Ove non sia possibile individuare il luogo di commissione del reato pių grave applicando i criteri dettati dagli artt. 8 e 9, comma 1, c.p.p., il giudice competente č quello del luogo in cui risulta commesso, in via a mano a mano gradata, il reato successivamente pių grave. 


1. ***** fu rinviato a giudizio dinanzi al tribunale di Tivoli per rispondere di tre reati di ricettazione e di tre reati di truffa, in continuazione tra loro, realizzati mediante la negoziazione di assegni di illecita provenienza.Il giudice, con sentenza del 17 giugno 2008, rilevato il vincolo di connessione esistente tra i delitti contestati, individuò i reati più gravi in quelli di ricettazione, per i quali però era impossibile determinare il luogo di consumazione. Di conseguenza, applicò, con riferimento a tali reati, la regola suppletiva di cui all'art. 9, comma 2, cod. proc. pen. e quindi dichiarò l'incompetenza territoriale del tribunale di Tivoli, per essere competente quello di Roma, luogo di residenza dell'imputato.
Il pubblico ministero presso il tribunale di Roma richiese al giudice per le indagini preliminari l'archiviazione perché il fatto non costituisce reato, sollecitandolo peraltro a sollevare conflitto negativo di competenza.
Il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Roma, con ordinanza del 27 marzo 2009, sollevò il conflitto negativo di competenza, osservando che, laddove non è possibile stabilire la competenza per territorio in funzione del luogo di commissione del più grave dei reati in continuazione, deve aversi riguardo al luogo di commissione degli altri (meno gravi) reati connessi e non devono invece applicarsi i criteri sussidiari previsti dall'art. 9 cod. proc. pen. in relazione al reato più grave. Nella specie, pertanto, essendo stato consumato il primo reato di truffa nel circondario del tribunale di Tivoli, la competenza per tutti i reati connessi spettava proprio al giudice che, con sentenza, l'aveva denegata.

2. La prima sezione penale — cui il conflitto era stato assegnato —, con ordinanza dell'11 maggio 2009, rilevata l'ammissibilità del conflitto stesso, lo ha rimesso alle Sezioni Unite per la risoluzione della questione se, ai fini della determinazione della competenza per territorio in ordine a reati connessi, qualora non sia possibile individuare il luogo di consumazione del reato più grave, debba farsi ricorso ai criteri suppletivi di cui all'art. 9 cod. proc. pen. sempre in riferimento al reato più grave, ovvero debba aversi riguardo al luogo di commissione del più grave tra i reati residui. Rileva l'ordinanza che, secondo l'orientamento giurisprudenziale assolu-tamente maggioritario, nell'ipotesi in esame non si deve fare riferimento alle regole suppletive stabilite dall'art. 9 cod. proc. pen., bensì al luogo di consuma¬zione del reato che, in via decrescente, si presenta come il più grave tra quelli residui. Invece, secondo un orientamento più recente e decisamente minoritario, si deve sempre attribuire la competenza al giudice che risulta competente per il reato più grave in applicazione di tutte le regole stabilite per determinare la competenza, incluse quelle suppletive previste dall'art. 9.
L'ordinanza di rimessione osserva che un primo argomento su cui si basa l'orientamento dominante — ossia che l'art. 9 cod. proc. pen. si riferirebbe a procedimenti con reato singolo e non a quelli con più reati connessi — non è concludente perché l'art. 16 cod. proc. pen. mutua la competenza per territorio per i reati connessi richiamando proprio la regola di determinazione della competenza per il reato singolo, quello appunto più grave. Un secondo argomento — continuità normativa con la giurisprudenza precedente e rispetto dei valori della certezza del diritto e della uniforme interpretazione della legge — non è invece pertinente perché in realtà non vi è continuità normativa. L'art. 16 del nuovo codice di rito, infatti, ha innovato radicalmente il criterio primario di collegamento, poiché ha rinviato non più ad un dato fattuale di tipo geografico, ma ad un dato giuridico, attribuendo la competenza per territorio per tutti i reati al «giudice competente per il reato più grave».
Pertanto, secondo l'ordinanza di rimessione, il criterio di collegamento costituito dal luogo di commissione del reato più grave è assolutamente estraneo alla disciplina vigente, la quale, determinando la competenza territoriale per i reati connessi in funzione (non del luogo di commissione ma) della competenza per il reato più grave, involge necessariamente il richiamo di tutte le regole stabilite circa la competenza per territorio dagli artt. 8, 9 e 10 cod. proc. pen. L'esclusione dei criteri sussidiari di cui all'art. 9 e l'adozione del criterio (non previsto) del luogo di commissione del reato più grave, sarebbero dunque arbitrarie e frutto di interpretazione contra legem, in quanto sovvertono il criterio legale di attrazione nella competenza territoriale del reato più grave e realizzano l'esatto contrario, ossia l'attrazione nella cognizione del giudice competente per il reato meno grave di quello più grave, illegittimamente sottraendolo al giudice naturale, territorialmente competente.
Ritenendo di doversi discostare dall'orientamento dominante e di aderire a quello minoritario, il collegio ha, pertanto, investito della questione le Sezioni Unite.
Il Primo Presidente Aggiunto ha quindi assegnato il ricorso alle Sezioni Unite Penali, per la trattazione all'odierna udienza in camera di consiglio.

