffici;
- ai fini dell'applicazione della detta pena accessoria si doveva tener conto della pena principale irrogata in concreto, come risultante a seguito della diminuzione effettuata per la scelta del rito;
- la condanna per il reato di cui all'art. 317 cod. pen. comportava, ai sensi dell'art. 317-bis cod. pen., l'interdizione perpetua dai pubblici uffici; mentre conseguiva quella temporanea se per circostanze attenuanti veniva inflitta la reclusione per un tempo inferiore a tre anni;
- la durata della pena accessoria temporanea, non espressamente determinata dalla legge per il reato di riferimento, aveva una durata uguale a quella della pena principale inflitta, alla stregua della previsione dell'art. 37 cod. pen.;
- nella specie, mentre per il reato di cui all'art. 609-bis cod. pen., individuato come reato più grave, la cui pena, ridotta per la diminuente del rito, era inferiore a tre anni di reclusione, non era prevista l'applicazione della pena accessoria della interdizione dai pubblici uffici per cinque anni (artt. 28 e 29 cod. pen.), l'omessa determinazione, a opera del giudice della cognizione, della pena principale da irrogarsi per il reato di cui all'art. 317 cod. pen. non consentiva di stabilire "in astratto" la durata perpetua o temporanea della pena accessoria, né di parametrare la seconda alla pena principale;
- l'intervento sulla pena accessoria in sede esecutiva, ammesso da parte della giurisprudenza di legittimità, richiedeva, anche ove condiviso, la predeterminazione per legge della stessa nella specie e nella durata, dovendosi vagliare nel solo giudizio di cognizione l'applicazione o determinazione delle pene accessorie implicanti una specifica statuizione;
- la richiesta, che sottendeva, quanto alla verifica della legittimità della pena accessoria applicata, un giudizio di merito, del tutto omesso nella sentenza divenuta irrevocabile, quanto alla determinazione della pena per il delitto di cui all'art. 317 cod. pen., non poteva, pertanto, trovare risposta in sede esecutiva.
2. Avverso l'ordinanza del G.i.p. ha proposto ricorso per cassazione **** ****, per mezzo del suo difensore, denunciando, con un unico motivo, inosservanza o erronea applicazione della legge penale in riferimento agli artt. 1, 81, 317-bis, 37 e 28 cod. pen, e contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione.
Secondo il ricorrente, il G.u.p. del Tribunale di Roma, con la sentenza irrevocabile di condanna, aveva, senza alcuna motivazione, applicato la pena accessoria dell'interdizione perpetua dai pubblici uffici in luogo di quella temporanea, associando in modo automatico le disposizioni di cui all'art. 317-bis cod. pen. alla pena complessiva inflitta (non inferiore a tre anni); tanto era confermato anche dal provvedimento emesso in data 11 giugno 2013 dall'Ufficio esecuzione presso la Procura di Roma, con il quale - ai fini dell'applicazione dell'indulto in sede esecutiva - a fronte dell'aumento di un mese per la continuazione fissato con la sentenza, aveva determinato in quindici giorni di reclusione la pena per ciascun reato-satellite (concussione e atti osceni).
La giurisprudenza della Corte di cassazione, che ha affermato l'applicabilità anche in sede esecutiva del principio dì legalità della pena, di cui all'art. 1 cod. pen., in presenza di una pena, anche accessoria, illegittima, e pur quando non sia predeterminata (stante la operatività del principio di uniformità temporale fra pena accessoria e pena principale), rendeva infondata la tesi sostenuta nell'ordinanza impugnata circa la sottrazione della sanzione accessoria prevista dall'art. 317-bis cod. pen. al controllo in sede esecutiva.
Secondo il ricorrente, la mancata esplicita indicazione della pena irrogata per il delitto di concussione non precludeva, nella specie, la disapplicazione della pena accessoria illegittima, essendo incontestabile che, per la violazione più grave, ritenuta quella dalla violenza sessuale, la pena era stata determinata in anni quattro e mesi cinque di reclusione, così ridotta ai sensi dell'art. 62-bis cod. pen. la pena base dì anni sei di reclusione, poi diminuita ulteriormente di un terzo per la scelta del rito fino a una pena inferiore alla soglia di anni tre di reclusione, ritenuta ostativa all'applicazione della pena accessoria all’indicato reato; risultava evidente, quindi, che il delitto di concussione, proprio perché ritenuto reato meno grave, era stato sanzionato con pena inferiore e tale da comportare l'applicazione della sanzione accessoria comunque temporanea, da uniformarsi a quella principale, senza alcuna attività discrezionale.
Né, infine, era di ostacolo alla disapplicazione della pena accessoria illegittima la impossibilità di determinare la durata della sanzione accessoria temporanea, trovando applicazione gli artt. 28 e 29 cod. pen., secondo i quali il principio di uniformità della pena accessoria a quella temporanea risulta attenuato in tema di interdizione temporanea dai pubblici uffici con la predeterminazione di un limite minimo e massimo della durata (nel caso di specie certamente inferiore ad anni tre).
Il Giudice dell'esecuzione, una volta determinata la quota di pena inflitta per il delitto di concussione (tale operazione è pacificamente riconosciuta in tema di applicazione dell'indulto), avrebbe dovuto uniformare, senza alcuna discrezionalità, la sanzione accessoria a quella principale.
3. La Prima Sezione penale, con ordinanza n. 1137 del 9 aprile 2014, depositata il 22 luglio 2014, ha rimesso il ricorso alle Sezioni Unite.
Rileva, in premessa, la Sezione rimettente che la questione di diritto in esame attiene alla deducibilità con il rimedio dell'incidente di esecuzione della erronea applicazione, da parte del giudice della cognizione, della pena accessoria della interdizione perpetua dai pubblici uffici in relazione alla condanna inflitta al ricorrente Basile alla pena di anni tre di reclusione per i reati di cui agli artt. 609- bis, 317 e 527 cod. pen., al medesimo contestati rispettivamente ai capi A), B) e C) della imputazione e unificati per continuazione, ai sensi dell’art. 81 cod. pen., ritenuto più grave il reato sub A).
Tale questione è ulteriormente delimitata, in relazione alle ragioni espresse dal Giudice dell'esecuzione a fondamento della sua decisione, in correlazione con la richiesta presentata dal condannato e a fronte della mancanza nella sentenza indicata di un discorso giustificativo della decisione sul punto dell'applicazione della indicata pena accessoria, alla rideterminabilità in sede esecutiva, da perpetua a temporanea, della detta pena - postane la inapplicabilità per il reato base di cui all'art. 609-bis cod. pen., per il quale è stata irrogata una pena inferiore a tre anni di reclusione - in relazione alla condanna per il meno grave reato di cui all'art. 317 cod. pen., alla luce della specifica previsione normativa dell'art. 317-bis cod. pen.
Prosegue la Prima Sezione osservando che il Giudice dell'esecuzione, muovendo dal rilievo in diritto che la determinazione della pena accessoria, la cui durata non è espressamente determinata, è parametrata, ai sensi dell'artt. 37 cod. pen., alla durata della pena principale irrogata in concreto, già ridotta, ove occorra, per la scelta del rito (Sez. U, n. 8411 del 27/05/1998, Ishaka, Rv. 210980), e inflitta, nel caso di concorso eterogeneo di reati, per il reato cui la stessa pena accessoria si riferisce (Sez. 5, n. 29780 del 30/06/2010, Ramunno, Rv. 248258), avendo riguardo alla pena principale da infliggersi se non vi fosse concorso di reati, ai sensi dell'art. 77 cod. pen., ha ritenuto che l'omessa determinazione nel giudizio di cognizione della pena principale per il reato di cui all'art. 317 cod. pen., cui rapportare la durata perpetua o temporanea della pena accessoria (e in ipotesi di temporaneità della stessa, in quale misura tra i limiti, minimo e massimo, stabiliti dall'art. 28, quarto comma, cod. pen.), ha precluso l'assunzione della chiesta pronuncia in sede esecutiva.
3.1. La doglianza afferente la legittimità della pena accessoria applicata è, in tale ottica interpretativa, espressa e condivisa nell'ordinanza impugnata, inammissibile in sede esecutiva, dovendo essere riservata al giudizio di merito (Sez. 1, n. 33086 del 10/05/2011, Antonucci, Rv. 250672), poiché l'intervento sulla pena accessoria in executivis, secondo la giurisprudenza che lo ammette (Sez. 1, n. 1800 del 30/11/2012, Zito, Rv. 254288) è limitato alla erronea applicazione della pena accessoria predeterminata per legge nella specie e nella durata, senza estendersi alla verifica della legittimità dell'applicazione o della determinazione della pena accessoria da ragguagliarsi alla determinanda entità della pena principale o da graduarsi secondo parametri di congruità (Sez. 6, n. 49236 del 12/12/2012, Parenzan, Rv. 253970).
