Rispetto alle circostanza ex art. 61 e 62 c.p., l’entità del danno e l’efficacia della condotta riparatoria devono essere valutate in relazione ad ogni singolo reato e non non al complesso di tutti i fatti illeciti avvinti dal vincolo della continuazione. 


Sentenza n. 3286 del 27 novembre 2008 - depositata il 23 gennaio 2009

Sezioni Unite Penali, Presidente V. Carbone, Relatore A. Fiale

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

 

La Corte di appello di Torino, con sentenza del 2 novembre 2007, in parziale riforma della sentenza resa in data 18.5.2007 dal G.I.P. del Tribunale di quella città (in esito a giudizio celebrato con il rito abbreviato), ribadiva l’affermazione della responsabilità penale di ***** in ordine ai reati di cui:

-- agli artt. 110, 628, commi 1 e 3 n. 1, cod. pen. [perché, in concorso con ***** e ***** nonché con il minorenne *****, al fine di procurarsi un profitto ingiusto, con violenza e minaccia (brandendo, in particolare, con fare intimidatorio una chiave meccanica per svitare i bulloni utilizzata come strumento atto ad offendere) si impossessava di n. 3 telefoni cellulari e di complessivi 30 euro, sottraendoli ai minori ***** e ***** – in Settimo Torinese, il 16.12.2006];

-- agli artt. 110, 61 n. 2, e 337 cod. pen. [perché, in concorso con le persone dianzi indicate, per assicurarsi l’impunità dal reato di rapina, trovandosi alla guida dell’autovettura “*****” targata *****, usava violenza nei confronti dei Carabinieri che tentavano di trarlo in arresto, speronando e tentando di deviare il percorso del veicolo dei militari, nonché tentando di investire con una manovra di retromarcia il brigadiere *****, che veniva attinto di striscio e sbalzato a terra – in Settimo Torinese, tra il 16 ed il 17.12.2006];

-- agli artt. 110, 582, 585, in relaz. all’art. 576, n. 1, cod. pen. [perché, in concorso con le persone dianzi indicate, cagionava al brigadiere ***** ed all’appuntato ***** lesioni personali giudicate guaribili rispettivamente in giorni 10 ed in giorni 7];

-- agli artt. 110, 635, commi 1, 2 n. 1 e 3, cod. pen. [perché, in concorso con le persone dianzi indicate, danneggiava l’auto di servizio dei Carabinieri];

-- agli artt. 110, 624 e 625 nn. 2 e 7, cod. pen. [perché, in concorso con le persone dianzi indicate, al fine di trarne profitto, si impossessava dell’autovettura utilizzata per commettere la rapina, sottraendola ad ***** – furto denunciato il 9.12.2006]

e – con le già riconosciute circostanze attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti contestate, essendo stati unificati tutti i reati nel vincolo della continuazione – rideterminava la pena principale complessiva (con la diminuente per il rito) in anni tre di reclusione ed euro 600,00 di multa, revocando la pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici.

Avverso tale sentenza il ***** ha proposto tempestivo ricorso per cassazione, deducendo:

a) erronea applicazione dell’art. 43 cod. pen. e carenza e contraddittorietà della motivazione quanto alla ritenuta sussistenza dell’elemento psicologico del dolo eventuale con riferimento ai reati di lesioni e danneggiamento.

Il ricorrente afferma di non avere voluto in alcun modo cagionare il danneggiamento dell’autovettura dei Carabinieri e le lesioni dei militari operanti, poiché il suo unico scopo era quello di fuggire, senza prevedere e volere lo scontro tra i veicoli, laddove sarebbero stati i Carabinieri, invece, a speronare l’auto sulla quale egli viaggiava;

b) erronea configurazione della sussistenza dell’aggravante dell’uso di un’arma, ex art. 628, comma 3 - n. 1, cod. pen.: la chiave per svitare i bulloni delle ruote non potrebbe in alcun modo considerarsi “arma”, seppure impropria, ed egli comunque non la avrebbe utilizzata con finalità aggressive o di minaccia;

c) incongruo diniego delle attenuanti di cui ai nn. 4 e 6 dell’art. 62 cod. pen.