 

Motivi della decisione


3. Va preliminarmente dichiarata l'ammissibilità in rito del conflitto, in quanto l'indubbia esistenza di una situazione di stasi processuale, derivata dal rifiuto, formalmente manifestato, di due giudici a conoscere dello stesso procedimento appare insuperabile senza l'intervento di questa Suprema Corte.
4. Alle Sezioni Unite è stato rimesso il seguente quesito: «se, ai finì della determinazione della competenza per territorio in ordine a reati connessi, qualora non sia possibile individuare il luogo di consumazione del reato più grave, debba farsi ricorso ai criteri suppletivi di cui all'art. 9 cod. proc. pen. sempre in riferimento al reato più grave, ovvero debba aversi riguardo al luogo di commissione del più grave tra i reati residui».
5. Nel codice di rito del 1930, il caso era regolato dall'art. 47 {Effetti della connessione sulla competenza per territorio), il quale disponeva che «La competenza per  i procedimenti connessi rispetto ai quali più giudici sono egualmente competenti per materia appartiene a quello tra essi nella circoscrizione del quale fu commesso il reato più grave о in caso di pari gravità il maggior numero di reati».
Nella vigenza di tale disposizione, la giurisprudenza assolutamente domi¬nante di questa Corte aveva costantemente affermato il principio che l'individuazione del giudice competente per i procedimenti connessi doveva essere effettuata non già facendo ricorso ai criteri sussidiari indicati dall'art. 40 cod. proc. pen. (ora, art. 9), bensì procedendo a graduale considerazione del reato (o dei reati) meno gravi, con attribuzione della competenza al giudice del luogo in cui risultava consumato, con oggettivo carattere di certezza, il reato (o i reati) minore rispetto al primo (o ai primi).
La giurisprudenza specificava quindi che «Quando non è possibile deter-minare la competenza per territorio con riferimento ai reati più gravi rispetto ad altri contestati, ma di pari gravità tra loro, perché commessi in pari numero in diverse circoscrizioni, ovvero perché non è possibile individuare il luogo in cui ciascuno di essi fu commesso, la individuazione del giudice competente deve farsi prendendo in considerazione, gradatamente, i reati meno gravi rispetto a quelli inizialmente considerati, e quindi osservando, rispetto al detto secondo gruppo di reati, gli stessi criteri dettati dall'art 47 cod. proc. pen. Se, pertanto, tale secondo gruppo di reati, meno gravi rispetto a quelli inizialmente considerati, comprende reati tra di loro di pari gravità commessi in numero diverso in diverse circoscrizioni, la competenza spetta al giudice nella cui circoscrizione è stato commesso il maggior numero dì tali reati» (così Sez. I, 7.2.1966, n. 126, Hermany, m. 101082; nello stesso senso, Sez. I, 6.2.1963, Bovile, non mass., in Cass. pen. Mass. ann. 1963, p. 899, m. 1642; Sez. I, 9.6.1964, Lutti, non mass., ivi 1965, p. 817, m. 1449; Sez. I, 14.6.1967, n. 1918, De Masis, m. 105668; Sez. I, 13.11.1970, n. 2264/71, Pasquero, m. 116993; Sez. I, 24.2.1981, n. 329, Zan-grillo, m. 148635; Sez. I, 31.5.1982, n. 1157, Mulinacci, m. 154594; Sez. I, 25.6.1982, n. 1437, Giuntoni, m. 156174; Sez. I, 2.12.1983, n. 2061/84, Maca-luso, m. 162730; Sez. I, 5.3.1984, n. 478, Misulin, m. 163923; Sez. I, 25.10.1985, n. 2658, Mori, m. 171117; Sez. I, 25.2.1986, n. 1053, Grieco, m. 172300; Sez. I, 21.1.1991, n. 181, Venturi, m. 187295; contra Sez. I, 6.11.1980, n. 2752, Cerbene, m. 146812, rimasta isolata, senza dar conto del contrario e consolidato orientamento e senza particolare motivazione).