Secondo la tesi del ricorrente, che si richiama al principio di legalità della pena di cui all'art. 1 cod. pen., applicato anche in sede di esecuzione in presenza di pena illegittima (Sez. 5, n. 809 del 29/04/1985, Lattanzio, Rv. 169333) e applicabile alla pena accessoria (Sez. 2, n. 595 del 22/01/1998, Gualano, Rv. 180210) anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza al fine della declaratoria della sua ineseguibilità (Sez. 2, n. 4492 del 13/11/1996, Kenzi, Rv. 206850), all'applicazione di pena accessoria, non predeterminata nell'entità, può procedersi in executivis rapportandone la durata a quella della pena principale entro i limiti dell'art. 28, quarto comma, cod. pen. (Sez. 1, n. 16634 del 15/04/2010, Drago, Rv. 247242), poiché sussiste l'obbligo giuridico in capo al giudice dell'esecuzione, affermato in tema di applicazione dell'indulto quando sia stato applicato l'istituto della continuazione, di stabilire in concreto le parti della sanzione riferibili ai reati oggetto dell'indulto (Sez. 1, n. 1858 del 29/04/1993, Marsalone, Rv. 194238).
3.2. La Prima Sezione evidenzia, quindi, che la questione, oggetto del dibattito giudiziario, correlata al tema della legalità della pena, principale e accessoria, e a quello concorrente dei limiti della indagine affidata in sede d'incidente di esecuzione al giudice, in rapporto alla irrevocabilità del titolo su cui si fonda l'esecuzione e alla tipicità dei mezzi d'impugnazione ordinaria e straordinaria, rispecchia la sussistenza di diverse soluzioni interpretative, sostenute da coesistenti e antitetici orientamenti della Corte di legittimità, che hanno formato oggetto di segnalazione da parte dell'ufficio del Massimario con le relazioni n. 48 del 15 dicembre 2010 e n. 15 in data 8 aprile 2013.
Invero, secondo un orientamento più volte ribadito dalla Corte, è possibile correggere in sede esecutiva Terrore nell’irrogazione della pena accessoria, quando essa sia predeterminata nell'an e nel quantum e non richieda l'esercizio di poteri discrezionali da parte del giudice.
Il principio, già affermato nel vigore del precedente codice di rito penale con l'ammessa possibilità di integrare anche in sede esecutiva la sentenza che abbia omesso la condanna alla pena accessoria, non rimessa alla valutazione discrezionale del giudice né nell'applicabilità, né nella specie, né nella durata, né nella determinazione delle modalità di esecuzione, ma predeterminata in ognuno di tali elementi dalla legge (tra le altre, Sez. 3, n. 3886 del 10/11/1965, Palloni, Rv. 100158; Sez. 6, n. 424 del 09/03/1968, Rv. 107482; Sez. 5, n. 210 del 24/01/1984, Fanella, Rv. 162533; Sez. 5, n. 573 del 21/02/1984, Ferraro, Rv. 163731; Sez. 5, n. 804 del 29/04/1985, Frediani, Rv. 169331), è stato riaffermato nel vigore dell'attuale codice, anche in considerazione della disposizione di cui all'art.183 disp. att. cod. proc. pen.
In linea con le precedenti decisioni si è, infatti, affermato che «l’assoluto automatismo nell'applicazione delle pene accessorie, predeterminate per legge sia nella specie che nella durata e sottratte, perciò, alla valutazione discrezionale del giudice, comporta, da un lato, che l'erronea applicazione di una pena accessoria da parte del giudice di cognizione può essere rilevata, anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza, dal giudice dell'esecuzione, e dall'altro che, quando alla condanna consegue di diritto una pena accessoria così dalla legge stabilita, il p.m. ne può chiedere l'applicazione al giudice dell'esecuzione qualora si sia omesso di provvedere con la sentenza di condanna» (tra le altre, Sez. 2, n. 4492 del 13/11/1996. Kenzi, Rv. 206850; Sez. 1, n. 45381 del 10/11/2004, Tinnirello, Rv. 230129; Sez. 1, n. 16634 del 15/04/2010, Drago, Rv. 247242); si è rimarcato che «l'omessa applicazione di una pena accessoria - quando non sia rimessa alla valutazione discrezionale del giudice in ordine alla sua applicazione né in relazione alla durata né in relazione alla specie, ma consegua ex lege alla pronuncia di condanna (e sia predeterminata da essa) - può essere corretta attraverso la procedura di correzione dell'errore materiale, in quanto in tal caso l'omissione non è concettuale, ma soltanto materiale, e la sua eliminazione, mediante la citata procedura, non produce modificazioni della sentenza, ma ne completa il contenuto, in armonia con la statuizione fondamentale, già attuata. Ne discende che le pene accessorie possono essere applicate - qualora conseguano ex lege alla condanna e siano già predeterminate nella specie e nella durata - anche in sede di esecuzione, onde la mancata applicazione di esse in sede di cognizione non comporta la nullità della sentenza» (tra le altre, Sez. 1, n. 6848 del 12/03/1991, Bonetti, Rv. 187648; Sez. 1, n. 5881 del 26/11/1998, Ruggiu, Rv. 212100; Sez. 1, n. 23196 del 28/04/2004, Bagedda, Rv. 228250); si è osservato che «spetta al giudice dell'esecuzione, ove non vi abbia provveduto il giudice con la sentenza di condanna per un reato cui segue necessariamente l’interdizione dai pubblici uffici, l’applicazione di detta pena accessoria per una durata pari alla pena principale», in relazione al principio della uniformità temporale tra pena accessoria e pena principale stabilito dall'art. 37 cod. pen. (Sez. 1, n. 16634 del 15/04/2010, Drago, Rv.247242).
L'ordinanza di rimessione rileva che gli illustrati principi risultano ripresi da successive pronunce e, segnatamente, da Sez. 1, n. 2258 del 13/10/2010, Di Marco, Rv. 248300, che ha, in particolare, puntualizzato che è legittimo il ricorso, in executivis, alla procedura di correzione dell'errore materiale per adeguare la durata della pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici a quella prevista, in termini non discrezionali, dalla legge, ma erroneamente determinata dal giudice della cognizione (nel caso di specie, la pena principale era stata ridotta in appello a tre anni di reclusione, ma quella accessoria, per errore, era stata confermata in perpetua), rappresentando nella motivazione che il condiviso orientamento trova fondamento in plurime convincenti considerazioni.
Ed aggiunge che, in modo conforme, si sono espresse successive decisioni, tra le quali evidenzia: Sez. 6, n. 13768 del 20/01/2011, Fiorito, Rv. 249908; Sez. 1, n. 4385 del 17/10/2012, Alberghina, Rv. 253701; Sez. 4, n. 49236 del 12/12/2012, Parenzan, Rv. 253970.
Prosegue la Sezione rimettente rilevando che una più recente pronuncia (Sez. 1, n. 1800 del 03/11/2012, Zito, Rv. 254288, cui ha fatto seguito Sez. 1, n. 7346 del 30/01/2013, Catapano, non massimata sul punto), ha riaffermato che «l’erronea applicazione, da parte del giudice di cognizione, di una pena accessoria predeterminata per legge nella specie e nella durata può essere rilevata, anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza, dal giudice dell’esecuzione ovvero, quando venga dedotta in sede di legittimità, anche dalla Suprema Corte», tenendo conto «da un lato, della portata generale della previsione contenuta nell'art. 1 cod. pen. e, dall'altro, dell'assoluto automatismo nell'applicazione delle pene accessorie predeterminate per legge sia nella specie che nella durata e sottratte, perciò, alla valutazione discrezionale del giudice», e rilevando, per l'effetto, che «l'eventuale pronunzia del giudice dell'esecuzione non può essere considerata una modifica sostanziale della decisione adottata all'esito del giudizio di cognizione passata in giudicato».
Nella specie, era stata respinta, in sede esecutiva, l'opposizione presentata da un condannato volta a ottenere la corretta determinazione della pena accessoria, essendo stata irrogata nel giudizio di merito l'interdizione perpetua dai pubblici uffici sul presupposto della pronunciata condanna a una pena superiore ad anni cinque di reclusione, senza tenere in debito conto che la pena base per il reato più grave, su cui avrebbe dovuto essere parametrata la sanzione accessoria medesima, era inferiore al quinquennio.