Il ricorrente, al riguardo:

-- censura che la Corte territoriale abbia ritenuto di non dovere riconoscere l’attenuante del risarcimento del danno (art. 62, n. 6, cod. pen.) per avere l’attività riparatoria riguardato soltanto il reato di rapina e segnala che, sul punto, vi è un contrasto giurisprudenziale che dovrebbe essere risolto ritenendo che il reato continuato sia un’unità fittizia, come si desumerebbe anche dalle disposizioni introdotte dalla legge n. 251 del 2005;

-- lamenta altresì che incongruamente non sia stato considerato “di speciale tenuità” (art. 62, n. 4, cod. pen.) il danno prodotto con la sottrazione di 30 euro e tre telefoni cellulari;

d) contraddittorietà tra dispositivo e motivazione nella quantificazione della pena e nel calcolo degli incrementi della pena-base per i reati in continuazione;

e) vizio di motivazione in ordine alla mancata dichiarazione di prevalenza delle riconosciute attenuanti generiche sulle aggravanti contestate, poiché non sarebbero state opportunamente valutati la modestia del proprio apporto alla complessiva azione criminosa, l’offerta risarcitoria formulata alle vittime della rapina e la sua giovane età.

La II Sezione penale di questa Corte Suprema, assegnataria del ricorso – con ordinanza dell’1.7.2008 (depositata il 24.9.2008) – ha rimesso il suo esame alle Sezioni Unite, rilevando l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale in ordine alla applicabilità delle attenuanti di cui ai nn. 4 e 6 dell’art. 62 cod. pen. nell’ipotesi di una pluralità di reati unificati nel vincolo della continuazione, poiché sul punto è rinvenibile un orientamento secondo il quale, per il principio della unitarietà, le valutazioni attenuative debbono riferirsi a tutti i reati unificati e non solo a quello più grave o a taluno di essi, a fronte di altro e diverso indirizzo che afferma l’autonomia giuridica delle singole violazioni e riferisce la possibilità di dette valutazioni a ciascuno e non necessariamente a tutti gli altri reati concorrenti.

Il Primo Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite penali a norma dell’art. 618 c.p.p., fissando per la trattazione l’odierna udienza pubblica.

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

 

1. La questione controversa sottoposta all’esame delle Sezioni Unite inerisce al terzo motivo del ricorso e consiste nello stabilire “se, nel caso di reato continuato, ai fini dell’applicazione dell’aggravante di cui all’art. 61, n. 7, cod. pen. e delle attenuanti di cui all’art. 62, nn. 4 e 6, cod. pen., debba tenersi conto del danno complessivo ovvero di quello cagionato da ogni singolo reato”.

Essa si correla all’unica tra le eccezioni poste dal ricorrente che presenta profili di fondatezza ed appare perciò opportuno premetterne l’esame alle altre doglianze svolte con l’atto di gravame.

2. In relazione a tale questione si rinvengono effettivamente contrasti nella giurisprudenza di legittimità.

2.1 Per quanto attiene all’attenuante di cui all’art. 62 - n. 6, cod. pen.:

a) un primo orientamento giurisprudenziale (fino ad oggi prevalente) ritiene che, nell’ipotesi di reato continuato, detta circostanza attenuante sia applicabile solo quando il risarcimento integrale del danno sia intervenuto in relazione a tutti i fatti avvinti dal vincolo della continuazione e non solo per quello più grave o per taluno di essi [così, tra le molteplici decisioni, Cass.: Sez. VI, 8.5.2003, Kolli; Sez. II, 24.2.1994, Perfetti; Sez. II, 31.5.1990, Bevilacqua; Sez. VI, 17.3.1987, Contarin; Sez. IV, 25.9.1985, Di Salvatore; Sez. II, 8.2.1985, Procida; Sez. II, 17.10.1983, Gabba; Sez. VI, 7.10.1983, Romano; Sez. II, 11.6.1983, Bocchicchio; Sez. II, 27.11.1982, Camorali; Sez. V, 26.5.1982, Apis; Sez. II, 21.4.1982, Ciofani; Sez. II, 13.1.1982, Campese; Sez. V, 7.1.1982, Viale; Sez. V, 10.11.1980, Tarzaghi; Sez. VI, 18.12.1978, Martino; Sez. V, 22.7.1977, Celotto];

b) altro orientamento, invece, afferma che, nel reato continuato, la circostanza attenuante della integrale riparazione del danno deve essere applicata pure se il risarcimento non concerna tutte le violazioni ma soltanto quella più grave o altro dei singoli illeciti confluiti nel medesimo contesto [così Cass.: Sez. I, 1.6.1990, Sassolino; Sez. II, 9.3.1990, Drago; Sez. II, 10.3.1984, Messina; Sez. II, 3.2.1971, Quatela].