6.1. Nel vigente codice di procedura penale la materia è disciplinata dall'art. 16 {Competenza per territorio determinata dalla connessione), il quale stabilisce, al primo comma, che «La competenza per territorio per i procedimenti connessi rispetto ai quali più giudici sono ugualmente competenti per materia appartiene al giudice competente per il reato più grave e, in caso di pari gravità, al giudice competente per il primo reato».
Nonostante la diversa formulazione letterale, la giurisprudenza assolutamente dominante di questa Corte, anche dopo l'entrata in vigore della nuova disposizione, ha continuato a seguire l'interpretazione secondo la quale, ai fini della determinazione della competenza per territorio, quando si tratta di più reati connessi, le disposizioni dell'art. 9 cod. proc. pen. devono essere coordinate con quelle di cui al successivo art. 16, sicché ove non sia possibile individuare il luogo di commissione del reato più grave, giudice competente deve ritenersi quello del luogo in cui risulta commesso il reato che, in via decrescente, si pre-senta come meno grave rispetto al primo e più grave rispetto agli altri residui, non essendo consentito fare ricorso alle regole suppletive stabilite dall'art. 9 cod. proc. pen. (Sez. II, 17.3.1993, n. 5771, Giorgi, m. 194047; Sez. I, 24.9.1993, n. 3624, Cortellucci, m. 195429; Sez. I, 22.5.2000, n. 3731, D'Angelo, m. 216739; Sez. III, 3.10.2000, n. 3522, Pitzettu, m. 218530; Sez. VI, 6.11.2000, n. 4089, Tenaglia, m. 217908, specie punto 11 della motivazio-ne; Sez. I, 12.5.2004, n. 25685, De Simone, m. 228142; Sez. I, 17.10.2007, n. 3947, Halilovic, m. 238372; Sez. I, 22.5.2008, n. 22763, Antonelli, m. 239887; Sez. I, 26.6.2008, n. 29160, Barrerò, m. 240480; Sez. I, 3.10.2008, n. 38459, Babul, non mass.).
Le ragioni sulle quali tale orientamento è stato fondato sono soprattutto due:
a) in primo luogo, e principalmente, si fa riferimento alla esigenza di dare continuità alla giurisprudenza formatasi nella vigenza del codice di rito abrogato. Si osserva infatti che, «considerata la immutata identità di ratio fra l'art. 47 del cod. proc. pen. del 1930 e l'art. 16, comma 1, del nuovo codice di rito, le cui disposizioni attribuiscono uguale forza attrattiva al più grave dei reati con-nessi, deve ritenersi che è ancora attuale l'indirizzo giurisprudenziale formato-sì nel vigore dell'abrogato codice dì rito» (Sez. II, 17.3.1993, n. 5771, Giorgi, m. 194047; Sez. I, 5.4.2001, n. 17516, Cisse, m. 218684).
b) in secondo luogo, si sostiene che l'art. 9 cod. proc. pen., sia per la sua collocazione sia per il suo contenuto letterale, si riferisce unicamente a proce¬dimenti con reato singolo, sicché non è applicabile a quelli oggettivamente complessi, concernenti più reati connessi tra loro (v. Sez. I, 24.9.1993, n. 3624, Cortellucci, m. 195429; Sez. I, 5.4.2001, n. 17516, Cisse, m. 218684).

6.2. A fronte di tale consolidato orientamento, è stata di recente consape-volmente espressa una tesi contraria, secondo la quale, invece, nel caso in cui sia ignoto il luogo di commissione del più grave tra i reati connessi, le regole suppletive devono trovare applicazione anche con riferimento alla competenza per connessione, e ciò «perché l'art. 16 c.p.p., comma 1, rinvia a tutte le regole stabilite per determinare la competenza in ordine al reato più grave, incluse quelle suppletive previste dall'art. 9 c.p.p.; il criterio della decrescente gravità si direbbe frutto di "interpretazione creativa ". La competenza va quindi individuata con riferimento al reato più grave, anche in applicazione delle regole suppletive dettate dall'art. 9 c.p.p:' (Sez. V, 21.11.2007, n. 46828, Albertini, m. 238888; nello stesso senso Sez. I, 11.12.2007, n. 1515/08, Di Perna, non mass., ma senza dar conto del consolidato orientamento contrario).
A volte (v. Sez. V, 21.11.2007, Albertini, cit.) si è fatto riferimento, a sup-porto di questo orientamento minoritario, anche ad altre decisioni (Sez. I, 7.10.1991, n. 3617, Liseno, m. 188816; Sez. Ili, 3.10.2000, n. 3522/01. Pitzettu,m. 218530; Sez. I, 7.12.2005, n. 45388, Saya, m. 233359), le quali però, come la stessa ordinanza di rimessione puntualmente evidenzia, sono in realtà attinenti a fattispecie diverse ed ispirate a diversa ratio deciderteli. Così, la sentenza Li-seno concerne il caso di un unico reato continuato, commesso in luogo non accertato e in concorso tra soggetti residenti in circoscrizioni diverse, per il quale trova applicazione il criterio di chiusura dell'art. 9, comma 3, cod. proc. pen.; le sentenze Pitzettu e Saya si pongono sostanzialmente nel solco del contrario e prevalente orientamento — peraltro espressamente richiamato e ribadito nellau prima di queste due sentenze — in quanto pervengono alla determinazione della competenza territoriale dei reati connessi sulla base dei criteri suppletivi di cui all'art. 9 cod. proc. pen. con riferimento al reato più grave, soltanto perché per nessuno dei residui (e meno gravi) reati era possibile stabilire il luogo di consumazione ai sensi dell'art. 8 cod. proc. pen.