Nell'ordinanza di rimessione è dato, altresì, atto del diverso orientamento interpretativo, alla cui stregua «non è deducibile con il rimedio dell'incidente di esecuzione Terrore commesso dal giudice di cognizione nell'applicare con la sentenza di condanna le pene accessorie, trattandosi di modifica sostanziale del dictum della sentenza, possibile solo nel giudizio di cognizione attraverso il rimedio dell'impugnazione», secondo quanto affermato da Sez. 1, n. 14007 del 20/03/2007, Fragnito, Rv. 236213; Sez. 1, n. 14827 del 19/02/2009, Blasi Nevone, Rv. 243740; e Sez. 1, n. 33086 del 10/05/2011, Antonucci, Rv. 250672.
La necessità di far valere la illegittimità della pena accessoria in sede di cognizione attraverso il sistema delle impugnazioni, e non inammissibilmente in sede esecutiva, è stata affermata anche dalla terza delle indicate sentenze (n. 33086/2011), che ha ritenuto irrilevanti gli argomenti e le deduzioni afferenti ai rapporti tra gli artt. 29 e 37 cod. pen. in fattispecie di lamentata illegittima applicazione della interdizione temporanea dai pubblici uffici.
3.3. La Prima Sezione considera, conclusivamente, che la questione oggetto del contrasto si interseca con il tema della rilevabilità anche in sede di esecuzione della irrogazione, nel giudizio di cognizione, di una pena illegittima.
Tale rilevabilità, giustificata inizialmente con il ricorso alla categoria della inesistenza della pena illegittima (Sez. 1, n. 1436 del 25/06/1982, Carbone, Rv. 156173), è stata poi correlata al principio di legalità della pena, enunciato dall’art. 1 cod. pen. e implicitamente dall’art. 25 Cost., osservandosi che tale principio che «informa di sé tutto il sistema penale e non può ritenersi operante solo in sede di cognizione [...] vieta che una pena che non trovi fondamento in una norma di legge, anche se inflitta con sentenza non più soggetta a impugnazione ordinaria, possa avere esecuzione, essendo avulsa da una pretesa punitiva dello Stato», e ritenendosi rilevabile l'applicazione di una pena illegittima non prevista dall'ordinamento giuridico o eccedente per specie o quantità il limite legale (Sez. 5, n. 809 del 29/04/1985, Lattanzio, Rv. 169333; e tra le successive, Sez. 1, n. 4869 del 06/07/2000, Colucci, Rv. 216746; Sez. 1, n. 12453 del 03/09/2009, Alfieri, Rv. 243742; Sez. 1, n. 38712 del 23/01/2013, Villirillo, Rv. 256879).
La categoria della giuridica inesistenza è stata utilizzata anche a fondamento della rilevabilità dell'erronea applicazione della pena accessoria da parte del giudice di cognizione (Sez. 2, n. 8079 del 25/05/1973, Bellocco, Rv. 125464), poi mutuandosi il principio di legalità della pena (tra le altre, Sez. 2, n. 11230 del 04/07/1985, Gioffré, Rv. 171202; Sez. 2, n. 595 del 22/01/1988, Gualano, Rv. 180210), con l'affermazione che tale principio «e quello di applicazione, in caso di successione di leggi penali, della legge più favorevole, operano anche con riguardo alle pene accessorie, per cui anche l'eventuale applicazione illegale di tali pene, avvenuta in sede di cognizione, può essere rilevata, così come si verifica per le altre, in sede di esecuzione, con adozione dei conseguenti provvedimenti», senza restringersi «il concetto di illegalità [...] al caso di applicazione di una pena in astratto non prevista dall'ordinamento - per esempio la pena di morte - [perché] attiene a ogni caso di irrogazione di una pena non prevista, per specie o entità, dalla norma ritenuta applicabile, e altresì al caso che quest'ultima sia in realtà inesistente o inapplicabile in relazione al tempo del commesso reato» (Sez. 1, n. 9456 del 25/02/2005, Pozzi, Rv. 230928).
3.4. Osserva, quindi, la Sezione rimettente che, nel delineato contrasto interpretativo, le affermazioni che sorreggono i diversi principi affermati con le sopra richiamate sentenze esprimono un più radicale contrasto che attiene allo stesso contenuto del principio di legalità e ai limiti della sua operatività in malam e in bonam partem con riguardo alle pene accessorie in sede esecutiva.
La soluzione di tale contrasto incide sull'ammissibilità del ricorso all'incidente di esecuzione per correggere, eliminare o rideterminare le pene accessorie, erroneamente o illegittimamente applicate o non applicate nel definitivo giudizio di cognizione.
4. Il Primo Presidente, con decreto in data 30 luglio 2014, ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione in camera di consiglio l'odierna udienza.

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. La questione di diritto sottoposta all'esame delle Sezioni Unite è la seguente: "Se l'erronea o omessa applicazione da parte de! giudice della cognizione di una pena accessoria predeterminata per legge nella specie e nella durata o l'applicazione da parte del medesimo giudice, previa delimitazione del principio di legalità della pena in rapporto al giudicato e alla sua applicazione in sede esecutiva, di una pena accessoria extra o contra legem, possano essere rilevate, anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza, dal giudice dell'esecuzione
2. La soluzione della questione presuppone l'indagine sul "significato" nell'ordinamento vigente del principio di intangibilità del giudicato e sui poteri riconosciuti al giudice dell'esecuzione. L'ampliamento dei poteri di quest'ultimo non può che intaccare l'irrevocabilità della decisione del giudice della cognizione.
Tanto maggiore è, infatti, il riconoscimento di interventi in executivis, tanto minore diventa il principio della non modificabilità della sentenza irrevocabile. Si tratta, quindi, di aspetti inversamente proporzionali, determinando il potenziamento della fase esecutiva l'erosione dell'intangibilità del giudicato.
La sacralità del giudicato, come affermata nel passato, comportava necessariamente una marginalizzazione della fase esecutiva, volta unicamente a dare attuazione alla sentenza e priva di ogni connotazione giurisdizionale. E' solo con l'entrata in vigore della Carta Costituzionale che si dà inizio alla giurisdizionalizzazione della fase esecutiva con il riconoscimento del diritto al contraddittorio e della ricorribilità in cassazione dei provvedimenti.
Il grimaldello, per così dire, fu rappresentato dall'art. 27 Cost. e dal principio in esso affermato della finalità rieducativa della pena.
Il processo di erosione dell'intangibilità del giudicato fu, però, lento e di non facile attuazione.
2.1. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 204 del 1974, nel dichiarare l'illegittimità costituzionale dell'art. 43 r.d. 28 maggio 1931 n. 602 (Disposizioni di attuazione del codice di procedura penale), che attribuiva la competenza a concedere la liberazione condizionale al Ministero della giustizia, riconosceva l'esistenza di un diritto del condannato a far accertare «se la quantità di pena espiata abbia o meno assolto al suo fine rieducativo» e che l'istituto della liberazione condizionale andava ricondotto alla natura giurisdizionale. Sulla strada tracciata dalla Corte costituzionale intervenne il legislatore, che con la legge 26 luglio 1975, n.354, delineò il procedimento di sorveglianza ed introdusse una serie di misure alternative, che hanno inciso notevolmente sulla pena, irrogata con la sentenza passata in giudicato.
2.2. Tale processo si sviluppò progressivamente fino a manifestarsi in tutta la sua forza con l'approvazione del codice di rito del 1988.
Il superamento del principio di intangibilità del giudicato, elaborato dalla giurisprudenza e dalla dottrina, ha, infatti, trovato, sul piano normativo, significativo riconoscimento attraverso l'ampliamento, nel nuovo codice di procedura penale, dei poteri del giudice dell'esecuzione.
Il codice abrogato si limitava a prevedere, una volta divenuta irrevocabile la sentenza, la declaratoria di estinzione del reato e della pena (art. 578), la revoca della sospensione condizionale della pena (art. 590), l'applicazione dell'amnistia e dell'indulto ai condannati (art. 593).
Il codice di procedura penale del 1988 ha attribuito, invece, al giudice dell'esecuzione competenza in ordine a questioni sul titolo esecutivo (art. 670), in materia di applicazione della disciplina del concorso formale e del reato continuato (art. 671), di applicazione dell'amnistia e dell'indulto (art. 672), di revoca della sentenza per abolizione del reato (art. 673), di revoca di altri provvedimenti (art. 674), di declaratoria di falsità di documenti (art. 675), nonché altre competenze (art. 676) in ordine, tra l'altro, all'estinzione del reato dopo la condanna, alle pene accessorie, alla confisca.
Significativa, in particolare, è la competenza ad applicare in sede esecutiva la disciplina del concorso formale e del reato continuato, attribuendosi al giudice dell'esecuzione la possibilità di modificare la pena inflitta con le singole condanne riducendola ad un unicum con il solo limite del non superamento della somma di quelle inflitte con ciascuna sentenza o ciascun decreto; con la possibilità, altresì, di concedere il beneficio della sospensione della pena e della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale.