2.2 Anche in riferimento all’attenuante di cui all’art. 62 - n. 4, cod. pen.:

a) in alcune pronunzie è stato affermato che la valutazione della speciale tenuità del danno, nel caso di reato continuato, va effettuata non in relazione all’importo complessivo delle somme contestate, ma con riguardo al danno cagionato per ogni singolo fatto reato [così Cass.: Sez. VI, 24.7.2007, Bortolotto; Sez. III, 2.12.1993, Lamanna; Sez. II, 11.4.1989, Pizzo];

b) in altre decisioni si è precisato che, per la concessione dell’attenuante in oggetto, è sufficiente che essa ricorra in relazione al reato ritenuto più grave [vedi Cass., Sez. II: 14.1.1992, Cantoni e 25.5.1988, Scida];

c) secondo un diverso orientamento, invece, l’attenuante può essere concessa soltanto ove ricorra in tutti i fatti unificati nel vincolo della continuazione [così Cass.: Sez. VI, 24.1.1990, Corsi; Sez. II, 22.6.1989, Ravasio; Sez. II, 6.7.1987, Nani].

2.3 Per ciò che concerne, infine, l’aggravante di cui all’art. 61, n. 7, cod. pen.:

a) un prevalente indirizzo ha affermato il principio secondo il quale, in caso di reato continuato, valendo, in mancanza di tassative esclusioni, il principio della unitarietà, la valutazione in ordine alla sussistenza o meno dell’aggravante del danno di rilevante gravità deve essere operata con riferimento non al danno cagionato da ogni singola violazione, ma a quello complessivo cagionato dalla somma delle violazioni. Non è necessaria, cioè, la sussistenza della rilevante gravità del danno patrimoniale in relazione ad ogni singolo reato, potendo ravvisarsi la cennata circostanza in relazione al reato continuato, a tal fine considerato unitariamente [così Cass.: Sez. VI, 22.9.2005, Garacci; Sez. II, 27.3.2003, Miragliotta; Sez. II, 21.10.2000, Vignuzzi; Sez. VI, 14.12.1999, De Vecchis; Sez. II, 5.7.1989, Baraldi];

b) altre decisioni, invece, si sono espresse nel senso che nell’ipotesi di una pluralità di reati unificati dal vincolo della continuazione, la determinazione del danno patrimoniale di particolare gravità, ai fini della sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 61, n. 7, cod. pen., deve essere fatta con riferimento a ciascuno dei reati concorrenti, posto che l’unificazione è finzione giuridica solo quoad poenam, mantenendo i singoli reati ogni loro caratteristica e particolarità immutata in relazione a qualsiasi altro istituto giuridico [così Cass.: Sez. I, 23.7.1984, Boscariol; Sez. VI, 27.1.1984, Parmiggiani; Sez. II, 7.8.1980, Calvani].

3. I contrasti giurisprudenziali di cui si è dato conto dianzi rientrano in un contesto il cui denominatore comune consiste nella contrapposizione di una considerazione unitaria del reato continuato a fronte della diversa prospettiva dell’autonomia giuridica delle singole violazioni che nel reato continuato confluiscono.

E – quanto alla questione pregiudiziale della natura giuridica e della disciplina dell’istituto della continuazione – queste Sezioni Unite, già con la sentenza 30.6.1994, n. 14, Ronga [che fissò il principio della scindibilità, nel corso dell’esecuzione, del cumulo giuridico delle pene irrogate per il reato continuato, ai fini della fruizione dei benefici penitenziari] ebbero ad evidenziare che la unitarietà del reato continuato “deve affermarsi là dove vi sia una disposizione apposita in tal senso o dove la soluzione unitaria garantisca un risultato favorevole al reo, non dovendo e non potendo dimenticarsi che il trattamento di maggior favore per il reo è alla base della ratio, della logica, appunto, del reato continuato”.