6.3. La tesi minoritaria è stata condivisa e sviluppata, con una ampia ed approfondita motivazione, dall'ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite, la quale innanzitutto critica le argomentazioni poste a sostegno della tesi dominante. In primo luogo, l'ordinanza ritiene non pertinente l'esigenza di dare continuità alla giurisprudenza formatasi nella vigenza del codice di rito abrogato, in quanto in realtà non esiste continuità normativa fra la vecchia e la nuova disciplina della competenza per territorio per i procedimenti relativi a reati connessi. Infatti, l'art. 47 del codice di rito del 1930 introduceva un criterio autonomo e diretto di determinazione della competenza per i reati connessi, sulla base del collegamento costituito dal luogo di commissione del reato più grave (ovvero del maggior numero di reati se di pari gravità). E' allora comprensibile che la giurisprudenza, nel caso in cui tale luogo fosse ignoto, avesse fatto riferimento al reato seguente, in ordine (decrescente) di gravità, tra quelli connessi, del quale fosse accertato il luogo di commissione. Invero, proprio la fedeltà al criterio di collegamento fissato dalla legge accreditava l'interpretazione secondo cui il richiamo al reato più grave doveva intendersi circoscritto dalla clausola limitativa, sottesa: «del quale è noto il luogo della commissione». L'art. 16 del nuovo codice di rito, invece, contiene una innovazione radicale circa il criterio primario di collegamento, perché opera un rinvio non ad un dato di tipo fattuale (come quello geografico del codice abrogato), bensì al dato giuridico della compe¬tenza per territorio (in ordine al reato più grave), attraendo tutti i residui reati connessi nella competenza territoriale del «giudice competente per il reato più grave». In secondo luogo, l'ordinanza di rimessione ritiene non concludente l'argomento che l'art. 9 cod. proc. pen. si riferisce a procedimenti con reato singolo, e non contempla l'ipotesi di una pluralità di reati in connessione, e ciò perché l'art. 16 mutua la competenza per territorio per i procedimenti connessi da quella per il reato più grave, ossia richiamando proprio la regola di determinazione della competenza per il reato singolo, quello appunto più grave.
Secondo l'ordinanza di rimessione, quindi, dovrebbe accogliersi l'orientamento minoritario in base al quale, in osservanza del criterio primario fissato dall'art. 16, comma 1, ai fini della determinazione della competenza per territorio per i reati connessi, deve aversi sempre esclusivo riguardo alla competenza per il più grave dei reati, da individuare con l'applicazione delle regole generali e, se del caso, di tutte quelle suppletive, nessuna esclusa. Ciò in sostanza per le seguenti ragioni:
a) il criterio di collegamento costituito dal luogo di commissione del reato più grave (così come ogni altro criterio di tipo materiale e fattuale) è assolutamente estraneo alla vigente disciplina positiva;
b) l'art. 16 cod. proc. pen., determinando la competenza territoriale per i reati connessi in funzione (non del luogo di commissione ma) della competenza per il reato più grave, ossia con un collegamento esclusivamente giuridico, involge necessariamente il richiamo di tutte le regole stabilite circa la competenza per territorio dagli artt. 8, 9 e 10 cod. proc. pen. Sarebbe pertanto arbitraria l'esclusione, ai fini della determinazione della competenza del reato più grave (e conseguentemente di tutti i reati connessi) dei criteri sussidiari previsti dall'art. 9 cod. proc. pen.
c) l'esclusione dei criteri sussidiari di cui all'art. 9 e l'adozione del diverso criterio di collegamento (non previsto dalla norma) del luogo di commissione del reato gradatamente meno grave si tradurrebbero in una interpretazione contro legem, in quanto sovvertono il criterio legale di attrazione nella competenza territoriale del reato più grave e realizzano l'esatto contrario, ossia l'attrazione nella cognizione del giudice competente per il reato meno grave di quello più grave, illegittimamente sottraendolo al giudice naturale, territorialmente competente.

7. Ritengono le Sezioni Unite che debba confermarsi — con la precisazione di cui si dirà — l'orientamento dominante, essendo tuttora valide e condivisibili le ragioni che lo sorreggono. Al contrario, non appaiono fondate le argomentazioni addotte dall'orientamento minoritario, che sono non decisive e si basano su una interpretazione meramente letterale della disposizione, senza tenere conto della sua ratio e di una sua esegesi logico-sistematica.

7.1. E' innanzitutto fallace l'argomento secondo cui la tesi dominante darrebbe luogo ad una interpretazione contro legem e sovvertirebbe il criterio legale di determinazione della competenza sottraendola al giudice naturale. Ed invero—a parte il rilievo che, come si vedrà, è proprio l'orientamento minoritario ad essere non conforme al principio del giudice naturale — è evidente come tale argomento dia per certo e si fondi proprio su ciò che invece è tutto da dimostrare, ossia che il criterio legale di determinazione della competenza per i reati connessi sia sempre e solo quello della competenza per il reato più grave — isolatamente considerato — anche quando non ne è noto il luogo di commissione e che il giudice naturale sia sempre e solo quello competente per il reato più grave. Se infatti, attraverso le normali regole ermeneutiche, si giunge ad una diversa interpretazione della disposizione, allora anche il giudice naturale precostituito per legge sarà proprio quello del luogo di commissione del reato gradatamente meno grave e sarà proprio questo il criterio legale di determinazione della competenza.