Nella Relazione al progetto preliminare e al testo definitivo del codice di procedura penale, si affermava in proposito: «ci si è resi altresì conto dell'estrema importanza attribuita dal legislatore delegante alla fase dell'esecuzione, quale strumento per l'attuazione del principio costituzionale dell'umanizzazione della pena da cui deriva poi quello dell'adeguatezza della medesima con riferimento al fine della possibile rieducazione del condannato. Sotto tale profilo appare estremamente significativa la direttiva volta a consentire la valutazione in sede esecutiva del concorso formale dei reati e della continuazione. Essa costituisce un notevole passo avanti verso l'effettivo adeguamento della pena ai fatti commessi dal condannato prescindendo vicende che possono aver comunque contrassegnato i vari procedimenti penali riguardanti il condannato medesimo. Tale direttiva è venuta sicuramente incontro agli auspici formulati dalla dottrina e dagli operatori del diritto che di frequente avevano constatato, da un lato, l'inaccettabilità delle preclusioni e degli sbarramenti previsti dal sistema per la valutazione in sede esecutiva della posizione globale del condannato e, dall'altro, la necessità di rimediare alle storture poste in atto dalla celebrazione contemporanea in sedi diverse di vari procedimenti penali a carico degli stessi imputati per fatti simili e commessi sotto la spinta di un'identità criminogena evidente».
Ad evitare "fughe in avanti", nella stessa Relazione ci si preoccupava di sottolineare: «i limiti che il legislatore delegante ha inteso stabilire per la fase dell'esecuzione penale». Si osservava al riguardo: «Anche se invero notevoli e penetranti sono gli strumenti che consentono una modificazione sostanziale della pena inflitta dal condannato, si può ragionevolmente escludere che la delega consenta l'introduzione di un sistema bifásico puro, tale cioè da far risultare riservata alla sola fase dell'esecuzione la determinazione della pena».
Indiscutibile era, però, il vulnus definitivo, attraverso l'introduzione della disciplina di cui all'art. 671 cod. proc. pen., al postulato dell'intangibilità del giudicato.
Si consentiva, infatti, al giudice dell'esecuzione, sia pure al fine di dare attuazione al principio costituzionale della umanizzazione ed adeguatezza della pena, di operare penetranti interventi manipolatori sulle statuizioni irrevocabili del giudice della cognizione.
3. Il problema del superamento del giudicato è stato affrontato dalla giurisprudenza più recente della Corte di cassazione in relazione alla sopravvenienza di interventi normativi o di pronunce della Corte costituzionale incidenti sul trattamento sanzionatorio.
Secondo l'orientamento tradizionale la cessazione degli effetti penali di una sentenza di condanna poteva verificarsi soltanto nelle ipotesi previste dall'art. 673 cod. proc. pen. e cioè in caso di abrogazione o di dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice.
Si è, invece, venuto affermando l'orientamento che riconosce la prevalenza del valore della legalità della pena sulla intangibilità del giudicato e quindi la possibilità di rideterminare la sanzione in sede esecutiva.
3.1. Occorre premettere che la sentenza delle Sezioni Unite n. 42858 del 29/05/2014, Gatto, dopo aver proceduto alla ricostruzione del processo storico di progressiva erosione dell'intangibilità del giudicato, ha evidenziato che l’intervento in executivis deve essere consentito tutte le volte in cui sia ancora in atto l'esecuzione di una pena "illegittima". E ciò perché «applicare una pena di misura diversa o con criteri diversi da quella contemplata dalla legge non può essere ritenuto conforme al principio di legalità» (Corte cost., sent. n.115 del 1987).
3.2. E1 opportuno anche richiamare quanto affermato dalla Corte cost. con la sent. n. 210 del 2013: «nell'ambito del diritto penale sostanziale, è proprio l'ordinamento interno a reputare recessivo il valore del giudicato, in presenza di alcune sopravvenienze relative alla punibilità e al trattamento punitivo del condannato», in quanto «conosce ipotesi di flessione dell'intangibilità del giudicato, che la legge prevede nei casi in cui sul valore costituzionale ad esso intrinseco si debbano ritenere prevalenti opposti valori, ugualmente di dignità costituzionale, ai quali il legislatore intende assicurare un primato.
3.3. Ma la tutela della libertà personale, garantita costituzionalmente, viene ad essere violata anche nel caso in cui debba essere eseguita una pena ab origine illegale. Una diversa soluzione implicherebbe, infatti, il riconoscimento della possibilità di restrizione illegittima della libertà personale in ossequio alla "sacralità del giudicato". Il che sarebbe certamente in contrasto con i principi costituzionali, sottolineati, come si è visto, con la sentenza n. 210 del 2013 della Corte costituzionale.
4. La questione del superamento dell'intangibilità del giudicato è, poi, strettamente correlata al tema della legalità della pena.
4.1. La Corte costituzionale si è ripetutamente occupata della portata del principio di legalità della pena e, fin dalla sue prime sentenze in materia, ha ritenuto che l'art. 25, secondo comma, Cost., «non soltanto proclama il principio della irretroattività della norma penale, ma dà fondamento legale alla potestà punitiva del giudice. E poiché questa potestà si esplica mediante l'applicazione di una pena adeguata al fatto ritenuto antigiuridico, non si può contestare che pure la individuazione della sanzione da comminare risulta legata al comando della legge, senza che rilevi la soppressione della frase "e con le pene da essa stabilite", in sede di formulazione definitiva della norma costituzionale».
Tale soppressione, come si desume dai lavori preparatori della Costituzione «fu proposta ed approvata per evitare che nel caso di successione di norme penali, rimanesse pregiudicato il principio dell'applicazione della norma più favorevole al reo» (Corte cost., n. 15 del 1962).
4.2. Ma se la garanzia della riserva di legge investe anche il trattamento sanzionatorio, in modo che il potere discrezionale del giudice non si trasformi in arbitrio (tanto che, con la sent. n. 299 del 1992 veniva sottolineata l'esigenza che l'ampiezza del divario tra il minimo ed il massimo non potesse eccedere il margine di elasticità necessario a consentire l'individuazione della pena), a maggior ragione una pena che sia stata determinata in contrasto con il dato normativo si pone in palese violazione del precetto costituzionale.
4.3. Il principio di legalità è sancito anche dall'articolo 7 CEDU non solo con riferimento al precetto penale ma anche con riferimento espresso e specifico alla sanzione collegata alla sua violazione.
Il tema della legalità della pena - distinto rispetto a quello del precetto - è stato affrontato soprattutto nei casi di riforme legislative volte ad introdurre retroattivamente trattamenti sanzionatori più severi.
Più di recente la Corte EDU ha incentrato la propria attenzione anche sulla specifica prevedibilità del quantum di pena da espiare (decisione della Quarta Sezione del 22 gennaio 2013, Camilleri c. Malta,), affermando che se la normativa nazionale non consente al soggetto agente di conoscere, al momento della commissione del reato, la reale ampiezza della cornice edittale all’interno della quale verrà determinata la pena, è configurabile la violazione del principio di legalità della pena.
5. In attuazione del principio di legalità della pena, sancito dall'art. 1 cod. pen. e implicitamente dall'art. 25, secondo comma, Cost., che informa tutto l'ordinamento giuridico penale, una pena inflitta extra o contra legem deve, quindi, essere rimossa non solo attraverso i rimedi previsti in sede di cognizione, ma anche, dopo il passaggio in giudicato della sentenza, da parte del giudice dell'esecuzione.
Si tratta, allora, di stabilire, come si vedrà in seguito, soltanto i limiti dell'intervento in sede esecutiva. Inevitabilmente, invero, il giudice dell'esecuzione incide sul giudicato nel momento in cui va a rimuovere la pena (illegale) irrogata dal giudice della cognizione.
5.1. In relazione alla pena principale la giurisprudenza della Corte di cassazione concordemente riconosce la possibilità di intervento in executivis.
Già con la sentenza della Sez. 1, n.1436 del 25/06/1982, Carbone, Rv. 156173, veniva ritenuta inesistente la pena illegittima, e pertanto consentita la rimozione della stessa anche in sede di esecuzione. Nella specie era stato riscontrato un errore (definito «tanto radicale quanto non vincolante») nel calcolo della pena pecuniaria, che era stata rapportata ai delitti sanzionabili solo con la pena detentiva.
Anche con la sentenza della Sez. 3, del 24/06/1980, Sanseverino, non massimata, richiamata dalla predetta decisione, era stata sostanzialmente riconosciuta l'ammissibilità, in sede esecutiva, dell'accertamento dell'illegittimità intrinseca e quindi dell'ineseguibilità, della pena inflitta con la sentenza irrevocabile di condanna, allorché la pena stessa non sia prevista dalla legge o ecceda per specie e quantità il limite legale.