Non vi è, quindi, una struttura unitaria da assumere come punto di partenza di rilievo generale. Al contrario, la considerazione unitaria del reato continuato richiede due condizioni: deve essere espressamente prevista da “apposita disposizione” o, comunque, deve garantire un risultato favorevole al reo. Ne deriva che al di fuori di queste due ipotesi non vi è alcuna unitarietà di cui tener conto e, di conseguenza, vige e opera la considerazione della pluralità dei reati nella loro autonomia e distinzione che, pertanto, costituisce la regola.

Trattasi di orientamento poi ribadito dalla successiva sentenza 26.2.1997, Mammoliti [in tema di computo dei termini di durata massima della custodia cautelare].

Le Sezioni Unite, del resto, avevano già enunciato il principio della scissione del cumulo con la sentenza 16.11.1989, Fiorentini, in tema di applicazione dell’indulto a reati unificati nel vincolo della continuazione (alcuni dei quali non compresi nel provvedimento di clemenza) e tale principio hanno ribadito con la sentenza 24.1.1996, Panigoni (relativa ad indulto denegato sulla base “della natura globale della pena”)

Quanto agli effetti della scissione del reato continuato, la citata sentenza Ronga precisò che, “per effetto dello scioglimento del cumulo, … ciascuna fattispecie di reato riacquista la sua autonomia, sia quanto a pena edittale, sia quanto a pena applicata o applicabile in concreto”.

4. La Corte Costituzionale:

-- già con la sentenza n. 115 del 1987 aveva rilevato che, dopo la riforma introdotta dall’art. 8 del D.L. 11.4.1974, n. 99, convertito nella legge 7.6.1974, n. 220 [con la quale era stata modificata la formulazione originaria dell’art. 81 cod. pen., estendendosi il trattamento sanzionatorio previsto per il reato continuato all’ipotesi di violazione di disposizioni di legge diverse], essendosi introdotta una nozione eterogenea di reato continuato, non conservava più importanza il problema dell’unità reale o fittizia dei reati, “visto che nella realtà esistono più reati ontologicamente distinti che vengono unificati a fini sanzionatori”, e lo stesso Giudice delle leggi aveva testualmente aggiunto che “ogni qualvolta l’unificazione sia per risolversi a danno dell’imputato, è lecito operare la scissione, parziale o totale, a seconda che lo richieda il favor rei”;

-- con la sentenza n. 361 del 1994 aveva poi espresso esplicitamente adesione, in caso di reati unificati dal vincolo della continuazione, allo “insegnamento giurisprudenziale della necessità dello scioglimento del cumulo in presenza di istituti che, ai fini della loro applicabilità, richiedano la separata considerazione dei titoli di condanna e delle relative pene”;

-- con la più recente sentenza n. 324 del 2008 [riferita ai rapporti tra cessazione della continuazione e computo del termine prescrizionale, in presenza di una pluralità di condotte avvinte dal medesimo disegno criminoso, alla stregua delle modifiche apportate all’art. 158 cod. pen. dall’art. 6, comma 2, della legge n. 251/2005], infine, ha rilevato che la previgente formulazione dell’art. 158 cod. pen. non costituiva espressione di una regola generale di unitarietà del reato continuato e va riguardata come norma speciale, dovendosi individuare, al contrario, quale disciplina di carattere generale, quella che considera autonomamente ciascun reato legato dal vincolo della continuazione (disciplina alla quale la Consulta ha ritenuto che si è appunto allineato il nuovo art. 158 cod. pen.).

5. Tenuto conto della evoluzione normativa della relativa disciplina, nonché delle argomentazioni dianzi compendiate svolte dalle Sezioni Unite e dal Giudice delle leggi, deve ritenersi – a giudizio del Collegio – definitivamente superata la concezione dell’unitarietà del reato continuato.