7.2. Gli altri due argomenti, come già rilevato, si dimostrano non decisivi solo che si superi una interpretazione meramente formale e letterale per operarne una sistematica ed adeguatrice alla luce della ratio della disposizione e dei valori costituzionali di riferimento.
In primo luogo, può invero osservarsi che la tradizione penalistica, fin dall'epoca romana, ha da sempre ritenuto naturale che l'individuazione del giudice penale territorialmente competente a giudicare un dato reato debba richiedere la presenza di un collegamento con il luogo di commissione del reato stesso, per tutta una serie di intuitive ragioni, che vanno dall'esigenza di assicurare un effettivo controllo sociale, a quella di agevolare la raccolta delle prove, a quella di ridurre i disagi per le parti e per i testi. Questa peculiare caratteristica della determinazione della competenza territoriale/in materia penale, è stata sottolineata anche dalla sent. n. 168 del 2006 della Corte costituzionale, la quale ha rilevato che se è vero che la locuzione «giudice naturale» non ha nell'art. 25 Cost. un significato proprio e distinto da quello di «giudice precostituito per legge», deve tuttavia «riconoscersi che il predicato della "naturalità" assume nel processo penale un carattere del tutto particolare, in ragione della "fisiologica" allocazione di quel processo nel locus commissi delieti». Secondo la Corte, quindi, qualsiasi istituto processuale/che producesse l'effetto di "distrarre" il processo dalla sua sede, «inciderebbe su un valore di elevato e specifico risalto per il processo penale; giacché la celebrazione di quel processo in "quel" luogo, risponde ad esigenze di indubbio rilievo, fra le quali, non ultima, va annoverata anche quella - più che tradizionale - per la quale il diritto e la giustizia devono riaffermarsi proprio nel luogo in cui sono stati violati».
La radicazione della competenza nel luogo di manifestazione del reato esprime dunque un valore di rilevanza costituzionale, il cui contenuto non si esaurisce nella garanzia della precostituzione, ma esalta il significato della naturalità del giudice designato come competente.
Tali principi e tali valori sono stati recepiti anche in sede di redazione del vigente codice di procedura penale. Nella Relazione al Progetto preliminare infatti si sottolinea che i casi di connessione sono stati rigorosamente delimitati «al fine di non vulnerare il principio costituzionale del "giudice naturale precostituito per legge"» (pag. 4), chiaramente sottintendendo che sia normalmente tale quello che abbia un collegamento con il luogo di commissione del reato. Si sottolinea anche che la disciplina della competenza per connessione — divenuta «criterio attributivo della competenza analogo a quello stabilito per materia e per territorio» (pag. 4) — è stata costruita nell'ottica di una rigorosa delimitazione della connessione al fine di rispettare il principio del giudice naturale e di perseguire la massima semplificazione, escludendo ogni discrezionalità nella determinazione del giudice competente (pag. 11).

7.3. E' quindi evidente, già sulla sola base di questi principi generali e valori costituzionali, che in caso di dubbio debba essere preferita quella interpretazione che privilegi comunque la necessaria presenza di un collegamento della competenza territoriale con il luogo di commissione di almeno uno dei diversi reati commessi, anche quando tale luogo non sia accertato con riferimento al reato più grave, rispetto ad altre interpretazioni che possano portare ad una competenza territoriale del tutto sganciata dal luogo di manifestazione di almeno una parte della complessa fattispecie criminale. A questa doverosa scelta ermeneutica si potrebbe rinunciare solo qualora la lettera della disposizione fosse talmente chiara ed inequivoca, da non lasciare spazio per una interpretazione che privilegi la ratio legis e la stessa intenzione del legislatore storico.
Ora, è proprio l'orientamento dominante quello che attribuisce preferenza ad un collegamento «certo» con il luogo in cui è stato commesso almeno uno dei segmenti del complesso criminoso, rispetto ai criteri sussidiari di cui all'art. 9, nei quali il nesso tra luogo e fatto illecito si fa più labile. Tra questi criteri, invero, vi è sia quello del luogo di residenza dell'imputato, che potrebbe spostare la competenza in un luogo completamente sganciato da quello di commissione anche della totalità dei reati connessi meno gravi, sia quello fondato sulla iscrizione della notitia criminis, che è sempre stato visto con grande sospetto e giustamente ritenuto utilizzabile solo in caso di assoluta indispensabilità, perché considerato teoricamente esposto al rischio di manipolazioni. La diffidenza verso questo criterio, del resto, è stata espressa dallo stesso legislatore, tanto che la Relazione al Progetto preliminare al cod. proc. pen. vigente afferma che tale criterio suppletivo, ispirato alla direttiva 35, «non consente di superare ogni riserva in ordine alla possibilità del denunciante di scegliere il giudice competente» (pag. 9).

7.4. In secondo luogo, contrariamente a quanto assume l'ordinanza di ri-messione, può ben ritenersi che in realtà non vi sia stata una rottura di continuità normativa, o quanto meno di continuità di ratio legis e di esigenze da tutelare, tra la vecchia e la nuova disciplina in materia di competenza territoriale per i procedimenti connessi, al di là della differenza terminologica (giudice «nella circoscrizione del quale fu commesso il reato più grave» e «giudice competente per il reato più grave»). Ed invero, sempre nella Relazione al Progetto preliminare (pag. 6 s.) si afferma testualmente che «l'articolo 16 contiene una conferma degli ordinari criteri della competenza per territorio determinati dalla connessione ...La disciplina adottata nel comma 1 si discosta da quella dell'art. 47 c.p.p. solo in quanto il criterio sussidiario del luogo in cui è stato commesso il maggior numero di reati è stato sostituito da quello del primo reato. La modifica si è resa necessaria in considerazione della disciplina limitativa che è stata prevista dei casi di connessione: in base a tale disciplina, infatti, il criterio del luogo in cui è stato commesso il maggior numero di reati potrebbe rivelarsi non praticabile in quanto tendenzialmente non dovrebbero verificarsi le attuali situazioni di pluralità di reati attribuiti alla cognizione del medesimo giudice».
L'intenzione del legislatore storico, quindi, era proprio quella di assicurare una continuità normativa con la disciplina precedente, ossia di non modificare (se non per il caso di una pluralità di reati di pari gravità) il criterio principale di attribuzione della competenza e la soluzione da adottare nel caso di impossibilità di accertare il luogo di commissione del reato più grave. E difatti la dottrina aveva subito rilevato che il criterio principale per l'individuazione della competenza per i procedimenti connessi non si discosta dalla tradizione, giacché, al pari dell'art. 47 cod. proc. pen. del 1930, si fonda sulla vis attractiva esercitata dal giudice competente per il reato più grave. Esattamente pertanto la giurisprudenza di questa Corte, fin dalle sue prime decisioni successive all'entrata in vigore del nuovo codice di rito, ha sottolineato l'identità di ratio tra l'art. 47 del cod. proc. pen. del 1930 e l'art. 16, comma 1, del nuovo codice, le cui disposizioni attribuiscono uguale forza attrattiva al più grave dei reati connessi, sicché il dubbio esegetico doveva risolversi dando continuità all'indirizzo giurisprudenziale formatosi nella vigenza del codice precedente.