Alle stesse conclusioni perveniva anche la Sez. 5, con la sentenza n. 809 del 29/04/1985, Lattanzio, Rv. 169333: nel caso in esame, al ricorrente era stata inflitta una pena pecuniaria in aggiunta alla sanzione sostitutiva applicatagli ex art. 77, comma 1, legge 24 novembre 1981, n. 689, e il giudice dell'esecuzione aveva dichiarato inammissibile l'incidente di esecuzione dal medesimo proposto, al fine di ottenere l'eliminazione della suddetta pena, in quanto le dedotte censure avrebbero dovuto essere fatte valere in sede di impugnazione.
La sentenza citata censurava la decisione impugnata, ritenendo che anche in sede di esecuzione fosse rilevabile l'applicazione di una pena illegittima non prevista dall'ordinamento giuridico o eccedente per specie o quantità il limite legale.
Anche la giurisprudenza successiva ha riconosciuto la possibilità di intervento del giudice dell'esecuzione.
La Sez. 1, con la sentenza n. 4869 del 06/06/2000, Colucci, Rv. 216746, lo limita, però, alle ipotesi di assoluta abnormità della sentenza, conseguentemente, escludendolo in caso di error in iudicando (con la sentenza di condanna era stata erroneamente convertita la pena pecuniaria inflitta in libertà controllata, conversione possibile solo per la fase esecutiva a fronte dell'insolvibilità del condannato).
Il principio di legalità della pena costituisce il canone ermeneutico anche per Sez. 1, n. 12453 del 03/03/2009, Alfieri, Rv. 243742. Nel caso di specie il giudice dell'esecuzione, in accoglimento delle istanze avanzate dal condannato, aveva rideterminato la pena inflitta con sentenza definitiva (così assumendo di riportarla entro il limite di legge, in presenza della riconosciuta attenuante di cui alla legge n. 203 del 1991, ex art. 8).
Nell'accogliere il ricorso del P.g., la Corte chiariva i margini di intervento rimessi al giudice dell'esecuzione, evidenziando che il principio della legalità della pena, che è valore di rango costituzionale che permea di sé l'intero sistema, e che per certi aspetti può dirsi la legittimazione culturale - in senso laico - del processo, non sopporta di essere costretto in tali limiti, né di essere sacrificato sull'altare del giudicato. Tale profonda valenza costituzionale, pertanto, in mancanza di una norma specifica per il processo di esecuzione, presuppone pertanto - ed anzi impone - l'immediata operatività della norma superiore, da attivare ex art. 670 cod. proc. pen., (art. 25, secondo comma, Cost., in particolare, ovvero art. 7 CEDU: «Non può essere inflitta alcuna pena superiore a quella che era applicabile al momento in cui il reato è stato commesso»), come opzione interpretativa necessaria rispetto all'invocazione alla Corte costituzionale di un intervento additivo, in tal caso, per la fase esecutiva del processo penale.
Infine, con la sentenza della Sez. 4, n. 26117 del 16/05/2012, Toma, Rv. 253562, è stato annullato con rinvio il provvedimento del giudice dell'esecuzione, che aveva deliberato "non luogo a provvedere" sull'istanza di correzione dell'errore materiale avanzata dal condannato, per aver il giudice della cognizione errato il calcolo nella riduzione del terzo per il rito abbreviato, avendo egli inflitto la pena di nove anni di reclusione, calcolata sulla pena finale pari a dodici anni.
5.2. I principi elaborati in relazione alla pena principale non possono che valere anche con riguardo alle pene accessorie, non essendo consentita dall'ordinamento l'esecuzione di una pena (sia essa principale o accessoria) non conforme, in tutto o in parte, ai parametri legali.
Il principio di legalità della pena si applica, invero, anche con riferimento alle pene accessorie, come costantemente affermato dalla Corte di cassazione a partire dalle pronunce adottate in relazione al codice previgente (cfr. Sez. 5, n. 6280 del 21/03/1985, De Negri, Rv. 169897), anche in sede esecutiva (Sez. 1, n. 9456 del 25/02/2005, Pozzi, Rv. 230928).
L'emendabilità in executivis di una pena accessoria illegale trova il suo fondamento non solo in norme di rango superiore, costituzionale e convenzionale, come si è visto in precedenza, ma anche in norme del codice di rito, quale l'art. 676 cod. proc. pen. che, prevede espressamente la competenza del giudice dell'esecuzione in tema di pene accessorie.
Tale disposizione è di carattere generale e quindi legittima qualsiasi tipo di intervento e, soprattutto, per rimediare ad applicazioni della sanzione in contrasto con norme di rango superiore.
Ulteriore conferma della possibilità per il giudice dell'esecuzione di intervenire, a modifica del giudicato irrevocabile, in tema di pene accessorie, si ricava dall'art. 183 disp. att. cod. proc. pen.
La norma, anche se riguarda l'omessa applicazione di una pena accessoria, e non quindi l'applicazione della stessa in violazione di legge, costituisce comunque il riconoscimento, da parte del legislatore, che, con determinati limiti (nella stessa norma esplicitati), sia consentito l'intervento del giudice dell'esecuzione.
Per altro verso la previsione espressa di (solo) tale tipo di intervento in attuazione del principio più generale espresso dall'art. 676 cod. proc. pen. è giustificata dal fatto che si tratta di applicazione di pena accessoria in malam partem.
Inoltre, se è consentito applicare in sede esecutiva una pena accessoria (la cui omissione, da parte del giudice della cognizione, non sia stata oggetto di impugnazione), addirittura in danno dell'imputato condannato, a maggior ragione tale intervento deve essere riconosciuto per emendare in bonam partem una pena accessoria illegale.
Sarebbe incoerente ed irragionevole, una soluzione diversa, risolvendosi essa, per di più, in danno del condannato.
5.3. La giurisprudenza della Corte di cassazione, come segnalato nell'ordinanza di rimessione, si è, nel suo indirizzo maggioritario, espressa nel senso di ritenere possibile l'emenda nella fase esecutiva dell'applicazione erronea di una pena accessoria; anche se non vi è uniformità dei percorsi argomentativi e, soprattutto, dei "limiti" di tale intervento.
Per Sez. 2, n. 8079 del 25/05/1973, Bellocco, Rv. 125464, l'erronea applicazione di una pena accessoria da parte del giudice della cognizione non può essere eliminata con la procedura della correzione degli errori materiali, ma deve essere considerata "giuridicamente inesistente"; e tale giuridica inesistenza potrà essere fatta valere in sede esecutiva.
Anche dopo l'entrata in vigore dell'attuale codice di rito, con la sentenza Sez. 2, n.4492 del 13/11/1996, Kenzi, Rv.206850, viene ribadito l'assoluto automatismo dell'applicazione della pena accessoria, in quanto predeterminata per legge sia nella specie che nella durata e sottratta, perciò, alla valutazione discrezionale del giudice, e quindi la possibilità di intervento in executivis.
La sentenza Sez. 4, n. 3881 del 28/06/2000, Aramini, Rv.217480, a sua volta, richiama espressamente il principio di legalità della pena, elevato a rango di norma fondamentale nell'art. 25 Cost., che riguarda anche il sistema sanzionatorio; sicché l'ordinamento non tollera non solo che si dia esecuzione ad una pena, anche se inflitta con sentenza irrevocabile, che non aveva all'epoca in cui fu irrogata il suo fondamento nella legge, ma nemmeno che ne perdurino la esecuzione e gli effetti allorché il legislatore tale pena ha espunto dall'ordinamento con legge successiva a quella del momento in cui è stata applicata, trovandola non più rispondente ai canoni di giustizia, di ragionevolezza, di proporzionalità, di adeguatezza rispetto alla complessa funzione che alla pena è demandata.
Per Sez. 1, n. 9456 del 25/02/2005, Pozzi, Rv.230928, il concetto di illegalità della pena non può restringersi al caso di applicazione di una pena in astratto non prevista dall'ordinamento - per esempio la pena di morte - ma attiene ad ogni caso di irrogazione di una pena non prevista, per specie o entità, dalla norma ritenuta applicabile, ed altresì al caso che quest'ultima sia in realtà inesistente o inapplicabile in relazione al tempo del commesso reato.