Già la riforma del 1974 all’art. 81 cod. pen. aveva incrinato detta concezione, facendo perdere al reato continuato quella caratteristica essenziale, data dall’omogeneità delle violazioni, che costituiva l’originaria condizione per la riconducibilità ad un unico reato delle plurime condotte illecite sorrette dalla identità del disegno criminoso. La stessa riforma, inoltre, aveva significativamente soppresso l’inciso – prima contenuto nel 3° comma dell’art. 81 – per il quale “le diverse violazioni si considerano come un solo reato”.

Il recente intervento novellistico, attuato dall’art. 6, comma 2, della legge 5.12.2005, n. 251, ha eliminato poi la disposizione, contenuta nella formulazione originaria dell’art. 158 cod. pen., per la quale nel reato continuato il termine di prescrizione decorreva dalla cessazione della continuazione, con la conseguenza che ogni reato tra quelli posti in continuazione criminosa con altri ha ormai un proprio termine di decorrenza iniziale della prescrizione, da fissarsi secondo le regole di cui allo stesso art. 158 cod. pen.

Anche a tali effetti, dunque, non opera più l’inscindibilità del reato continuato e viene confermata l’autonomia delle singole violazioni, sicché in definitiva, poiché la disposizione di cui all’art. 158 cod. pen. nel testo abrogato rappresentava l’unica eccezione espressa ai principi ordinari, si può oggi affermare che la disciplina sostanziale del reato continuato è, in generale, quella ordinaria sul concorso materiale di reati.

Attualmente ciò che connota e distingue il reato continuato è solo la valutazione quoad poenam. Pure per la determinazione della competenza, infatti, l’art. 4 del vigente codice di rito (non essendo state più riprodotte le disposizioni di cui agli artt. 32 e 39 del codice previgente) esclude il reato continuato dagli elementi di individuazione della stessa e stabilisce testualmente che “per determinare la competenza si ha riguardo alla pena stabilita dalla legge per ciascun reato consumato o tentato” e che “non si tiene conto della continuazione …”.

Il reato continuato, dunque, va considerato anche a tali fini come una pluralità di illeciti.

Infine, a conferma delle esposte considerazioni, va aggiunto che l’art. 533, comma 2, c.p.p. prevede che “se la condanna riguarda più reati, il giudice stabilisce la pena per ciascuno di essi e quindi determina la pena che deve essere applicata in osservanza delle norme sul concorso di reati e di pene o sulla continuazione”.

Può allora concludersi – e in tale senso è altresì orientata l’unanime dottrina – che il reato continuato si configura quale particolare ipotesi di concorso di reati che va considerato unitariamente solo per gli effetti espressamente previsti dalla legge, come quelli relativi alla determinazione della pena, mentre, per tutti gli altri effetti non espressamente previsti, la considerazione unitaria può essere ammessa esclusivamente a condizione che garantisca un risultato favorevole al reo.

Va affermato, conseguentemente, il principio secondo il quale i reati uniti dal vincolo della continuazione, con riferimento alle circostanze attenuanti ed aggravanti, conservano la loro autonomia e si considerano come reati distinti.

Ne consegue che – rispetto all’aggravante della rilevanza economica del pregiudizio patrimoniale (art. 61, n. 7, cod. pen.) ed alle attenuanti della speciale tenuità (art. 62, n. 4, cod. pen.) e dell’intervenuto risarcimento (art. 62, n. 6, cod. pen.) – l’entità del danno e l’efficacia della condotta riparatoria devono essere valutate in relazione ad ogni singolo reato e non al complesso di tutti i fatti illeciti avvinti dal vincolo della continuazione. Ciò incide, ad evidenza: sulla individuazione del reato più grave; sulla determinazione della pena-base, nel caso in cui la sussistenza della circostanza riguardi la violazione ritenuta più grave; sulla determinazione del “quantum” dei rispettivi aumenti di pena, in caso di circostanza inerente ad uno ovvero a più tra gli altri reati posti in continuazione.

5.1 Nella fattispecie in esame la Corte di appello di Torino ha dato atto che l’imputato ha formulato una formale offerta risarcitoria (tramite lettera raccomandata del proprio legale in data 21.2.2007) alle persone offese del delitto di rapina (i minori ***** e *****), rimasta priva di riscontro, ed ha successivamente inviato, mediante vaglia postale del 15.5.2007, la somma di euro 250,00 al genitore dei minori suddetti. Ha però denegato il riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 62, n. 6 cod. pen., argomentando che tale risarcimento sarebbe da considerarsi parziale, perché riguardante soltanto i danni subiti dalle persone offese del delitto di rapina e non anche quelli conseguenti alle lesioni riportate dai carabinieri operanti, al danneggiamento dell’autovettura di servizio ed al furto dell’autovettura guidata dallo stesso *****.