7.5. In terzo luogo, è indubbio che anche la ratio dell'art. 16, comma 1, in sé e per sé considerato, è quella di assicurare, per quanto possibile, il collegamento tra competenza territoriale e luogo di manifestazione del reato, o almeno di un segmento del complesso criminoso, garantendo il principio, di valore costituzionale, della «fisiologica allocazione» del processo nel locus commissi delieti. Ora, questa ratio sarebbe certamente non tutelata pienamente se il criterio oggettivo di collegamento dovesse venir meno e dovesse invece darsi applicazione agli incerti e non oggettivi criteri suppletivi di cui ai commi 2 e 3 dell'art. 9, solo perché sia impossibile accertare il luogo di commissione del reato più grave, sebbene sia certo il luogo di commissione degli altri reati connessi. Si pensi, ad esempio, all'ipotesi di una serie di reati connessi in cui sia compresa una pluralità di reati più gravi di pari gravità, ed al caso in cui sia noto il luogo di commissione di tutti i reati (più gravi e meno gravi) ad eccezione del primo reato più grave. In questa ipotesi, se dovesse seguirsi l'interpretazione propugnata dall'ordinanza di rimessione, la competenza territoriale dovrebbe comunque essere attribuita al giudice che sarebbe competente per il primo reato più grave isolatamente considerato e perciò al giudice individuato, con riferimento a tale primo reato, in applicazione dei criteri suppletivi di cui ai commi 2 e 3 dell'art. 9, pur essendo noto il luogo di commissione anche degli altri reati di pari gravità. E' evidente che tale interpretazione darebbe luogo ad un sistema irrazionale ed aleatorio, privo di giustificazione alla luce della ratio legis, e certamente meno conforme al valore espresso in materia penale dal principio del giudice naturale.
In sostanza, come ha da tempo acutamente evidenziato una accorta dottrina, l'immediato ricorso al criterio sussidiario, qualora risulti indeterminabile la competenza territoriale in rapporto al luogo di commissione del reato in assolu¬to più grave, renderebbe parziale l'applicabilità dello stesso criterio principale, giacché quest'ultimo verrebbe ad essere pretermesso, pur in presenza di una gerarchia di gravità delle fattispecie connesse, per l'occasionale irrilevanza del primo reato della serie gradata. Effetto questo che, a ben vedere, urta proprio contro il principio di devolvere la reigiudicanda a maggior contenuto di lesività al giudice del luogo in cui tale lesione si è realizzata, che costituisce l'evidente ratio della norma.

7.6. L'interpretazione adottata dalla giurisprudenza dominante non è poi impedita dalla lettera della disposizione. Come si è già ricordato la stessa Relazione al Progetto preliminare del cod. proc. pen. affermava che l'art. 16 contiene una conferma degli ordinari criteri di competenza per territorio determinati dalla connessione, con ciò chiarendo che la diversa espressione utilizzata non implicava affatto — come invece sostiene l'ordinanza di rimessione — un radicale mutamento del precedente sistema di determinazione della competenza per i reati connessi. Tanto che subito dopo l'entrata in vigore del nuovo codice di rito la dottrina più attenta non mancò di rilevare che il criterio principale per l'individuazione delle competenza per i reati connessi non si discostava dalla tradizione e che, in particolare, nonostante la nuova formulazione della disposizione, non si rinvenivano dati testuali per ritenere superato il precedente consolidato orientamento giurisprudenziale. Difatti, anche il nuovo testo continua ad attribuire forza attrattiva al più grave dei reati connessi. Ed effettivamente l'uso della espressione «giudice competente per il reato più grave» al posto di quella di giudice «nella cui circo-scrizione fu commesso il reato più grave» non è, di per sé sola ed in mancanza di altri elementi, significativa di una volontà di operare un così profondo stra-volgimento del sistema di determinazione della competenza per i reati connessi, eliminando totalmente il criterio oggettivo di collegamento costituito dal luogo di commissione del reato più grave e sostituendolo con un nuovo criterio aleatorio, che irrazionalmente isolerebbe il reato più grave dalla complessiva fattispecie criminosa e mutuerebbe la regola di determinazione della competenza in riferimento esclusivamente al reato più grave, isolatamente considerato. Sembra quindi più logico ritenere che anche la nuova disposizione, quando si è riferita al giudice competente per il reato più grave, non abbia fatto altro che confermare, con una espressione sintetica, che il riferimento va fatto al giudice naturalmente competente perché nella sua circoscrizione è stato commesso il reato più grave e non abbia invece voluto addirittura sostituire, senza peraltro alcuna ap¬parente ragione e razionale giustificazione, un collegamento oggettivo e fattuale (quale richiesto dalla ratio della norma e dai valori costituzionali dianzi richia¬mati) con un diverso criterio giuridico.