Le argomentazioni della sentenza Sez. 1, n. 38245 del 13/10/2010, Di Marco, Rv. 248300, sono maggiormente articolate. Nel riconoscere la possibilità della correzione in sede esecutiva dell'entità della pena accessoria per adeguarla alla misura legale, si evidenzia che a) in una interpretazione costituzionalmente orientata, la pena illegale per specie o misura va corretta anche in executivis, dovendo tendenzialmente cedere il giudicato a tale più alta valenza fondativa dello statuto della pena; b) il limite di cui all'art. 130 cod. proc. pen., secondo cui la correzione non deve portare ad una modificazione essenziale dell'atto, va inteso nel senso che non si deve trattare di un'indebita incursione nel potere valutativo-decisionale del giudice della cognizione, ma non opera quando si tratti di mera applicazione di un effetto determinato ex lege; c) Tart. 183 disp. att. cod. proc. pen. autorizza l'applicazione in executivis della pena accessoria predeterminata nella specie e nella durata, se a ciò non si è provveduto con la sentenza di condanna, e dunque in malam partem.
Tali argomentazioni vengono riprese sostanzialmente anche da Sez. 1, n. 1800 del 30/11/2012, Zito, Rv. 254288; da Sez. 1, n. 7346 del 30/01/2013, Catapano, Rv. 254151; e da Sez. 1, n. 38712 del 23/01/2013, Villirillo, Rv. 256879.
5.4. Ritengono le Sezioni Unite che debba essere riconosciuta la possibilità di intervenire in executivis per l'emenda di una pena accessoria illegale e che quindi debba essere condiviso l'indirizzo interpretativo, assolutamente maggioritario, espressosi in tal senso.
A ben vedere, a parte una isolata pronuncia, che nega radicalmente tale possibilità di intervento senza peraltro argomentare in proposito, limitandosi ad affermare che «la denuncia di illegittimità della pena accessoria è inammissibile in sede esecutiva, dovendo essa farsi valere in sede di cognizione, impugnando la sentenza» (Sez. 1, n. 33086 del 10/05/2011, Antonucci, Rv. 250672), il contrasto è più apparente che reale.
Le altre due sentenze segnalate con l'ordinanza di rimessione, non negano, in modo assoluto, l'emendabilità in sede esecutiva di pene accessorie illegali, ma soltanto la circoscrivono entro ambiti molto rigorosi.
La sentenza Sez. 1, n. 14007 del 20/03/2007, Fragnito, Rv. 236213 - dopo aver riconosciuto che il mito del giudicato ha subito notevoli fratture, come ad esempio attraverso l'applicazione della continuazione in sede esecutiva fino alla conversione della pena detentiva in quella corrispondente pecuniaria se vi è stata condanna ad una pena detentiva ed una legge posteriore prevede esclusivamente quella pecuniaria - assume che gli interventi sul giudicato, in quanto eccezionali, siano possibili soltanto se previsti espressamente da una norma, non essendo in tale materia consentita l'analogia, finisce poi, richiamando precedenti giurisprudenziali, per riconoscere che possa farsi luogo in executivis alla applicazione di una pena accessoria «che consegua ex lege alla condanna e sia predeterminata in ogni suo elemento, così da comportare alcuna [recte, nessuna] discrezionalità del giudice in ordine alla sua applicazione ed alla sua misura, qualora il giudice della cognizione abbia omesso la pronuncia per dimenticanza materiale, attraverso la procedura di correzione degli errori materiali».
Nell'escludere quindi l'esistenza di un potere generale del giudice dell'esecuzione, «non previsto dalla legge ed anzi escluso dai principi generali in materia di giudicato», apre poi essa stessa degli "spiragli" sia pure limitati all'ipotesi di meri errori materiali.
Anche la sentenza Sez. 1, n. 14827 del 19/02/2009, Blasi Nevone, Rv. 24370, si muove sulla stessa linea ed anzi rende ancor più evidenti la contraddittorietà delle sue argomentazioni.
Ribadisce che gli interventi manipolatori in sede esecutiva sono eccezionali e che non è possibile l'applicazione analogica (in tema di pene accessorie, i poteri del giudice dell'esecuzione sono disciplinati dagli artt. 662 e 676 cod. proc. pen, nonché dall'art. 183 disp. att. cod. proc. pen.). Riconosce, però, che a tale principio si contrappone quello della legalità della pena (valido anche per le pene accessorie) che può essere fatto valere pure in sede esecutiva; anche se poi la deroga viene ammessa soltanto in relazione a pene accessorie «avulse da una pretesa punitiva dello Stato». E conclude affermando che l'applicazione del principio di legalità anche in sede esecutiva non comporta automaticamente né il venir meno del giudicato, né la possibilità di correggere in sede esecutiva gli eventuali errori di giudizio commessi dal giudice della cognizione quando non possa parlarsi di pena illegale nel senso di pena avulsa dalla pretesa punitiva dello Stato.
E' del tutto evidente quindi che, attraverso il richiamo del principio di legalità della pena, si riconosce la possibilità di una emenda in sede esecutiva della pena accessoria illegale sia pure nella limitata ipotesi di "pena avulsa dalla pretesa punitiva dello Stato".
6. In base a quanto fin qui argomentato, può quindi affermarsi che, in forza di norme di rango superiore e della stessa disciplina codicistica, sia consentito in executivis emendare una pena accessoria illegale, come del resto sostanzialmente riconosciuto anche dall'indirizzo giurisprudenziale minoritario.
La questione vera, allora, è stabilire "limiti" e "ambito" dell'intervento sul giudicato da parte del giudice dell'esecuzione. E su tale punto, oggetto di pronunce, come si è visto, non sempre uniformi nello stesso indirizzo interpretativo maggioritario, sono chiamate a pronunciarsi le Sezioni Unite.
Ritiene il Collegio che le linee-guida da seguire, per pervenire ad una soluzione che non sia frutto di estemporanee valutazioni, possano ricavarsi dal sistema. Da esso sono, infatti, enucleabili due principi che consentono di delimitare gli interventi sul giudicato del giudice dell'esecuzione.
6.1. Innanzitutto, va esclusa l'emendabilità in executivis quando il giudice della cognizione si sia già pronunciato in proposito e sia pervenuto, anche se in modo erroneo, a conclusioni che abbiano comportato l'applicazione di una pena accessoria illegale. In tal caso, alla erroneità della valutazione non può che porsi rimedio con gli ordinari mezzi di impugnazione.
Tale principio ispira una pluralità di norme del codice di rito e trova specifica enunciazione nell'art. 671 cod. proc. pen. La norma, che pure ha ampliato notevolmente i poteri del giudice dell'esecuzione, esclude espressamente l'applicazione della continuazione in sede esecutiva, quando questa sia stata esclusa dal giudice della cognizione.
La conferma, sia pure sotto altro profilo, che le valutazioni del giudice della cognizione non possano essere rimesse in discussione, dopo il passaggio in giudicato della sentenza, si ricava da quanto previsto in tema di revisione.
L'art. 630, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., stabilisce, invero, che la richiesta di revisione possa essere avanzata, tra l'altro, nell’ipotesi in cui «dopo la condanna sono sopravvenute o si scoprono nuove prove che, sole o unite a quelle già valutate, dimostrano che il condannato deve essere prosciolto a norma dell'art. 631 cod. proc. pen.».
Deve trattarsi quindi di nuove prove, per tali intendendosi, secondo un ormai consolidato indirizzo interpretativo, anche quelle pur presenti già agli atti, ma non esaminate. Si richiede, perciò, che le prove in questione non siano state già oggetto di esame e valutazione del giudice della cognizione.
Significativa sotto l'aspetto esaminato è anche la disposizione di cui all'art. 625-bis cod. proc. pen., che consente il ricorso straordinario per la correzione di errori materiali o di fatto contenuti nei provvedimenti pronunciati dalla Corte di cassazione. Tale norma, inserita dall'art. 6, comma 6, legge 26 marzo 2001, n. 128, fu introdotta, a seguito di ampio dibattito in ordine alla problematica inerente gli "errori" contenuti in provvedimenti ormai irrevocabili.
Da un lato, veniva sottolineato che «il principio della irrevocabilità ed incensurabilità delle decisioni della Corte di cassazione, oltre ad essere rispondente al fine di evitare la perpetuazione dei giudizi e di conseguire un accertamento definitivo - il che costituisce, del resto, lo scopo stesso dell'attività giurisdizionale e realizza l'interesse fondamentale dell'ordinamento alla certezza delle situazioni giuridiche - è pienamente conforme alla funzione di giudice ultimo della legittimità affidata alla medesima Corte di cassazione dall'art. Ili della Costituzione» (Corte cost., sent. n. 294 del 1995).
Dall'altro, si avvertiva la necessità di porre rimedio ad errori di fatto di tipo percettivo, che non potevano essere tollerati pur in presenza di una decisione irrevocabile.