Erronea deve ritenersi, al riguardo, per le ragioni dianzi esplicitate, l’applicazione del principio di diritto secondo il quale, nell’ipotesi di reato continuato, la circostanza attenuante in oggetto sarebbe applicabile esclusivamente allorquando il risarcimento integrale sia intervenuto in relazione a tutti i fatti avvinti dal vincolo della continuazione e non solo per taluni di essi.

Limitatamente a tale punto va disposto, in conseguenza, l’annullamento della sentenza impugnata, con rinvio – per nuova decisione – ad altra Sezione della Corte di appello di Torino.

La stessa Corte territoriale non ha riconosciuto, invece, l’attenuante di cui all’art. 62, n. 4 cod. pen. alla stregua di una considerazione autonoma dei distinti fatti di reato e, facendo corretto riferimento al valore oggettivo intrinseco dei beni sottratti (la somma di 30,00 euro ed i tre telefoni cellulari compendio della rapina; l’autovettura “*****” rubata ed utilizzata per commettere la stessa), razionalmente ha escluso che il danno cagionato alle rispettive parti offese possa ritenersi “di speciale tenuità”, ossia di rilevanza minima, non essendo sufficiente, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, che esso sia soltanto lieve.

Le eccezioni svolte al riguardo nel ricorso si riferiscono esclusivamente al delitto di rapina e risultano articolate soltanto in fatto, sicché esse devono considerarsi improponibili nel giudizio di legittimità, a fronte di una valutazione sorretta da logico e coerente apparato argomentativo.

6. Gli altri motivi di ricorso sono infondati, sicché in relazione ad essi il gravame deve essere rigettato.

6.1 Costituisce orientamento giurisprudenziale consolidato quello secondo il quale si è in presenza di dolo eventuale quando l’agente, ponendo in essere una condotta diretta ad altri scopi, si rappresenta la concreta possibilità del verificarsi di ulteriori conseguenze della propria condotta e, ciò nonostante, agisca accettando il rischio di cagionarle; quando, invece, l’ulteriore accadimento si presenta all’agente come probabile, non si può ritenere che egli, agendo, si sia limitato ad accettare il rischio dell’evento, bensì che, accettando l’evento, lo abbia voluto, sicché in tale ipotesi l’elemento psicologico si configura nella forma di dolo diretto e non in quella di dolo eventuale [vedi Cass.: Sez. Unite, 12.4.1996, n. 3571 e, più di recente, Sez. VI, 19.1.2007, n. 1367].

Nella fattispecie in esame correttamente è stato ravvisato dolo diretto dell’imputato in ordine al reato di danneggiamento dell’autovettura militare che lo aveva inseguito.

Secondo la ricostruzione dei fatti operata dai giudici del merito con puntuale riferimento alle acquisizioni probatorie, invero, il ***** si trovava alla guida dell’autovettura “*****” targata ***** e, dopo la consumazione della rapina, allorquando detto veicolo venne intercettato dall’autovettura di servizio dei Carabinieri, quegli, essendosi in un primo momento fermato, ripartì repentinamente mentre gli operanti si stavano avvicinando per eseguire gli opportuni controlli. Ebbe inizio così un inseguimento, nel corso del quale il ***** speronò volontariamente due volte il veicolo di servizio, facendolo ruotare di 90 gradi rispetto alla sua direzione, e pose poi in essere una serie di manovre finalizzate a deviare quello stesso veicolo nell’opposta corsia di marcia.

Quanto poi al reato di lesioni in danno del brigadiere ***** e dell’appuntato *****, deve evidenziarsi che il primo venne investito in seguito a manovra di retromarcia posta in essere dall’imputato nel tentativo di riprendere la fuga: manovra nell’effettuazione della quale l’investimento del sottufficiale, pur se non costituiva lo scopo finale della condotta, era altamente probabile sicché non il rischio dell’evento ma l’evento stesso venne accettato e quindi voluto. L’appuntato, invece, riportò lesioni per effetto degli speronamenti subiti nel corso dell’inseguimento, lesioni sicuramente possibili quali conseguenze di quella condotta, in relazione alle quali logicamente è stata ravvisata l’accettazione del rischio.