7.7. In conclusione, deve confermarsi l'orientamento dominante nella giurisprudenza di questa Corte, orientamento che non costituisce affatto il frutto di una «interpretazione creativa» e tanto meno di una «interpretazione contra legem» o addirittura contraria al principio del giudice naturale, bensì il frutto di una interpretazione logico-sistematica, aderente alla ratio della disposizione e maggiormente conforme al principio della naturalità del giudice nel processo penale.

8.1. Occorre tuttavia fare un'ulteriore precisazione, dal momento che nell'applicazione dell'orientamento che qui viene confermato si sono talora verificati alcuni equivoci. Secondo il principio adottato, dunque, qualora non sia noto il luogo di commissione del reato più grave (o del primo reato) non può farsi ricorso ai criteri suppletivi di cui all'art. 9 cod. proc. pen. in relazione a tale reato, ma deve farsi riferimento, in successione graduata, al reato più grave (o anteriore nel tempo) fra quelli residui. Con la precisazione, però, che il luogo di commissione del reato più grave (o del primo reato) va individuato utilizzando non solo le regole indicate nell'art. 8, ma eventualmente anche quella di cui al primo comma dell'art. 9, secondo cui «se la competenza non può essere deter-minata a norma dell'art. 8, è competente il giudice dell'ultimo luogo in cui è avvenuta parte dell'azione o dell'omissione». Deve quindi specificarsi che i criteri suppletivi ai quali non può farsi immediatamente riferimento sono quelli di cui ai commi 2 e 3 dell'art. 9. E ciò innanzitutto perché, a ben vedere, quello contenuto nel primo comma dell'art. 9 è più un criterio integrativo delle regole generali fissate dall'art. 8 per individuare il luogo di commissione del reato ai fini della competenza per territorio che non un vero e proprio criterio suppletivo per scegliere un giudice competente quando sia sconosciuto il luogo di commissione. In altri termini, per luogo di commissione, ai fini della competenza per territorio, deve intendersi quello risultante dalle regole poste dall'art. 8 e dal primo comma dell'art. 9, ossia il luogo in cui il reato è stato consumato, ovvero il luogo in cui è avvenuta l'azione od omissione se si tratta di fatto dal quale è derivata la morte, ovvero il luogo in cui ha avuto inizio la consumazione se si tratta di reato permanente, ovvero il luogo in cui è stato compiuto l'ultimo atto diretto a commettere il delitto se si tratta di delitto tentato, ed infine, se nessuna di queste regole è utilizzabile, l'ultimo luogo in cui è avvenuta una parte dell'azione o dell'omissione.
Tutte queste regole si basano su un elemento oggettivo di tipo territoriale costituito dal luogo di consumazione o dal luogo in cui comunque si è svolta una parte dell'azione o dell'omissione (o in cui si è verificato l'evento) e mirano primariamente alla medesima finalità di stabilire in quale luogo il reato deve intendersi commesso. La regola di cui all'art. 9, comma 1, del resto, risponde chiaramente alla ratio di affidare il giudizio ad un giudice che, per essere quello dell'ultimo luogo dove si è realizzata parte della condotta, risulta, probabilmente, il più vicino al contesto ambientale in cui si è perfezionato l'illecito. Profondamente diversa è invece la ratio degli altri due criteri subordinati — questi sì realmente suppletivi — che sono privi di qualsiasi collegamento oggettivo e ge-ografico con il fatto reato e sono stati discrezionalmente individuati, per fini pratici, dai commi 2 e 3 dell'art. 9 nel luogo di residenza, o di dimora, o di domicilio dell'imputato, o nel luogo della sede del pubblico ministero che per primo ha iscritto la notizia di reato.
Inoltre, anche a prescindere dalla differenza ontologica tra i detti criteri, le medesime ragioni logico-sistematiche che inducono a scegliere l'interpretazione secondo cui, quando è ignoto il luogo di commissione del reato più grave, deve farsi riferimento al luogo di commissione del reato gradatamente più grave tra quelli residui, inducono anche a ritenere che ciò possa farsi solo quando, in relazione al reato più grave, sia ignoto anche il luogo in cui è avvenuta una parte dell'azione o dell'omissione, ossia non sia applicabile nemmeno la regola dell'art. 9, comma 1.
Ciò deriva dalla considerazione congiunta, da un lato, della ratio legis e dell'esigenza di tutela del principio del giudice naturale, e, dall'altro lato, del fatto che il criterio fondamentale fissato dall'art. 16, comma 1, si incentra primariamente sul reato più grave, in relazione al luogo di commissione del quale, quindi, va innanzitutto assicurata la naturalità del giudice. Sulla base di questi principi, deve pertanto ritenersi che, quando sia accertato il luogo in cui è avve-nuta almeno una parte della condotta del reato più grave, ciò sia sufficiente per attribuire la competenza al giudice di questo luogo, mentre sarebbe immotivato ed illogico passare al reato meno grave. Si pensi, ad esempio, all'ipotesi di un grave reato di cui si conosca il luogo in cui si è svolta la gran parte dell'azione ma non quello di consumazione. Se in tale ipotesi si dovesse attribuire la com¬petenza al giudice del luogo in cui si è consumato un reato connesso molto me¬no grave, solo per la mera ragione formale che la regola integrativa del luogo in cui è avvenuta parte dell'azione o dell'omissione è contenuta nel primo comma dell'art. 9 e non nell'art. 8, si darebbe spazio ad un sistema incongruo e ad una soluzione irrazionale ed in contrasto con la ratio legis.