Dopo che la stessa Corte costituzionale aveva evitato, nonostante varie sollecitazioni, di far luogo ad una pronuncia additiva che consentisse di aprire dei varchi nell'intangibilità del giudicato, assumendo che si trattava di scelte discrezionali del legislatore (sent. n. 294 del 1995, cit.), si pervenne all'introduzione dell'art. 625-bis.
La norma, pur determinando, comunque, una deroga al principio dell'intangibilità del giudicato, ha, però, limitato la possibilità, da parte del condannato di richiedere la correzione, soltanto all'ipotesi di errore materiale o di fatto. Come ripetutamente ribadito, deve quindi trattarsi di un errore percettivo causato da una svista o da un equivoco. Non è consentito, invece, il rimedio straordinario quando ci si trovi in presenza di un errore valutativo.
Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 37505 del 14/07/2011, Corsini, Rv. 250528, nel confermare il giudizio formulato dalle stesse Sezioni Unite in precedenza (sent. n. 16103 del 27/03/2002, Basile, Rv. 221280), hanno ulteriormente precisato che, qualora la causa dell'errore non sia identificabile esclusivamente in una fuorviata rappresentazione percettiva e la decisione abbia comunque contenuto valutativo, non è configurabile un errore di fatto, bensì di giudizio, come tale escluso dall'orizzonte del rimedio straordinario.
In conclusione il principio ispiratore di tutte le norme sopraindicate consente di affermare che, quando il giudice della cognizione abbia espresso le sue valutazioni (a meno di errori macroscopici di calcolo o di applicazione di una pena avulsa dal sistema), non sia possibile rimettere in discussione il giudicato.
Applicando tale principio alla questione rimessa alle Sezioni Unite, deve affermarsi, quindi, che, quando la pena accessoria inflitta sia frutto di un errore valutativo del giudice della cognizione, non sia possibile emendarla in sede esecutiva.
6.2. In secondo luogo, l'intervento del giudice dell'esecuzione è ammesso sempre che non implichi valutazioni discrezionali in ordine alla specie ed alla durata della pena accessoria.
Tanto è ricavabile dallo stesso art. 183 disp. att. cod. proc. pen., che consente al pubblico ministero di richiedere, quando non si sia provveduto in sede di cognizione, l'applicazione di una pena accessoria, purché questa sia "predeterminata dalla legge nella specie e nella durata".
Anche in tema di disciplina del concorso formale e del reato continuato a norma dell'art. 671 (nella quale, come si è visto, per espresso dettato normativo, maggiori sono i poteri riconosciuti al giudice dell'esecuzione), l'art. 187 disp. att. cod. proc. pen. prevede che si considera violazione più grave quella per la quale è stata inflitta la pena più grave, anche quando per alcuni reati si è proceduto con giudizio abbreviato.
Tale specifica regola, diversa da quella operante nella fase di cognizione, è dettata dai limitati poteri dell'organo giurisdizionale in executivis, chiamato a dare attuazione al dictum contenuto nella sentenza, interpretandolo od integrandolo, senza facoltà di determinarlo. E tale diversità non è in contrasto con il parametro costituzionale dell'art. 24 Cost., poiché i poteri del giudice dell'esecuzione sono ispirati al criterio della intangibilità del giudicato e consistono nel rideterminare il trattamento sanzionatorio sulla base di un criterio oggettivo meno discrezionale di quello spettante al giudice della cognizione (cfr. Sez.l, n. 6362 del 31/01/2006, Zungri, Rv. 233442).
L'applicazione della confisca, rientrante tra le altre competenze del giudice dell'esecuzione ex art. 676 cod. proc. pen., riguarda solo la confisca obbligatoria.
Quella facoltativa, infatti, può essere disposta soltanto dal giudice che pronuncia la condanna e non, quindi, nella fase esecutiva (tra le altre Sez. 1, n. 27172 del 16/04/2013, Biosa, Rv.256614; Sez. 1, n. 17546 del 20/04/2012, Ebrahim, Rv. 252888).
In applicazione del dato di sistema, che esclude interventi che comportino valutazioni di carattere discrezionale del giudice dell'esecuzione, si è ritenuto, tra l'altro, che il condannato con sentenza definitiva per il delitto di cui all’art. 630 cod. pen. non possa, a seguito della sentenza Corte cost. n. 68 del 2012, richiedere in sede esecutiva il riconoscimento dell'attenuante di cui all'art. 311 cod. pen. (Sez. 1, n. 28468 del 23/04/2013, Facchineri, Rv. 256118), ovvero che il mancato adempimento, entro il termine fissato, dell'obbligo di demolizione del manufatto abusivo, cui sia subordinata la concessione della sospensione della pena, determini la revoca di diritto del beneficio, non essendo attribuito al giudice dell'esecuzione alcun margine di discrezionalità (Sez. 3, n. 32834 del 19/06/2013, Natalizi, Rv. 255874).
6.3. Tra le pene accessorie emendabili in sede esecutiva senza alcuna discrezionalità valutativa, può farsi riferimento, a titolo esemplificativo, alle previsioni dell'art. 29 cod. pen., che ancorano, in modo tassativo, la pena accessoria della interdizione perpetua dai pubblici uffici a condanne inflitte per una pena principale non inferiore a cinque anni ovvero che contengano la dichiarazione di abitualità o di professionalità nel delitto, e quella della interdizione temporanea per la durata di anni cinque in relazione a condanne per pene non inferiori a tre anni, ovvero a quelle di cui all’art. 609-nonies, primo comma, n. 2, cod. pen. (interdizione perpetua da qualsiasi ufficio attinente alla tutela, alla curatela e all'amministrazione di sostegno); o ancora a quelle dell'art. 317-bis cod. pen. (interdizione perpetua dai pubblici uffici in caso di condanna non inferiore a tre anni), dell'art. 512 cod. pen. (interdizione da ogni ufficio sindacale per la durata di anni cinque) e dell'art. 216 r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (inabilitazione, per la durata di anni dieci, all'esercizio di un'impresa commerciale e l'incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa).
Non sono consentiti, invece, interventi manipolatori del giudicato che comportino, da parte del giudice dell'esecuzione, l'esercizio di poteri discrezionali, con il ricorso ai criteri di cui all'art. 133 cod. pen., per la determinazione della durata della pena accessoria.
6.4. Aspetti particolari presenta l'art. 37 cod. pen. che prevede, nel caso in cui ad una condanna debba conseguire una pena accessoria temporanea non espressamente determinata, che essa abbia una durata uguale a quella della pena principale (anche se in nessun caso può oltrepassare il limite minimo e quello massimo stabiliti per ciascuna specie di pena accessoria).
La norma è di facile applicazione nel caso in cui il legislatore si limiti ad indicare soltanto il tipo di pena accessoria applicabile, come ad es. per alcune delle ipotesi previste dall'art. 609-nonies cod .pen., ovvero dell'art. 317-bis cod. pen. che fa genericamente riferimento all'interdizione temporanea dai pubblici uffici, oppure ancora dell'art. 31 cod. pen. che prevede l'interdizione temporanea dai pubblici uffici in relazione ad ogni condanna per delitti commessi con abuso di un pubblico ufficio o di una professione o di un'arte.
In tutti tali casi non c'è dubbio che la durata della pena accessoria dovrà essere commisurata alla durata della pena principale inflitta.
Diverso è il caso in cui la pena accessoria sia indicata con un limite minimo o massimo di durata. In proposito si sono formati due indirizzi interpretativi.
Secondo un primo orientamento, il disposto dell'art. 37 cod. pen. non trova applicazione quando la pena accessoria sia indicata con la previsione di un minimo o di un massimo, giacché anche in tal caso la pena accessoria deve considerarsi espressamente determinata dalla legge e spetta al giudice stabilirne, in concreto, la durata attraverso i parametri di cui all'art. 133 cod. pen. (in tal senso, tra le altre, Sez. F, n. 35729 del 01/08/2013, Agrama, Rv. 256581; Sez. 3, n. 42889 del 15/10/2008, Di Vincenzo, Rv. 241538; Sez. 3, n. 25299 del 17/04/2008, Ravara, Rv. 240256; Sez. 3, n. 42889 del 15/10/2008, Di Vincenzo, Rv. 241538; Sez. 5, n. 759 del 21/09/1989, Denegri, Rv. 183110).
Per un secondo orientamento, invece, può parlarsi di pena "espressamente determinata" solo quando il legislatore fissi in concreto la durata, mentre in tutti gli altri casi (sia che venga indicato il minimo e il massimo, ovvero il solo minimo o il solo massimo), trova applicazione l'art. 37 cod. pen. e quindi la pena accessoria va determinata con riferimento a quella principale inflitta (così Sez. 3, n. 20428 del 02/04/2014, S., Rv. 259650; Sez. 5, n. 29780 del 30/06/2010, Ramunno, Rv. 248258; Sez. 3, n. 41874 del 09/10/2008, Azzani, Rv. 41874; Sez. 1, n. 19807 del 22/04/2008, Ponchia, Rv. 240006; Sez. 5, n. 9198 del 15/03/2000, Albini, Rv. 215987).