6.2 Dal disposto dell’art. 4, comma 2°, della legge 18.4.1975, n. 110 – secondo il quale devono ritenersi “armi”, sia pure improprie, tutti quegli strumenti, anche non da punta e da taglio, che, in particolari circostanze di tempo o di luogo, possano essere utilizzati per l’offesa alla persona – deriva che anche un attrezzo meccanico, quale una chiave per svitare bulloni, quando sia utilizzato a scopo di minaccia e in un contesto aggressivo, e quindi senza giustificato motivo, diventa uno strumento atto ad offendere e deve perciò considerarsi arma, anche ai fini dell’applicazione della relativa aggravante prevista dall’art. 628, comma 3° n. 1, cod. pen. [vedi Cass., Sez. II, 5.4.1991, n. 3760].

Nella specie fu il minorenne ***** ad intimare ai fratelli ***** la consegna dei cellulari e dei portafogli ed il ***** pose in essere una condotta sicuramente minacciosa, sia incitando il suo complice a “prendere il coltello” sia impugnando l’attrezzo meccanico e battendolo ritmicamente contro il palmo dell’altra mano.

6.3 Non è ravvisabile alcuna contraddittorietà tra dispositivo e motivazione nella quantificazione della pena e nel calcolo degli incrementi della pena-base per i reati in continuazione, poiché la sommatoria degli aumenti specificamente determinati, nella parte motiva, per ciascuno dei reati posti in continuazione (pari ad anni 4, mesi 6 di reclusione ed euro 900,00 di multa) conduce esattamente – tenuto conto della successiva riduzione per la scelta del rito abbreviato – alla pena finale inflitta nella misura di anni tre di reclusione ed euro 600,00 di multa.

6.4 Secondo la giurisprudenza di questa Corte Suprema:

-- il giudizio di comparazione fra circostanze attenuanti ed aggravanti, ex art. 69 cod. pen., è rimesso al potere discrezionale del giudice di merito, il cui esercizio deve essere bensì motivato ma nei soli limiti atti a far emergere in misura sufficiente il pensiero dello stesso giudice circa l’adeguamento della pena concreta alla gravità effettiva del reato ed alla personalità del reo;

-- il medesimo giudizio di comparazione risulta sufficientemente motivato già quando il giudice, nell’esercizio del potere discrezionale a lui demandato, scelga la soluzione dell’equivalenza, anziché della prevalenza delle attenuanti, ritenendola quella più idonea a realizzare l’adeguatezza della pena irrogata in concreto (Cass., Sez. I, 26.1.1994, n. 758);

-- anche il giudice di appello – pur non dovendo trascurare le argomentazioni difensive dell’appellante – non è tenuto ad una analitica valutazione di tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli, dedotti dalle parti ma, in una visione globale di ogni particolarità del caso, è sufficiente che dia l’indicazione di quelli ritenuti rilevanti e di valore decisivo, rimanendo implicitamente disattesi e superati tutti gli altri, pur in carenza di stretta confutazione (vedi Cass., Sez. VI, 4.9.1992, n. 9398).

Nella fattispecie in esame, la Corte di merito, nel corretto esercizio del potere discrezionale riconosciutole in proposito dalla legge, ha confermato il giudizio di equivalenza espresso dal primo giudice attribuendo rilevanza decisiva alla “estrema gravità oggettiva” delle condotte criminose accertate ed al “comportamento processuale ispirato alla ostinata negazione delle proprie responsabilità”, deducendone razionalmente significazioni negative della personalità dell’imputato.

P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione, a Sezioni Unite,

visti gli artt. 607, 615 e 623 c.p.p.,

annulla la sentenza impugnata limitatamente alla esclusione dell’attenuante di cui all’art. 62, n. 6. cod. pen. e rinvia – per nuova decisione sul punto – ad altra Sezione della Corte di appello di Torino.

Rigetta il ricorso nel resto.