8.2. Deve dunque ritenersi che qualora per il reato più grave si ignori il luogo di consumazione (o non sia applicabile una delle altre regole dell'art. 8) ma si conosca dove è avvenuta una parte dell'azione o dell'omissione, giudice competente sarà quello dell'ultimo luogo della parte di azione od omissione, ai sensi dell'art. 9, comma 1. Se nessuno di questi luoghi è conosciuto, non si dovrà fare subito ricorso ai criteri suppletivi di cui all'art. 9, commi 2 e 3, ma si dovrà passare al luogo di commissione del più grave, in via successivamente gradata, fra i residui reati connessi. Anche per questo secondo reato, ovviamen¬te, il luogo di commissione andrà individuato applicando in via gradata le rego¬le di collegamento oggettive dettate dall'art. 8 e dall'art. 9, primo comma (cfh, implicitamente, Sez. I, 3.10.2008, n. 38459, Babul, non mass.; Sez. I, 11.12.2007, n. 1515/08, Di Perna, non mass.). Se poi per tutti i reati connessi non sarà possibile individuare il luogo di commissione secondo le regole di cui agli artt. 8 e 9, comma 1, allora si dovrà tornare a fare riferimento al reato più grave ed individuare il giudice competente in relazione a tale reato sulla base innanzitutto del criterio suppletivo di cui all'art. 9, comma 2, e subordinatamente, qualora anche tale criterio non sia utilizzabile (come nel caso di più concorrenti nel reato più grave aventi diverse residenze: Sez. II, 23.1.1997, n. 1312, Mazza, m. 207125; Sez. V, 21.11.2007, n. 46828, Albertini, m. 238888) del criterio suppletivo di cui all'art. 9, comma 3. Nell'ipotesi poi di più reati connessi di pari gravità dovranno ovviamente essere seguite le stesse regole, e quindi si dovrà passare dal primo reato più grave agli ulteriori reati più gravi più recenti nel tempo (cfr. Sez. I, 22.5.2000, n. 3731, D'Angelo, m. 216739; Sez. I, 26.6.2008, n. 29160, Barrero, m. 240480) e poi a mano a mano agli eventuali reati meno gravi, sempre se per nessuno dei reati via via presi in considerazione si conosca il luogo in cui è avvenuta parte dell'azione o dell'omissione.
Queste precisazioni evidenziano anche che l'interpretazione adottata è sì conforme a quella finora dominante, ma si discosta solo in parte da quella mino-ritaria. Questa infatti sostiene che nell'ipotesi in cui si ignori il luogo di consumazione del reato più grave si deve individuare la competenza facendo subito ricorso alle regole suppletive dell'art. 9 con riferimento sempre al reato più grave. Qui si è invece precisato che nella detta ipotesi si deve far ricorso alla sola regola suppletiva di cui all'art. 9, comma 1, mentre quelle di cui ai commi 2 e 3 potranno essere utilizzate solo quando per nessuno dei reati connessi sia individuabile il luogo di commissione.

9. In conclusione, deve dunque affermarsi il seguente principio di diritto: in ipotesi di reati connessi, agli effetti della competenza per territorio ai sensi dell'art. 16, comma 1, cod. proc. pen., ove non sia possibile individuare il luogo di commissione del reato più grave secondo le regole oggettive dettate dagli artt. 8 e 9, comma 1, cod. proc. pen., giudice competente deve ritenersi quello del luogo in cui risulta commesso, in via a mano a mano graduata, il reato successivamente più grave fra gli altri reati connessi. Quando non sia possibile individuare, secondo le dette regole, il luogo di commissione per nessuno dei reati connessi, la competenza spetterà al giudice competente per il reato più grave in applicazione, in via graduata, dei criteri suppletivi di cui ai commi 2 e 3 dell'art. 9.

10. Nel caso in esame è sconosciuto il luogo di consumazione di tutti e tre i più gravi reati di ricettazione. Sulla base dell'enunciato principio di diritto, la competenza va quindi individuata con riferimento ai meno gravi reati di truffa (capi B, D, ed F). Poiché si tratta di reati di pari gravità consumati in luoghi diversi (Guidonia e Roma), deve aversi riguardo al reato consumato per primo, ossia al reato di cui al capo D), commesso in Guidonia il 14.7.2004. Conseguentemente, va dichiarata la competenza del Tribunale di Tivoli, nel cui circondario è stato consumato il primo reato di truffa.

 

Per questi motivi

La Corte Suprema di Cassazione

 

risolvendo il conflitto,dichiara la competenza del Tribunale di Tivoli, cui dispone trasmettersi gliatti.
Così deciso in Roma il 16 luglio 2009.