Ritengono le Sezioni Unite che sia condivisibile il secondo indirizzo interpretativo.
Non risulta decisivo l'argomento adoperato da Sez. F, n. 35729 del 2013, cit., secondo cui, in presenza di una forbice applicativa, tra un minimo ed un massimo, il legislatore abbia inteso dare applicazione ai principi costituzionali della individualizzazione e funzione rieducativa della pena, demandando al giudice di merito una valutazione discrezionale sulla base dei parametri di cui all'art. 133 cod. pen.
Anche ancorando la pena accessoria a quella principale, risultano rispettati, infatti, gli indicati principi costituzionali, dal momento che di essi ha già tenuto conto il giudice di merito nell'applicare la pena principale e, di riflesso, quella accessoria.
Deve quindi farsi ricorso alla interpretazione letterale, tenendo conto anche della collocazione sistematica della norma.
Pena "espressamente determinata" è solo quella che sia stata indicata nella specie e nella durata, come del resto confermato dall'art. 183 disp. att. cod. proc. pen. che consente di rimediare, come si è visto, in sede esecutiva, in maiam partem, alla omissione dell'applicazione di una pena accessoria, purché essa sia «predeterminata nella specie e nella durata».
La determinazione o predeterminazione per legge presuppone, quindi, che non vi sia margine di discrezionalità nell'applicazione della pena. E tanto certamente non si verifica quando sia previsto un minimo ed un massimo entro il quale il giudice possa spaziare.
Ma, a ben vedere, nelle ipotesi alle quali fa riferimento l'indirizzo interpretativo sopra indicato, non può parlarsi neppure di uno "spettro", di una "forbice" o di un "intervallo" edittale.
Significativamente il legislatore non adopera le preposizioni "da" "a", cui ordinariamente ricorre nell'indicare la pena edittale per i reati, ma sempre le parole "non inferiore" e "non superiore" oppure "fino a".
Ulteriore argomento letterale, che fa propendere per il secondo orientamento interpretativo, è rappresentato dall'inciso finale del medesimo articolo 37 cod. pen., laddove si specifica che «in nessun caso può oltrepassarsi il limite minimo e quello massimo stabiliti per ciascuna specie di pena accessoria».
Non vi sarebbe stata, invero, necessità di tale precisazione, se il principio della uniformità temporale tra pena principale e pena accessoria, sancito dalla norma, non avesse trovato applicazione nelle ipotesi di indicazione di un minimo o di un massimo della durata di ciascuna specie di pena accessoria.
E' quindi la norma stessa a stabilire implicitamente che il criterio in essa formulato trovi applicazione anche quando sia previsto un minimo o un massimo.
Infine, ragioni riconducibili alla collocazione sistematica della norma confermano gli argomenti di carattere letterale in precedenza evidenziati
L'art. 37 cod. pen. è norma di carattere generale che è collocata alla fine del Capo III del Titolo II del Libro I del codice penale, riservato alle pene accessorie; è posto quindi come norma di "chiusura" che trova applicazione in ogni ipotesi in cui il legislatore non abbia diversamente stabilito, attraverso una indicazione precisa della durata della pena accessoria da applicare.
Ed infatti, quando il legislatore ha voluto indicare tale durata, lo ha espressamente stabilito, come si ricava dal disposto dell'art. 29 cod. pen. in relazione all'interdizione perpetua o temporanea dai pubblici uffici.
Con le espressioni "non inferiore", "non superiore", "fino a" si è, quindi, voluto soltanto stabilire un limite invalicabile, nel minimo o nel massimo, senza alcuna indicazione della durata della pena accessoria, e si è demandato al giudice di parametrarla a quella della pena principale.
Va ricordato, infine, che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 134 del 2012, nel dichiarare inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 216, ultimo comma, r.d. 16 marzo 1942, n. 267, sollevate in riferimento agli articoli 3, 4 e 27, terzo comma, e 41 della Costituzione, ribadiva (da ultimo ord. n. 293 del 2008), da un lato, «l'opportunità che il legislatore ponga mano ad una riforma del sistema delle pene accessorie, che lo renda pienamente compatibile con i principi della Costituzione ed in particolare con l'art. 27, terzo comma», e, dall'altro, riteneva che l'addizione normativa richiesta dai giudici rimettenti non costituiva una soluzione costituzionalmente obbligata.
A tale ultimo proposito evidenziava che si chiedeva alla Corte di aggiungere le parole "fino a" all'ultimo comma dell'art. 216 al fine di rendere applicabile l'art. 37 cod. pen., ma che tale soluzione era soltanto una di quelle «astrattamente ipotizzabili in caso di accoglimento della questione: infatti sarebbe anche possibile prevedere una pena accessoria predeterminata ma non in misura fissa (ad esempio da cinque a dieci anni) o una diversa articolazione delle pene accessorie in rapporto all'entità della pena detentiva».
Vi era, quindi, l'implicito riconoscimento che la soluzione indicata dai giudici rimettenti (una delle possibili), è cioè con l'aggiunta alla disposizione normativa delle parole "fino a", avrebbe reso possibile l'applicazione dell'art. 37 cod. pen.
Anche in tutte le ipotesi previste dall’art. 37 cod. pen. (secondo l'interpretazione in precedenza prospettata) deve, pertanto, ritenersi consentito l'intervento in executivis: pur non essendo la durata della pena accessoria predeterminata per legge, è possibile, infatti, determinarla con certezza ed automaticamente (senza alcuna valutazione discrezionale del giudice della esecuzione), sulla base della durata della pena principale inflitta dal giudice della cognizione, tenendo conto dei limiti invalicabili previsti per ciascuna specie.
7. Va, quindi, affermato il seguente principio di diritto:
"L'applicazione di una pena accessoria extra o contra legem da parte del giudice della cognizione può essere rilevata, anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza, dal giudice dell'esecuzione, purché essa sia determinata per legge (o determinabile, senza alcuna discrezionalità) nella specie e nella durata, e non derivi da un errore valutativo del giudice della cognizione".
8. Alla stregua del principio di diritto in precedenza enunciato, il ricorso risulta infondato e va, pertanto, rigettato.
8.1. Il G.u.p., nell'individuare, peraltro erroneamente (cfr. Sez. U, n. 25939 del 28/02/2013, Ciabotti), il reato più grave in quello di cui all'art. 609-bis cod. pen. (punito con la pena della reclusione da cinque a dieci anni, mentre l'art. 317 cod. pen., all'epoca dei fatti, era sanzionato con la pena della reclusione da quattro a dodici anni, e quindi con una pena detentiva maggiore nel massimo), non ha comunque tenuto conto di quanto disposto dall’art. 77 cod. pen.
Tale articolo (rubricato "Determinazione delle pene accessorie") prevede al primo comma: «Per determinare le pene accessorie e ogni altro effetto penale della condanna, si ha riguardo ai singoli reati per i quali è pronunciata la condanna, e alle pene principali che, se non vi fosse concorso di reati, si dovrebbero infliggere per ciascuno di essi».
Avrebbe dovuto, quindi, il G.u.p. indicare la pena che, se non vi fosse stato il concorso, sarebbe stata inflitta in concreto per il reato di cui all'art. 317 cod. pen.
8.2. In mancanza di siffatta indicazione, la pena accessoria (non predeterminata nella durata) non è neppure determinabile, non potendosi far riferimento, ai sensi dell'art. 37 cod. pen, alla durata della pena principale.
In relazione al reato di cui all'art. 317 cod. pen., per il quale il Basile è stato condannato, la pena accessoria della interdizione dai pubblici uffici è, infatti, ai sensi dell'art. 317-bis cod. pen., perpetua, nondimeno, se per circostanze attenuanti viene inflitta la reclusione per un tempo inferiore a tre anni, la condanna importa l'interdizione temporanea.
Né, in contrasto con quanto espressamente previsto dall'art. 77 cod. pen., può farsi riferimento, come assume il ricorrente, all'aumento applicato ex art. 81 cod. pen.
8.3. Correttamente pertanto il G.i.p. ha rigettato la richiesta di
rideterminazione della pena accessoria della interdizione perpetua dai pubblici uffici in quella della interdizione temporanea, in quanto essa presupponeva un intervento, di carattere discrezionale (per la determinazione della durata), del Giudice dell'esecuzione.

                                                                  P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 27/11/2014.